ANCORA SUGLI STATI-NAZIONE E LA GLOBALIZZAZIONE

E’ probabile che si possa affermare che uno dei miti fondatori di quella che è stata definita l’epoca della globalizzazione sia quello che ha postulato il declino degli stati nazionali. Ma a questo proposito sul Sole 24 ore del 18.02.2012 Dani Rodrik scrive:

<<La crisi finanziaria globale ha mandato in frantumi questo mito. Chi ha salvato le banche, pompato liquidità nel sistema, lanciato stimoli fiscali e fornito sussidi ai disoccupati per sventare una catastrofe? Chi sta riscrivendo le regole sulla supervisione e regolamentazione dei mercati finanziari per prevenire un’altra crisi? Chi si prende la colpa per tutto ciò che non va? La risposta è sempre la stessa: i governi nazionali. Il G-20, il Fondo monetario internazionale e il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria hanno spesso agito in modo marginale>>.

Questo ragionamento si inserisce nell’impostazione ideologica dominante che vede il rapporto fra Stati-nazione e globalizzazione secondo il classico punto di vista economicistico per il quale il fine delle entità statuali sarebbe quasi esclusivamente quello di favorire lo sviluppo e la crescita economica, stabilendo e garantendo – attraverso accordi multilaterali – le regole che permettano di stabilizzare mercati finanziari anarchici, mantenere i flussi di credito all’economia reale necessari al funzionamento del sistema e controllare la spesa e il debito pubblico senza penalizzare la crescita potenziale dei vari paesi. Dall’altra parte vi sono i critici del ruolo economico dello Stato che considerano, spesso, i governi come un freno per una più libera circolazione di beni, capitali e persone in tutto il mondo. Secondo questo “partito” , se i policy maker nazionali non intervenissero con regolamentazioni e barriere, i mercati globali riuscirebbero comunque a badare a se stessi e a creare un’economia mondiale più integrata ed efficiente. Di fronte a queste questioni Rodrik non sa dire molto:

<<Il laissez-faire è una formula adatta a scatenare profonde crisi finanziarie e forti contraccolpi politici. Bisognerebbe altresì affidare la politica economica a tecnocrati internazionali, che solitamente vengono isolati a causa dei tira e molla politici – una posizione che circoscrive gravemente la democrazia e la responsabilità politica>>.

Complessivamente comunque anche l’economista ritiene che sia in atto un processo che dovrebbe portare al superamento della centralità degli Stati nazionali; si tratterebbe soltanto di una questione di tempo: per il momento, le persone devono continuare ad optare per soluzioni adatte ai governi nazionali, che rimangono la speranza migliore per l’azione collettiva. Così infatti Rodrik conclude il suo articolo:

<<Sarà anche un relitto lasciatoci in eredità dalla Rivoluzione francese, ma lo Stato-nazione è tutto ciò che abbiamo>>.

Si muove ancora peggio, però, su queste problematiche il nostro ex-ministro dell’economia Giulio Tremonti nel suo ultimo libro, intitolato Uscita di sicurezza. Secondo il divo Giulio l’ultima grande scelta politica occidentale sarebbe stata fatta venti anni fa, lanciando la globalizzazione. In quel momento un élite di potere determinata e “illuminata” avrebbe deciso di innescare il processo che ha prodotto la globalizzazione. Da allora la politica, in tutte le sue istanze, sarebbe progressivamente scomparsa dalla scena a causa del declino del suo carattere nazionale e particolare che

<<è stato prima risucchiato e poi disperso in un mondo nuovo disegnato e dominato dal mercato globale.>>

Questo processo di cambiamento è, sinteticamente, descritto da Tremonti come lo svuotamento della “macchina” dello Stato-nazione – costruita per funzionare a “dominio territoriale chiuso” – in cui per secoli il potere politico era stato concentrato. Lo Stato controllava il territorio e il territorio era il naturale contenitore della ricchezza:

<<E’ così che il controllo della ricchezza faceva dello Stato-nazione l’erede e la sintesi delle antiche secolari funzioni del forum (1), ciò che gli dava titolo per esercitare il suo monopolio politico: battere la moneta, riscuotere le tasse,  fare giustizia>>.

Ma fin dall’inizio, si dimentica di dire Tremonti, al dominio politico “territoriale chiuso” si contrappone e si affianca lo stato come centro di coordinamento “commerciale aperto” (al mercato, interno ed esterno) con lo sviluppo della borghesia e dei mercati internazionali. In questo contesto il saggio di Fichte  Lo Stato commerciale chiuso si presenta come il prototipo iper-politicistico,   antitetico-polare rispetto all’esasperato economicismo dell’epoca attuale. Per Tremonti l’avvento della globalizzazione ha eroso e ridotto al minimo il potere statale rafforzando oltre ogni limite la ricchezza finanziaria, “la parte strategica e sempre più importante della ricchezza”. La Grassa, a questo proposito, ha ripetuto più volte che nel conflitto strategico, politico, per la supremazia, la massa di moneta e titoli che la finanza può spostare rapidamente da un impiego all’altro, da uno spazio geopolitico ad un altro svolge un ruolo determinante; bisogna però sempre tener presente che la struttura e i processi fondamentali nell’ambito della produzione e del mercato sono quelli inerenti all’economia “reale” che manifesta la sua “dominanza”, nonostante la mistificazione imperante, proprio nei momenti di crisi epocali. Comunque in questo blog si è più volte affermato che la conquista di posizioni di supremazia, anche relativa, è lo scopo degli Stati – e dei gruppi sociali “superiori” all’interno di questi – e viene ottenuto attraverso l’accrescimento di potenza in tutte le sue forme: economica, geopolitica, di egemonia ideologico-culturale e ovviamente militare (in senso lato). Lo stesso Gramsci nei Quaderni del carcere scriveva:

<<Il concetto di grande potenza: Elementi per calcolare la gerarchia fra gli Stati: 1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare[…]; la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione. La forza militare riassume il valore dell’estensione territoriale (con popolazione adeguata, naturalmente) e del potenziale economico. Nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica. […]Questi elementi sono calcolati nella prospettiva di una guerra. Avere tutti gli elementi che, nei limiti del prevedibile, danno sicurezza di vittoria, significa avere un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza, cioè significa ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere>>.

Si può probabilmente affermare che in Lenin e Gramsci, nella loro prassi politica e teorica, già si potevano ravvisare gli elementi embrionali che avrebbero richiesto il superamento del marxismo storico e la costruzione di nuove ipotesi teoriche per la comprensione delle ultime fasi di sviluppo del sistema capitalistico.

(1)     A proposito di questo riferimento di Tremonti si può forse ricordare dal dizionario Rizzoli Larousse:
foro [fò-ro] dal latino ‘forum’ – 1. Nell’età romana, piazza monumentale che costituiva il centro della vita civile, economica e sociale della città. 2. Luogo in cui viene esercitata la giustizia; tribunale.

Mauro Tozzato           19.02.2012