ANCORA SU BONTEMPELLI di M. Tozzato

 

Provo qui  ad avanzare alcune considerazioni a margine del commento che nel nostro blog G. Petrosillo ha proposto ieri , 11.02.2008, sul saggio di Massimo Bontempelli intitolato Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità. Tengo a precisare, prima di tutto, che ritengo  (e non sono certo il solo) Massimo Bontempelli  , sia come storico che come filosofo, un intellettuale di notevole levatura. Per quanto mi riguarda, ad esempio, continuo tutt’ora ad utilizzare i suoi libri di storia, che non si possono certo confinare nell’ambito della semplice manualistica, e per quello che concerne la filosofia, oltre alla sua “storia” mi pare doveroso citare, perlomeno, il libro Filosofia e Realtà (Editrice C.R.T. – Pistoia 2000), sicuramente uno dei migliori testi di esegesi hegeliana degli ultimi vent’anni, per non parlare della sua notevole “vita di Gesù” elaborata nel libro scritto assieme a Preve Gesù.Uomo nella storia, Dio nel pensiero  (Editrice C.R.T. – Pistoia 1997). Tutto ciò, però, non ci esime dal mettere in luce, come bene ha fatto Petrosillo, le nostre divergenze in termini di concezione generale del mondo e di teoria della società. L’approccio di Bontempelli che è tale da permettergli di muoversi con grande competenza all’interno del pensiero filosofico, in particolare di quello hegeliano, non risulta altrettanto efficace in rapporto a Marx nei confronti del quale esiste, a mio parere, una sostanziale incapacità di intenderne lo specifico approccio alla scienza della società. Dal fatto che Marx non sia propriamente un filosofo e che quindi i suoi “maestri filosofici” siano stati Kant e soprattutto Fichte ed Hegel, come ripete giustamente da tempo Preve, non si può passare direttamente ad attribuirgli l’adesione integrale ad una di queste filosofie, nemmeno a quella hegeliana. Che in Marx la lettura di Hegel, come ha fatto rilevare in un recente saggio Roberto Fineschi, risulti a volte sorprendentemente semplificata e banalizzata rappresenta soltanto il sintomo del fatto che ad un certo punto il pensatore di Treviri ha intrapreso un altro sentiero, un percorso che lo ha portato alla  critica della formazione sociale capitalistica attraverso l’ esposizione della sua struttura fondamentale denominata modo di produzione. La Grassa, al contrario di Bontempelli, dopo essersi mosso per decenni all’interno del pensiero marxiano e leniniano è riuscito a compiere un passaggio che nessun altro che io conosca è riuscito a fare: continuare a maturare dall’interno la propria elaborazione – senza abbandonare del tutto la teoria marxista né rassegnarsi ad accettare di rimanere nell’ambito del marxismo storico otto-novecentesco  [teoria del comunismo critico (1841-1874) + marxismo storico (1875-1991)] – riuscendo ad assumere contemporaneamente una prospettiva da osservatore esterno che alla fine ha prodotto quella rottura che gli ha permesso di iniziare ad  elaborare un paradigma nuovo che – per “civettare” anche noi un poco con Hegel – ne rappresenti sia il superamento che la conservazione (Aufhebung). Passando ora a considerare la corretta ricostruzione filologica di Bontempelli sul rapporto tra forma e contenuto in Hegel, citata anche da Petrosillo, mi sentirei di aggiungere che se nel reale hegeliano si manifesta la struttura fondamentale del mondo empirico dei fenomeni – che comprende ciò che è accidentale e che in questo modo diventa effettualità la cui essenza è il trapassare – ciò significa che esso ne rappresenta anche il lato formale per cui la forma reale risulta identica e differente rispetto al contenuto empirico  ed allo stesso tempo, in quanto idealità, è tale da permetterci l’appropriazione conoscitiva del mondo. Ma il rapporto tra formale e reale è diverso in Marx rispetto ad Hegel, nella misura in cui, a partire dall’Ideologia Tedesca, il primo ha in qualche maniera cercato, non in termini propriamente filosofici ma piuttosto di metodologia, di costituire una fondazione empiristica della dialettica. Nel suo notevole saggio dal titolo La dialettica in Marx Mario Dal Pra ha infatti scritto:<< La vera alternativa che si può prospettare , rispetto alla continuità della dialettica marxiana con la dialettica hegeliana, è quella di un’accettazione da parte di Marx di una fondazione empiristica della dialettica. Molto acutamente Lefebvre ha avanzato l’ipotesi che il periodo nel quale Marx, a suo giudizio, prescinde interamente dal metodo dialettico, è quello in cui egli aderisce all’empirismo ed ha di conseguenza prospettato l’approdo tardivo di Marx al metodo dialettico [all’epoca della sua rilettura della Scienza della Logica e della stesura dei Grundisse. N.d.r. ] come un superamento dell’empirismo. Ritengo anch’io che non si diano che due soluzioni possibili circa la fondazione del metodo dialettico: o una fondazione di tipo concettuale, del genere di quella formulata da Hegel, o una fondazione di carattere empirico. Una volta che si ritenga inesistente il problema della conoscenza ed inesistente il divario tra soggetto ed oggetto, la validità del metodo dialettico poggia sul suo valore ideale ed ontologico ad un tempo, in quanto esso si qualifica come struttura concettuale in cui propriamente si esprime la struttura stessa della realtà.>> Ma Marx, anche nella sua tarda ripresa di alcuni aspetti della dialettica hegeliana, mantiene un approccio metodologico e gnoseologico che non abbandona mai il terreno dei “fatti” e dell’analisi dell’effettualità empirica da cui trarre per via di astrazione la struttura reale come oggetto di conoscenza. Risulta del tutto estranea al pensiero marxiano perciò la questione, proposta continuamente dal marxismo dottrinario, del rapporto tra dialettica idealista e dialettica materialista; questa opposizione del tutto “metafisica” e ben poco “dialettica” non ha niente a che spartire con la metodologia marxiana empirista ed interessata ad una dialettica dell’interazione e dello sviluppo delle contraddizioni nel tempo e nello spazio ( anche il giovane Hegel del resto scriveva : <<ogni contraddizione produce una modificazione>>). E’ proprio l’approccio sostanzialmente hegeliano che porta poi Bontempelli a proporre di allargare la nozione di sussunzione reale non più soltanto al rapporto <<del lavoro al capitale>> ma alla sottomissione al “capitale” <<dei contenuti della stessa vita umana>>. Viene proposta così la categoria di capitalismo assoluto come termine interpretativo cruciale per la comprensione dell’attuale fase di sviluppo  della formazione sociale capitalistica. Con questa espressione si vorrebbe evidenziare che la cultura (quella materiale come quella relativa ai costumi, ai saperi, ai modi di vita) – che caratterizza le parti del pianeta egemonizzate più direttamente dai gruppi e dai sistemi statuali dominanti nel capitalismo contemporaneo – rappresenterebbe la “potenza decisiva” all’interno del sistema sociale capitalistico attuale. Questa cultura determinerebbe un habitus mentale e comportamentale distruttivo ecologicamente e degenerativo per i rapporti sociali e comunitari e per la sopravvivenza dell’ humanitas della nostra specie. Esiste effettivamente una analogia con le idee negriane: l’”Impero” di Negri come il capitalismo assoluto di Bontempelli vogliono essere delle “potenze senza centro” diffuse e onnipervasive dove al di là di un immaginario antagonismo “assolutamente radicale” di moltitudini indefinite di oppressi o di elitè depositarie della vera conoscenza del “trascendentale esser uomo dell’uomo” non si vede proprio ciò che è veramente decisivo: la struttura dei rapporti sociali  tra gruppi e entità geopolitiche in conflitto per la supremazia e le relazioni tra questi e gli strati sociali dominati ( e non decisori). Le considerazioni di psicologia sociale e le analisi delle forme della personalità sviluppate nell’ultima parte del saggio bontempelliano sembrano dimenticare una cosa, magari banale: in quanto a forme di personalità distruttive la nostra epoca non è peggiore delle precedenti. La barbara crudeltà, la violenza , le guerre di sterminio degli antichi dispotismi le ho conosciute anche tramite i libri di Bontempelli: lo sterminio dei Catari, il genocidio dei pellerossa, il massacro delle popolazioni delle antiche civiltà precolombiane del nuovo mondo, le spaventose guerre di religione, il “patriarcalismo” come potere di vita e di morte del capo famiglia sulla donna e sui figli per finire con i smembramenti dei corpi , i roghi delle streghe  e  i metodi “poco urbani” usati con i nemici ( e forse anche gli amici) da Vlad Dracul, il famoso Impalatore. E aggiungiamo ancora un ultima domanda: al tempo di Hitler,  del nazismo e delle osannanti masse tedesche eravamo già entrati nell’epoca del “capitalismo assoluto” ? A me sembra che il tipo di vita e lo sviluppo economico e tecnologico della nostra epoca possano essere causa dei grandi problemi ecologici e ambientali che tutti conosciamo, anche se nel nostro blog ne diamo una valutazione che rifiuta il catastroficismo e che mette in risalto che è  la struttura sistemica del capitalismo a risultare decisiva.

Questo vuol dire che non solo il territorio, le risorse, le fonti energetiche, la vita animale e vegetale sono particolarmente in pericolo ma anche che, evidentemente, la nostra salute, la quale dal punto di vista del nostro “fisico” in passato soffriva in altre maniere e probabilmente di più, si trova a essere, oramai sempre più, preda di disturbi nervosi e psicologici indotti dal nostro ambiente naturale e sociale. In questo senso e da questo punto di vista siamo probabilmente in presenza di nuove patologie individuali e sociali. Per finire possiamo aggiungere che ci ripromettiamo  di cercare di trattare, in futuro, la tematica della decrescita in maniera sufficientemente articolata; lo potremo fare, però, solo quando avremo la possibilità di confrontarci con una sua esposizione sufficientemente razionale e realistica. Per il momento non ci resta che rimandare il lettore all’articolo di qualche mese fa di Luigi Cavallaro – di cui abbiamo fatto un riassunto sul nostro blog – che recensiva il noto libro di Latouche, con l’aggiunta di un breve passo tratto dall’intervista di G. Repaci a E. Brancaccio. L’economista sannita afferma:<<Personalmente ho espresso la mia valutazione su un certo ambientalismo di sinistra, sulla decrescita e su Latouche in un articolo di qualche estate fa […]. In esso sostenevo in fondo delle cose elementari. E cioè che se qualcuno parla di decrescita – vale a dire di crescita negativa del prodotto sociale – come concreto obiettivo di politica economica, allora o è un bolscevico che mira nuovamente alla pianificazione centralizzata in un sistema chiuso o semi-chiuso […] oppure è uno che semplicemente farnetica. La ragione è evidente: l’abbattimento della produzione sociale, quale atto politico deliberato, richiede necessariamente uno sforzo pianificato, indipendentemente dal giudizio positivo o negativo che possiamo poi esprimere su di esso>>.

 

Mauro Tozzato            12.02.2008