ALITALIA: (NON?) ULTIMO ATTO
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E’ necessario rispolverare appena un po’ la memoria dei molti che dimenticano, anche perché obnubilati da un giornalismo (salvo rare eccezioni) falso e menzognero. L’Alitalia è stata sottoposta fin dall’inizio (dal governo di centrosinistra) ad una gara truccata. In realtà, è ormai netta e mi sembra generale l’impressione che i principali protagonisti governativi (il premier e il ministro dell’economia) volessero venderla ad Air France; così sono stati fatti scappare, uno dopo l’altro, gli altri possibili acquirenti in gara. Confusione è stata creata dall’intervento di AirOne che, a corto di soldi, aveva alle sue spalle la banca Intesa. Anche in questo caso, è generalmente ammesso che tale istituto finanziario abbia (o abbia avuto fino a ieri) come suo referente privilegiato in politica il sig. Prodi. Emblematico, infatti, di questa “vicinanza” è stato il caso Telecom, a partire dal “piano Rovati” (legato al premier uscente) che è stato fatto fallire da una “impennata” di Tronchetti. Poi però la strada, con qualche giravolta, è stata percorsa e oggi Intesa ha la sua bella presenza in Telecom.
Ritornando ad Alitalia, sembrava strano che Intesa ed AirOne si mettessero di traverso a ciò che le persone più sensate danno per scontato: Prodi-TPS avevano già deciso di vendere a Air France. Qualcuno ha ricordato il caso Sme (che si voleva s-vendere a De Benedetti, fin quando non intervenne Craxi, ecc. ecc.); ricorderei anche il caso Italtel venduta dall’Iri (mentre ne era presidente il “nostro”) alla Siemens, con risvolti strani sui cui le indagini giudiziarie, a suo tempo iniziate, sembrano del tutto scomparse. Non del tutto convincente comunque l’intervento di disturbo di AirOne (con dietro la grande banca vicina, si dice, al premier), ma alla fin fine è stato un elemento che ha contribuito a far fuggire gli altri concorrenti; mentre i piani presentati dalla compagnia italiana sono apparsi piuttosto fumosi, tanto da far pensare a qualcosa di molto improvvisato alla bell’e meglio onde far risaltare maggiormente l’ineluttabilità della scelta a favore dei francesi [in una recentissima intervista, De Carlo, vicepresidente dell’ANPAC il principale sindacato dei piloti, ha così risposto ad una domanda su come era stata valutata la proposta di AirOne: “Non è mai stata un’ipotesi, non ha solidità per dare sviluppo ad un vettore come Alitalia. Non l’abbiamo mai presa in considerazione”. Più chiaro di così!].
Non voglio comunque entrare qui in dietrologie; ho voluto solo ricordare alcuni antefatti di ciò che è accaduto negli ultimissimi tempi. Radicale eppur ambigua è stata invece l’opposizione alla vendita a Air France da parte dei sindacati ufficiali (e di quelli dei piloti) e dei vari difensori di Mal-pensa che, in effetti, ne esce al momento abbastanza malconcia. In tutto questo bailamme, è chiaro che la compagnia aerea francese, sicura di come sarebbe stata giocata la partita da parte italiana, ha posto condizioni tali da far risultare la cessione di Alitalia una vera svendita (è normale, visto che il “libero mercato” funziona solo nella testa dei liberisti). A questo punto, si è udito un altro “alto raglio”: quello di Berlusconi, dato però in “tre tempi” e con tonalità via via minori. Prima tonalità: una sicura e importante “cordata italiana” (con dentro anche i suoi figli); poi si è accorto che, data la propaganda (elettorale) negativa che si stava così facendo da solo, ha messo da parte i figli. Infine, tenuto conto che questa cordata restava misteriosa (comunque, tra i nomi solo ventilati, non vi era nessuno del ramo industriale cui appartiene la nostra compagnia aerea), ha detto che Air France potrebbe magari andare bene, solo moderando le sue condizioni capestro.
I sindacati, forse rincuorati (o forse no, tanto ormai ci si capisce poco), hanno alzato la voce e il francese Spinetta se ne è andato apparentemente scocciato. In realtà, è stata un’altra mossa tattica di chi sa che “qualcuno” gli ha ormai in pratica eliminato tutti i concorrenti (quelli che, “in ispirito”, esisterebbero nel “libero mercato”). Infatti, in molti (in modo bipartisan) hanno gettato la croce addosso ai sindacati, che hanno chinato la testa e chiesto – su spinta dei soliti Prodi e Tps – di tornare alle trattative. Veltroni, il “decisionista” (privo di decisione), ha detto di sperare in Air France, per l’ennesima volta allineandosi al vecchio governo, di cui fa finta di non essere il successore (divertente anche la sua sparata a Napoli sul disastro combinato con i rifiuti; come se lui non c’entrasse per nulla con il partito cui appartengono Presidente della Regione campana e sindaco di Napoli; mai
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viste simili facce di tolla). E il pasticcio Alitalia continua allegramente alle spalle di tutti i gonzi che abitano in questo paese di Pulcinella. Questa è comunque una settimana (quasi) decisiva.
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I lettori sanno quel che penso dei sindacati (mi riferisco alla Triplice più qualche “scheggia” corporativa): apparati di Stato, ormai marci, nient’affatto mantenuti dai loro iscritti (per metà pensionati), indefessamente schierati con la parte politica che poggia le sue fortune sul “pubblico”, sugli “improduttivi” (e soprattutto inutili), sui finanzieri e industriali decotti sempre bisognosi dell’aiuto statale. Non difenderò nemmeno questa volta simili organismi parassitari, adesso contestati perfino da chi si è sempre servito di loro (anche nell’attuale contingenza elettorale) per avere un buon bacino di voti utile a devastare il paese e ridurlo al “quarto mondo” (esagero, ma il senso del declino indotto da questa parte politica e sindacale è ben preciso, ed è al momento irreversibile, salvo eventi traumatici). Ciò non toglie che si pone un grosso problema per i lavoratori. Con simili sindacati, si troveranno presto in una congiuntura assai critica senza alcuna difesa veramente accreditata e dotata di un minimo di prestigio. Mi dispiace per i lavoratori: o si svegliano o altrimenti saranno sul serio “mazziati” di santa ragione.
La via è certo lunga e perigliosa, ma se mai viene intrapresa Deve appunto esserci una scel-
ta traumatica; d’altronde, i traumi sono a volte indispensabili per rompere i circoli viziosi e iniziare quelli virtuosi. I lavoratori debbono contribuire ad annientare questi sindacati, a dissolverli (non dico dall’oggi al domani, non certo però in tempi “secolari”). Nemmeno sostengo che si debba tornare alle Leghe ottocentesche; comunque, è indispensabile la ricostituzione, anche inizialmente disordinata come sempre in momenti di innovazione, di organismi che li rappresentino veramente. Quindi, innanzitutto, non deve esserci alcun finanziamento statale a nuove organizzazioni controllate dai lavoratori. Quelli ottocenteschi (in condizioni di miseria nera) riuscirono nell’intento di creare e finanziare le loro prime rappresentanze sindacali; possibile che non lo sappiano fare i lavoratori odierni? Lo so che non nuotano nell’oro (anche perché nei nostri tempi sussistono ormai modalità di vita, e dunque bisogni acquisiti, del tutto impensabili in epoche lontane); inoltre adesso, per la prima volta dal dopoguerra, c’è un reale arretramento di reddito (per almeno il 70-75% della popolazione, se non qualcosa in più) rispetto agli anni passati. Tuttavia, è indispensabile un primo drastico passo: sciogliere gli attuali apparati sindacali, burocrazie costose e poco efficaci, tornando a rappresentanze elette (e revocabili) dai lavoratori, i quali devono decidere se e quanto pagare – a loro spese – eventuali “funzionari” (brutto termine già di per suo). Insomma, ci siamo capiti.
Se come pare per lo più sicuro, arriverà a breve una brutta crisi (ci siamo già dentro, il problema è però di quanto si aggraverà tra qualche mese e nel 2009), non si può pensare di evitarla, così come ciarlano i due schieramenti politici dimostrando di essere composti da una massa di irresponsabili e inetti farfalloni. La crisi farà il suo corso; se sarà grave oppure no, dipende assai poco dalle scelte di chicchessia, tanto meno da quelle degli economisti, dei tecnici finanziari, dei vari organismi incapaci di adottare – anche se fosse possibile – misure dirimenti. Le situazioni di crisi – che non sono solo economiche, questa è pura ideologia economicistica – sono tuttavia periodi in cui si apre il ventaglio dei potenziali cambiamenti, da realizzare con le debite “scosse”. Una di queste, assai salutare, sarebbe appunto di togliere ogni boccata d’ossigeno alle organizzazioni sindacali ormai incrostatesi – vere mignatte attaccate al “corpo” dei lavoratori – per ricreare ex novo ben diverse rappresentanze di lotta. Guai però se si riprendesse a pensare come quei sopravvissuti che ancora blaterano sulla fine del capitalismo e su un nuovo comunismo. Bisogna evitare che costoro provochino ulteriori danni.
Ripensando la nostra storia, devo dire che resto tuttora convinto dell’errore commesso dalla CGIL con il suo “piano di ricostruzione nazionale” proposto subito dopo la guerra. Certamente, era giusto tenere conto dei “patti di Yalta” e di dove era situata l’Italia; a quel tempo, inoltre, si pensava che l’Urss (uscita vincitrice dalla guerra come gli Usa, e assai di più di Inghilterra e Francia, che lo
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erano solo di facciata, mentre ormai decadevano al rango di paesi egemonizzati da quello capitalistico predominante) fosse la garanzia dell’avanzata generale del “socialismo”; la successiva vittoria dei comunisti in Cina, il movimento dei “non allineati” (che condusse all’importante conferenza e accordo a Bandung nel 1955), ecc. sembrarono confermare tali convinzioni.
Tuttavia, fu un grave errore contribuire attivamente alla rinascita di un capitalismo italiano ottuso e reazionario, ormai succube di quello americano (lo era già durante la guerra; i principali settori industriali furono fra i primi a favorire i segreti contatti con gli Alleati, preparando il 25 luglio 1943 e il cambio di campo l’8 settembre); ne seguirono le gravi repressioni (con fior di morti ammazzati per le strade) da parte della Celere di Scelba, la scissione sindacale patrocinata dagli Usa, il clima irrespirabile (per i lavoratori) nelle fabbriche con i vari “reparti confino” come alla Fiat. C’è tuttavia un elemento di quel periodo che va debitamente ricordato: i comunisti – e quelli italiani in particolare, grazie anche all’insegnamento gramsciano (che tutte le varie “schegge internazionaliste” non hanno mai capito nel loro dottrinarismo astratto) – hanno sempre voluto rappresentare gli interessi di un intero paese. Erano logicamente, dati i tempi, obnubilati dall’ideologia della Classe (operaia) come salvatrice della “futura umanità”, ma attenti al tentativo di riunire, almeno come programma, la gran massa della popolazione.
Solo che fare gli interessi di un intero paese non significa solleticare indistintamente quelli di tutti i raggruppamenti sociali che nel paese vivono e “alloggiano”. E’ necessario scontrarsi violentemente con i gruppi dominanti, quelli più reazionari in specie, che puntano esclusivamente ai propri gretti vantaggi, e che controllano gli apparati egemonici avendo soldi a sufficienza per corrompere ceti politici e intellettuali onde farli funzionare a loro favore. L’egemonia non è però nemmeno soltanto il controllo dei media (questo il semplicismo disarmante di chi crede che avere in mano la TV sia tutto); i dominanti devono riuscire – proprio tramite i ceti politico-intellettuali al proprio servizio – a cogliere approssimativamente la scomposizione in atto tra i dominati (a causa dello sviluppo capitalistico), riuscendo a cristallizzarne le divisioni in modo da creare una reciproca conflittualità che fa da “cuscinetto protettore” verso l’alto, consentendo così alle frazioni dominanti peggiori di fare il bello e il cattivo tempo a loro piacimento e profitto.
Battersi per una prospettiva generale, che riguardi il paese (o sistema-paese), significa allora scardinare questa egemonia in una lotta durissima contro quei gruppi dominanti che, nel dopoguerra (a causa dei patti internazionali e dei lunghi contatti sempre tenuti con il capitalismo americano), avevano acquisito un netto predominio. Il piano per la ricostruzione nazionale della CGIL era in fondo assai ristretto di vedute, molto sindacalista e “operaista”, tutto centrato sul “salvare le fabbriche” (cioè i posti di lavoro); obiettivo più che comprensibile, soprattutto in quei tempi di devastazione e miseria (e di forte emigrazione), ma non all’altezza delle intenzioni di chi voleva veramente rappresentare, così come dichiarava nei programmi, gli interessi dell’intera nazione. Vi era poi la schiavitù ideologica mutuata da una concezione meramente statalista del socialismo, per cui si pensava che sempre e comunque il “pubblico” fosse preferibile al “privato”. Così ci si batté per un rafforzamento dell’apparato statale, dove era ancora infiltrato – e a livello dirigente – tutto il vecchio personale fascista riciclatosi in democristiano (magari passando per qualche mese o un anno per il partito comunista; in particolare, per il suo centro studi di economia, quello che pubblicò per anni la bella rivista Critica economica, diretta anche dal mio Maestro).
Fortuna ha voluto, ma per caso, che un uomo notevole come Mattei fondasse un’impresa “pubblica” (ENI) dirigendola da “monarca”, pagando lui i vari partiti (tutti!); tuttavia, in generale, l’apparato pubblico – che aveva in mano circa il 50% dell’industria (e ancor più delle banche) – era succube di interessi, e lotte, politiche; un po’ come nel falso socialismo (e reale statalismo) del “campo socialista”; solo che da questa parte del mondo funzionava da battistrada del predominio statunitense. Sarebbe ora che gli storici ristudiassero il periodo al di fuori della coppia ideologica: pubblico-privato. Il Pci appoggiò sempre l’apparato pubblico consentendo quindi di fatto, malgrado le dichiarazioni di intenti relative all’alleanza “tra produttori” (operai e piccoli imprenditori), il reale rafforzamento del grande capitale – diventato il più reazionario e arretrato dopo il periodo della ri-
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costruzione e del boom – di cui però, trasformandosi da partito almeno piciista in disgustosa sinistra, divenne alla fine il migliore rappresentante; talché Agnelli poté affermare che i suoi interessi di destra erano meglio rappresentati dalla sinistra ex-piciista. Cosa fanno di diverso oggi i Montezemolo e la Marcegaglia, i Bazoli e i Profumo, i Colaninno e i Calearo, gli Illy e i Soru? Tutti con la sinistra, che li rappresenta senza più residui! E con la sinistra detta ridicolmente “radicale” che finge opposizione e offre continuo sostegno!!
Il PCI – nella sua fase almeno piciista, in cui ancora si scontravano un ceto “piccolo-borghese” con aspirazioni a crescere socialmente e un “operaismo” culturalmente arretrato e solo sindacale, pur se intriso di lotte dure e di reale solidarismo, ormai ricordato con semplice nostalgia o considerato patetico da buona parte delle “giovani leve” – non fu capace di reale egemonia; sembrava il contrario, ma perché erano vicini al PCI vari intellettuali (giornalisti, scrittori, registi cinematografici, ecc.) che in realtà pensavano solo ad un ammodernamento dell’Italietta, non certo a prospettive di “egemonia della Classe Operaia”, pur se di questa molti si sciacquarono la bocca, credo in buona fede ma con tanta superficialità. Siamo comunque ormai arrivati alla resa dei conti. Quell’epoca è finita e, pur ammettendo la sincerità e onestà dei ritardatari e dei nostalgici, deve essere sbaraccata via un’intera storia: da non dimenticare mai, ma da consegnare definitivamente al passato. Non bisogna dimenticare – come fanno i meri presenzialisti – perché dalla riflessione sul passato (ivi compresi gli errori e le ingenuità) si può ancora (e sempre) imparare; ma proprio con quello spirito che è nel detto popolare: “impara l’arte e mettila da parte”. Andare avanti significa non scordare, ma mettere appunto da parte per ripensare il nuovo.
Attualmente, dunque, le schegge ancora “comuniste” (sempre goffamente o stataliste o anarcomovimentiste e populiste) debbono essere abbandonate a loro stesse; i sedicenti marxisti – quelli con la “testa di cemento” o gli “innovatori” che riducono Marx a un socialista romantico e utopista – vanno radicalmente rifiutati. Nessun dialogo più con simili avanzi di una digestione mal riuscita. Coloro che, con sincerità, hanno rimesso in discussione (ma effettivamente e senza zone d’ombra) il loro passato attaccamento alle vecchie rivoluzioni (contro e dentro il capitale), devono riflettere su un periodo futuro (relativamente prossimo) probabilmente denso di avvenimenti gravi, che investiranno nuovamente le nostre aree di capitalismo avanzato (da sessant’anni relativamente quiete); un futuro largamente ignoto, che ancora non leggiamo bene perché siamo in forte ritardo nel costruire nuove lenti adatte all’uopo.
Pochi, al momento, gli indizi che vanno colti, a livello di ipotesi (da sondare però senza incertezze e indecisioni), negli andamenti dei tempi che stiamo vivendo. Insisto che il principale è quello relativo all’avvio di una nuova fase policentrica (e spero sia ormai chiaro ai lettori che cosa intendo significare con tale termine); non però da dare per scontata, e non credendo che ad essa ci si avvii in modo lineare senza molte curve e (apparenti o reali?) ritorni all’indietro. La fase è molto incerta, e l’eventuale crisi che si potrebbe abbattere sul sistema mondiale non è detto non serva, nel giro di qualche anno, a rallentare più che ad accelerare l’avvento del suddetto policentrismo (il 1929 fu più terribile negli Usa che altrove, ma alla fine delle turbolenze, continuate con la seconda guerra mondiale, questo paese emerse come la prima potenza del globo). Cerchiamo di capire che la Storia non è governata dalle “ineludibili leggi” di certi pseudomarxisti con il cervello irrigidito.
Non esiste “la classe” (rivoluzionaria) e tanto meno le “moltitudini” (frutto di aperta mala fede o di cervelli malati?). Anche la “masse rivoluzionarie” del terzo mondo non sono più di moda. Esistono popoli oppressi (e non solo dall’impero americano), ma le loro lotte non sembrano affatto poter conseguire, da sole, risultati eclatanti; inoltre, se non si tiene conto della configurazione mondiale dei rapporti di forza (che per il momento non è policentrica, ma solo, per ipotesi, indirizzata in tal senso), si prenderanno cantonate tali da appoggiare anche chi, in ultima analisi, favorisce l’attuale predominio statunitense e ostacola il sorgere delle nuove potenze a est. Detto fuori dai denti, e come semplice esempio: appoggio determinato al mondo arabo e islamico quando si scontra, per conquistare una sua autonomia, contro il “malefico” duo Usa-Israele; nessun appoggio ad alcuna corrente religiosa, etnica, o altro che danneggi Russia, Cina e paesi emergenti quali nuove poten-
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ze. Mi dispiace, ma oggi l’elemento più mobile, e che può infine mettere in discussione il potere dei gruppi dominanti – quelli predominanti centrali (Usa) e quelli subdominanti dei capitalismi comunque avanzati – è il conflitto policentrico, non la mitica (nella testa di credenti laici) “lotta di classe”. E il policentrismo è ancora ben lungi dall’essere saldamente in marcia.
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E in Europa? E in Italia che è paese ancora importante in tale area? E’ definitiva la deriva che hanno avuto i comunisti (piciisti) diventati poi sinistra sempre più moderata (anche quella radicale). Soprattutto è evidente la subordinazione crescente dell’intera area (compresa ormai la Francia, supina come non mai), e dell’Italia in specie, agli Usa. Al momento, siamo in un tornante (lungo) di tumultuoso cambiamento. E’ certamente necessario comprendere meglio quanto è avvenuto nel nostro passato (gli storici non fanno affatto il loro dovere, restano attaccati a vecchie ideologiche interpretazioni dello stesso), ma intanto è d’obbligo cambiare completamente di registro. Nemmeno qui da noi, com’è logico, esiste alcuna Classe che abbia missioni salvifiche da compiere; si nota “in alto” una non spessa couche (“internazionalizzata”), mentre “in basso” sta una piccola base (direi un 8-10%; ed è già tanto) di terriccio e sbriciolamento, che è l’equivalente (ma non simile), nei paesi capitalistici avanzati, del sottoproletariato dell’ottocento e primi novecento. Infine, vi è la grande maggioranza della popolazione costituita da un vasto ammasso sostanzialmente intermedio (anche ai livelli salariali bassi), estremamente variegato e differenziato, in cui si stanno però da alcuni anni producendo sommovimenti tali da creare una netta distanza, quanto a reddito, tra strati superiori e inferiori (decisamente maggioritari).
Esistono non meno di due terzi di popolazione che si stanno di fatto impoverendo (pur nei termini relativi all’epoca attuale del capitalismo avanzato, sia chiaro). All’interno di quest’ampia porzione sociale stanno gli operai (e i lavoratori salariati degli strati più bassi) ma non la classe degli stessi. Basta pensare nei termini dell’aggravarsi delle condizioni di vita che spingerà alla rivoluzione. Balle! Anzi, è ora di mettere una certa sordina alla differenza tra rivoluzione dentro e contro il capitale. Si faccia attenzione: non sto sostenendo che vada dimenticata (errore imperdonabile), solo si deve porla in secondo piano in questo passaggio di fase (la cui lunghezza non è esattamente prevedibile). Accanto agli operai (e lavoratori salariati degli strati inferiori, in genere) stanno vastissimi settori di lavoratori detti autonomi, la cui maggioranza è anch’essa a redditi medio-bassi e, nell’attuale congiuntura, stagnanti o decrescenti (in termini reali). Né dipendenti né autonomi sono oggi “attrezzati” a rivoluzioni di sorta (al massimo potrebbero fare da massa di manovra per sommovimenti dall’indirizzo incerto). Tra questi due segmenti del lavoro vi sono reali motivi di attrito e diffidenza, che non vanno attizzati ma contrastati insistendo sugli interessi comuni e sulla reciproca tolleranza.
Non ci si muove in questa direzione se si insiste esclusivamente sul solito conflitto capitale/lavoro (sottinteso: operaio o dei lavoratori a basso salario) appartenente ad una ideologia ormai superata. La lotta va portata ad ampio raggio per un aumento, o comunque per una difesa, dei medio-bassi redditi in generale. Una lotta che privilegi gli operai (e i salariati) – tenuto conto che la società non è divisa in classi secondo il modello che hanno ancora in testa i residui “marxisti” – è nei fatti corporativa e favorisce pienamente il divide et impera degli strati più parassitari del grande capitale (finanziario e industriale). Tuttavia, si deve avere ben presente: a) che ci saranno anni di crisi o di stagnazione, con sconnessione e sfilacciamento del tessuto sociale; b) che non si difende il livello di reddito di vasti strati popolari dalla diminuzione (o stasi) se non si rovescia, nell’attuale fase, la “tecnica” di divisione dell’avversario, rivoltandola verso l’alto, contro i dominanti.
Tempo e spazio sono tiranni e sono costretto a troncare lasciando un “non detto”. Tornerò quindi, riprendendo da qui, dal punto di interruzione. Concludo con una piccola maledizione alla forma del blog che trancia la riflessione, la strozza.
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