ANCORA L’ESSENZIALE
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(13 giugno)
Non vorrei si creassero altri fraintendimenti. Se tratto ancora di problemi legati al comunismo e marxismo, non è certo perché sia minimamente interessato al dialogo con quelle piccole sette esoteriche, ormai sclerotiche, che continuano ad affannarsi sul ripristino dei vecchi simboli e bandiere, sul ritrovamento (archeologico) del “soggetto-dinosauro” che farebbe la rivoluzione (quella del “Sole dell’Avvenire”, intendo dire), sulla fedeltà cieca e assoluta a quanto affermato da grandi pensatori di ormai 100 e 150 anni fa. Nessuna intenzione da parte mia di continuare un qualsiasi dialogo con mentecatti, da una parte, e mascalzoni, dall’altra, che tentano di rinviare il loro rientro in lavori normali e utili alla “collettività”, continuando in squallidi intrallazzi detti politici, in realtà solo elettorali, atti a riconquistare da qualche parte un posticino nel “dolce far niente” dell’impiego in Enti inutili (fra i quali annovero anche le due Camere e Palazzo Chigi).
Si sarà notato che, dopo l’ “indomito coraggio” di Coniglio-Veltroni di non fare accordi con la paralizzante sinistra “radicale”, nel disperato tentativo di rimontare un po’ la china in vista delle elezioni politiche tenute dopo due anni di disastri prodiani, il Pd ha ricominciato in tutte le elezioni locali successive (ed anche in quelle di domenica prossima in Sicilia) a ristabilire collegamenti e schieramenti con tutti i frantumi della sinistra suddetta. No, con gente del genere non si va da nessuna parte. Sarò molto sgravato di un peso quando avrò la netta sensazione che questi rancidi avanzi di una pessima digestione non leggeranno più ciò che scrivo; non è scritto per loro, non è scritto per chi non supera il livello intellettivo di una scimmia (non mi riferisco a quelle erette, non certo al bonobo, della cui lettura sarei ancora tutto sommato onorato).
Il vero fatto è che non bisogna confondere questi intriganti e sclerotici, che hanno da lunga pezza rubato e usurpato le etichette di comunista (e di marxista), con quello che è stato un grande processo storico. Quel processo che solo dei reazionari di grande ottusità – come quelli che allignano nella “destra” usuale: una raccolta di “brutti individui” che non ha nulla da invidiare a quella dei suoi avversari – tentano in tutti i modi di far passare quale sequela di delitti originati dai vaneggiamenti di un uomo, capace di far soffrire l’indigenza a tutta la famiglia pur di pavoneggiarsi con il suo vuoto sapere. Anche se poi, come ho rilevato nell’ultimo intervento, alcuni furbastri, tra questi “imbrogliacarte” reazionari, fingono magari un’ammirazione per quest’uomo, limitando le sue elaborazioni teoriche alla scoperta delle “bellezze” – mercato e sviluppo produttivo – del capitalismo.
Con il 1848, anno del Manifesto di Marx, inizia veramente una “nuova era”; che ha poi subito svariate involuzioni – e nuovi forti rilanci di vitalità e forza di cambiamento radicale dei connotati sociali delle successive epoche – per tutta la seconda metà dell’800 e per più di metà del ‘900. Non ho voglia di stilare adesso una storia di questi cent’anni (e più) né, tanto meno, di situare in una precisa data la fine di quell’era. Essa è però finita, e non da ieri. Coloro che la “strascicano” – per i loro piccoli e miserabili interessi legati al mestiere di politicanti d’accatto – non meritano che disprezzo, così come lo meritano quei piccoli manipoli, costituiti da vegliardi ormai stanchi e da giovinastri “schioppati”, che li seguono.
Quando un grande processo storico è finito, e non può essere resuscitato in alcun modo, l’atteggiamento di chi l’ha quanto meno studiato (e forse pure vissuto qualche scampolo del suo tramonto) deve essere quello che ho adombrato nel mio “Tutto torna, ma diverso”. La Storia non è finita, come cercano di sostenere improbabili “profeti” del puro nulla. E’ sicuro che siamo in un’epoca di transizione, in cui nuovi processi di tumultuoso cambiamento – non solo quelli sostanzialmente provocati dalle odierne tecnologie e dai mutamenti del cosiddetto costume – riprenderanno avvio. Non possiamo inventarci quali forme concrete rivestiranno tali processi; e la conoscenza delle forme in questione sarà invece fondamentale in futuro per intervenire nei processi stessi. Attualmente, non possiamo fare a meno di pensare e agire secondo quanto già conosciamo (crediamo di conoscere) del passato; è il nostro usuale modo di pensare e di agire, sarebbe sciocco esimersi dall’utilizzarlo.
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Dobbiamo però essere sempre vigili, e tenere ben vivo e attivo nella nostra mente che quanto conosciuto (o creduto di conoscere) è un processo finito in quelle particolari forme di manifestazione (teoriche non meno che pratiche); dobbiamo dunque riflettere su di esso, trarne tutto il succo (insegnamento) che possiamo, ma non certo ripensare un’azione (sia teorica che pratica; cioè una pratica teorica e una pratica pratica) secondo i vecchi moduli. E’ necessario concentrare l’attenzione proprio sul perché dell’impantanamento e poi fine di quel processo. E se per noi esso è stato grande, glorioso – nient’affatto un seguito di pratiche criminali come sostengono i reazionari, cioè gli autentici criminali (è ben noto che chi grida “al ladro” è spesso lui stesso il ladro) – dobbiamo precisamente per questo avere il coraggio di dichiararlo finito, nell’efficacia ed effettualità delle sue forme di manifestazione, al fine di estrarne però il significato più “essenziale”, che deve essere trasformato mediante la riflessione sul suo fallimento (e sulla permanenza del suo “avversario”), consegnando al futuro nuove possibilità di pratiche (teoriche e pratiche), ancora in incerta gestazione ma che aprono nuovi sentieri, allargano i vecchi orizzonti. In modo che si sia più pronti e reattivi quando la Storia si “riavvierà”. E’ sicuro che il “ricominciamento” ci sorprenderà, ci disorienterà, ci farà sentire malfermi sulle gambe; ma chi crederà di poter stare immobile e saldo “come roccia” (con cristalli di pensiero nella sua testa di cemento), verrà puramente e semplicemente sommerso dalle onde.
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Se dunque mi arrovello ancora su comunismo e marxismo, non è certo per discutere con gli attuali residui di quei grandi processi storici. Li studio in quanto sono finiti, quindi con l’atteggiamento di chi redige un bilancio finale, ma solo per estrarne la lezione di vitalità e originalità una volta che essi siano inseriti nel contesto storico-sociale in cui furono operativi ed efficacissimi. Li studio con lo stesso spirito con cui Galileo studiò e rispettò Tolomeo (pur disprezzando i tolemaici del suo tempo), con cui Newton studiò Galileo, con cui Einstein studiò Newton. Il fatto che io non sia nemmeno all’altezza delle caviglie dei personaggi citati, non giustifica minimamente un mio adagiarmi sulle morte teorie e prassi un tempo vitalissime. Sarei un Simplicio come quello del famoso Dialogo galileiano; lo sarei come lo sono oggi tutti coloro che si dichiarano tout court marxisti e comunisti. Non parlo più con questi comunisti e marxisti; parlo di comunismo e marxismo come fenomeni storici di enorme valore, che vanno non rifondati, non recuperati, bensì abbandonati nelle loro vesti originarie, facendone però il punto di partenza per altri lidi. Vanno creati nuovi attrezzi, al momento rudimentali, con cui sia tuttavia possibile pensare il nuovo avvio della Storia, preparandosi a simile eventualità; e con quell’atteggiamento di fase – non di costruzione di Verità valide nei secoli – su cui insisto da non so quanto tempo.
Adesso, quindi, sono fissati i paletti per discutere con quelli che stanno entro certi limiti. Nessuna interazione più con: a) quelli che pensano il comunismo come fenomeno criminale o poco meno, che pensano a Marx come a una sorta di origine del gulag oppure lo “ammirano” (da veri nemici subdoli) come anticipatore del mercato globale e semplice sostenitore dello sviluppismo capitalistico (essendo stato soltanto un po’ fuorviato dal suo esaltato spirito utopistico); b) quelli che non hanno ancora capito come il comunismo sia finito da tempo, pur non essendo una carogna putrefatta da seppellire, bensì un “corpo” da sezionare con strumenti di fine anatomia e mossi da autentica spinta di critica sociale (senza però la mielosa etica di tutti i finti buonisti e laidi moralisti); c) quelli che pensano ancora alla validità attuale del marxismo, così com’esso è stato o con pochi ritocchi di superficiale riverniciatura, mentre ha ormai perso tutto il suo smalto scientifico per trasformarsi in dottrina dogmatica per poveri sbandati o per “dotti” dibattiti tra puri accademici (della stessa pasta degli aristotelici tolemaici avversari di Galileo); d) quelli che non si rassegnano a prendere in considerazione, tra i “nostri” pensatori e rivoluzionari, quasi soltanto (comunque in misura di gran lunga maggiore) Marx e Lenin, ma come punti di partenza per nuove lande teoriche ancora abbastanza lontane; e) quelli che hanno saltato (o hanno ormai dimenticato) che l’unico effettivo tentativo di rifondazione scientifica del marxismo in quanto teoria del comunismo, tentativo tuttavia fallito per
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l’impossibilità di trovare referenti politici adeguati alla rifondazione in questione, è stato l’althusserismo, i cui allievi tuttavia non so bene quali strade abbiano preso.
Sia però chiaro che è necessario anche rinunciare a discutere con chi ancora crede alla dicotomia tra destra e sinistra; non si tratta affatto di forze politiche prive di differenze (pur se sempre più sfumate), bensì formate da zombi di cui predicare fin d’ora la necessità di seppellirli non appena ciò si rendesse possibile. Nemmeno voglio più sentir starnazzare intorno a quell’indecente pantomima che si svolge tra fascismo e antifascismo, un modo indegno per non pensare minimamente alla nuova epoca che si aprirà prima o poi, ma non in tempi secolari. Sono nettamente contrario a ogni filo-americanismo e filo-israelismo, ma freddo anche verso chi propone anti-americanismo e antiisraelismo con motivazioni piuttosto fanatiche e faziose, prive di adeguate distinzioni tra l’aspetto più generalmente culturale e la funzione geopolitica della potenza americana e del suo “sicario” privilegiato. Comunque, è sufficiente per il momento fermarsi qui, per ricominciare fin da domani a discutere con quelli che hanno la testa rivolta al futuro. Gli altri vanno semplicemente ignorati
PS Oggi (12 giugno) escono sul Giornale quattro articoli dedicati all’argomento: “Gramsci è di destra?”. Nessunissimo scandalo, in linea di principio, per una siffatta discussione. A mio avviso, è bene leggerli tutti pur se i migliori, secondo la mia opinione, sono quelli di Baget-Bozzo (il più congruo nel trattare del reale Gramsci, politico e non solo grande intellettuale) e di Tarchi. Non posso però non sollevare alcune obiezioni; mi limiterò a due soltanto, dalla prima esentando in buona parte il primo intervento. Proprio Tarchi ricorda un libro di molti anni fa di De Benoist, in cui si metteva in luce come “l’insegnamento principale che scaturiva dalle pagine di Gramsci era che ‘nelle società sviluppate non vi è presa del potere politico senza presa preventiva del potere culturale’”, ecc. ecc.
Si tratta di una evidente “castrazione” del pensiero di Gramsci, il quale diede certo importanza primaria alla battaglia culturale e delle idee, ma parlò, proprio nei Quaderni, di “egemonia corazzata di coercizione”; e, per la presa del potere, mise sempre in primo piano l’azione del “moderno Principe” (questa non è una invenzione dell’edizione togliattiana dei Quaderni), cui gli intellettuali dovevano essere organici (e sappiamo cosa questo significhi; e, ancora una volta, ribadisco che non si tratta di deviazioni togliattiane). Sappiamo fin troppo bene che ogni verità parziale è, in realtà, una sostanziale falsificazione. Non posso affermare che una certa qual torta è un dolce fatto con farina, acqua, un pizzico di sale, ecc. dimenticando completamente lo zucchero; non ho detto cose “non vere”, ma sono stato parziale (e dunque falsificatore) dimenticando proprio l’elemento componente essenziale che fa di quella torta un dolce. Pensare Gramsci senza il leninismo è una precisa e non innocente alterazione del suo pensiero e dell’azione politica da lui svolta prima di entrare in carcere (e anche, però, un grave travisamento delle sue riflessioni sull’azione politica svolte mentre vi “albergava”).
Smettiamola quindi con il Gramsci grande uomo di cultura, grande intellettuale. Questo farebbe piacere a quelli che sanno fare solo gli intellettuali. Farebbe piacere anche a me, che non so fare altro. Ho però una piccola differenza rispetto ad altri: so che la mia azione è proprio per questo monca, manchevole, non rappresenta tutto ciò che ci vorrebbe per finalmente innescare un nuovo ciclo di vere lotte di critica e trasformazione sociale, che non sono mai semplici battaglie di idee. Non posso inventarmi, nella presente situazione, una battaglia diversa, completa in ogni sua articolazione che deve essere, contemporaneamente, teorica e politica (non però la politica degli odierni maneggioni di destra e di sinistra). Mi sento (parzialmente) scusato, per le mie manchevolezze, dall’esistente situazione oggettiva, che non consente scorciatoie, frette inutili e dannose. Non vado però a raccontare la frottola che il potere si conquista innanzitutto con la battaglia culturale. Apprestare un terreno più “fertile” non è nemmeno l’inizio di una presa effettiva del potere; così come scrivere un’introduzione o prefazione non garantisce in alcun modo che si possiedano pure le capacità di completare un intero libro. La cultura conquista (apparentemente) il potere solo quando è al (diretto o indiretto) servizio – in forme diverse che si autodefiniscono ancora destra e sinistra – di
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gruppi dominanti (oggi, fra l’altro, perfettamente reazionari e non autonomi rispetto ad una potenza predominante). Non metto in dubbio l’intelligenza di un De Benoist; ma proprio per questo ritengo sia consapevole di quel che dice: sia quando parla di decrescita sia quando dà quell’interpretazione manchevole, parziale, del Nostro.
Se poi al Gramsci dei Quaderni si aggiungesse quello, libero di far anche politica attiva, degli scritti sull’Ordine Nuovo o su Sotto la Mole, ecc. – o, ancor meglio, quello che amo di più, quello che scrisse le Tesi di Lione – risulterebbe perfino più lampante come il comunista Gramsci non fosse un intellettuale “a bischero sciolto” (come siamo invece noi tutti in quest’epoca di m…..). E non era – in questo vicino a Lenin – un dottrinario ottuso simile ai bordighisti e altri, ai quali ricordava di stare ben attenti a non buttare gli “Arditi del popolo” (formazione nazionalista, ma sinceramente “antiborghese”) tra le braccia del fascismo.
E’ proprio sul problema di Gramsci comunista, però, che esiste per me un’obiezione definitiva. Si riesce a capire che, quando i comunisti erano realmente tali, non si sentivano né di destra né di sinistra? Che per loro si trattava di due correnti politiche dei dominanti capitalistici? I falsi comunisti (piciisti) si sono ritenuti, da se stessi, di sinistra quando sono divenuti una corrente in più di tali dominanti, quando hanno perseguito esclusivamente una politica intrigante di raccolta di voti, prima in bacini popolari assai vasti, poi sempre più ristretti fino alla riduzione delle attuali frattaglie piciiste a “minuscole imprese” dell’“indotto” di quelle più grandi ormai orientate in tutt’altro senso.
In un film di Leto (La villeggiatura, inizio anni ’70) sul confino di un liberale antifascista, professore universitario (che poi maturerà in quell’ambiente la scelta del comunismo), un operaio già comunista, di fronte alle sue lezioni di storia politica tenute alla buona in quell’ambiente, alla fine sbotta: “Parli sempre di destra e di sinistra, ma esiste la destra, la sinistra e la sinistra di classe”. Il film è sintomatico, pur se risentiva del fatto che si era ormai entrati in un’epoca (berlingueriana) di transizione dal comunismo al sinistrismo. Dieci anni prima, quell’operaio (nella sceneggiatura del film) avrebbe proferito: “esiste la sinistra, la destra e il comunismo”.
Quindi, cari “annessionisti” di Gramsci, sia di destra che di sinistra, prima di tutto riconsiderate attentamente il comunismo (leninista) di quest’ultimo, e poi sicuramente ne riparlerete secondo altre modalità. E, lo ripeto, ricordate sempre che le “verità parziali” sono sostanziali falsità. Comunque, lo ripeto, nessuno scandalo per il fatto che un “destro” parli con rispetto di Gramsci e lo senta almeno parzialmente vicino. In effetti, credo che sia un intelligente destro sia un intelligente sinistro possano discutere con profitto di Gramsci; ma lo possono fare entrambi – a pieno titolo e senza l’inutile scandalo di certi “sinistri”, che pretendono di averne il monopolio dopo averlo trasformato in una icona inoffensiva e gradevole al potere – proprio perché simile pensatore, e rivoluzionario, non era né di destra né di sinistra; era un comunista (e leninista).
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