ANDRO’ GIROVAGANDO……, ECC., di GLG
(TERZA PUNTATA)
1. Proseguo con una puntata in cui la prenderò larga (e lunga). Tuttavia, darò alcune questioni per scontate poiché vi ho scritto sopra centinaia di pagine in più di un libro. Chi vuole ne legga almeno qualcuno, altrimenti non so che farci, non posso continuare a ripetere determinate argomentazioni nella loro interezza per mille e mille volte.
Nel gennaio 1848 esce il più che famoso (temo, però, scarsamente conosciuto dalle nuove generazioni) Manifesto del partito comunista scritto da Marx. Fin dalle prime righe si afferma che tutta la storia è storia di lotta di classi; intendendo parlare di quelle dominanti e dominate nelle varie formazioni sociali (proprietari di schiavi e schiavi, signori feudali e servi della gleba, capitalisti e proletari od operai, ecc.). Il testo è brillante, scritto in una prosa scintillante e fortemente incisiva, ma è chiaramente un pamphlet; fatto scioccamente diventare un “testo sacro”, di cui non smentire una sola riga, pena la scomunica lanciata da coloro che ormai sono stati spazzati via o ridotti a miserabili piccole schiere di inebetiti e nostalgici.
La storia, e Marx certamente lo sapeva, è per la maggior parte contrappuntata da lotte tra gruppi dominanti. Solo in alcuni momenti (puntuali nei lunghi tempi della storia umana) si sono avuti effettivi movimenti popolari “di massa”, che hanno segnato quella determinata congiuntura; ma sono rientrati perché spentisi o soffocati dai dominanti oppure, più raramente, sono stati guidati al successo da robuste élites (ben organizzate e dirette da capi di notevoli capacità strategiche), che quasi sempre si sono trasformate in nuovi gruppi dominanti ed egemoni nella società in trasformazione. Su un punto Marx è chiarissimo: in tutte le formazioni sociali precapitalistiche, i passaggi (“transizioni”) dall’una all’altra non hanno ricevuto l’impulso decisivo, né tanto meno sono sfociate in nuove strutture dei rapporti, per l’attività rivoluzionaria delle classi dominate. Marx è tassativo in proposito: non sono stati gli schiavi ad aver dato vita al feudalesimo, non sono stati i servi della gleba ad aver trasformato quest’ultimo nella società capitalistica.
Tuttavia, in base all’analisi della trasformazione subita dalla società inglese nell’epoca in cui scrisse la sua massima opera, Marx si convinse che il capitalismo – più precisamente: la forma di società a modo di produzione strutturato secondo specifici rapporti sociali di produzione, dove va proprio calcata la mano sul “sociali” poiché il capitale non è cosa (non è “fattore produttivo” rappresentato dai mezzi di produzione) bensì struttura di detti rapporti tra individui caratterizzata da forme peculiari di ogni determinata epoca storica – fosse l’ultima società divisa in classi irriducibilmente antagonistiche. Di conseguenza, sarebbe stata anche l’unica società in cui la classe dominata avrebbe svolto una funzione determinante nel trasformare la struttura capitalistica della formazione sociale.
Ho però chiarito dovutamente, in tanti anni di lavoro ignorato sia dai marxisti chiesastici sia dagli antimarxisti e anticomunisti beceri (due categorie che hanno dominato nel ceto intellettuale dell’ultimo mezzo secolo o poco meno), che le convinzioni di Marx erano basate su alcuni presupposti risultati errati in radice, pur se sarebbe stupido buttare a mare la sua opera (scientifica e non meramente ideologica) che ha ancor oggi alcuni punti di forza (e quali siano, l’ho mostrato svariate volte nei miei lavori). Intanto, vanno sempre tenute presenti due “frasette” di Marx dalla Prefazione al primo libro de Il Capitale, l’opera sua più propria, quella che, per dirla con Althusser (non a caso, in Leggere il Capitale), apre alla scienza il “Continente Storia”. Vediamo queste “piccole” frasi.
“Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia teoria”.
E poi:
“…il corpo già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. Inoltre, all’analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza d’astrazione [grassetto mio]. Ma, per quanto riguarda la società borghese, la forma di merce del prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma economica corrispondente alla forma di cellula. Alla persona incolta, l’analisi di tale forma sembra aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze: e di fatto si tratta di sottigliezze, soltanto che si tratta di sottigliezze come quelle dell’anatomia microscopica”.
Ed infatti così inizia Il Capitale: “La ricchezza [il complesso dei valori d’uso atti a soddisfare i bisogni degli individui stretti in date forme dei rapporti sociali; nota mia] nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una ‘immane raccolta di merci’ e la merce singola si presenta come sua forma elementare [la forma di cellula, appunto; nota mia]. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce”.
2. Mi sembra tutto molto esplicito. A metà secolo XIX l’Inghilterra è il paese capitalistico più avanzato, quello che perciò – in assenza della possibilità di esperimenti fatti in laboratorio – si presenta caratterizzato dal modo di produzione capitalistico e dai rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono nella loro forma più pura o, meglio detto, meno impura. Marx si rifà dunque al modello inglese di capitalismo che, secondo lui, si sarebbe esteso progressivamente al mondo intero (soltanto così si capisce quindi il ben noto monito rivolto agli operai tedeschi, ma non solo a loro: de te fabula narratur). Inoltre, per studiare a fondo il “corpo” della società capitalistica inglese (cioè il modo di produzione capitalistico nella sua forma meno impura) occorre un’analisi microscopica della “cellula” di questo “corpo”: la merce, quindi la forma di valore del prodotto lavorativo umano. Questo comporta due considerazioni decisive.
Innanzitutto, nella società non può essere utilizzato il microscopio per osservare la merce in quanto cellula del corpo (costituito dalla struttura dei rapporti sociali di produzione capitalistici che rappresenta la trama essenziale di tale società). Il microscopio è sostituito dalla forza d’astrazione, quella che ormai manca a tutti i presunti scienziati odierni, meschini e limitati “tecnici” invece, cioè empirici innamorati della presunta concretezza, che altro non è invece se non la mera “superficie” degli eventi rilevati senza mai pensarli. Inoltre la merce, proprio perché cellula bisognosa d’analisi svolta dal pensiero astraente, è piena di sottigliezze, che l’empirico, attento ai “fatti”, cioè al funzionamento del corpo nel suo insieme, non sa cogliere. E nemmeno coglie così quel corpo che è magma di diverse “realtà” sociali da quel corpo che è il modo di produzione capitalistico, depurato mediante attività di astrazione per giungere all’ipotesi della “legge” che ne guida la dinamica [così come Galileo astrasse da ogni attrito, sempre esistente empiricamente, per trarre la “legge” (ipotizzata) del moto dei corpi in quanto supposto ad andamento rettilineo e costante].
In queste sottigliezze, che ottenebrano la conoscenza dell’empirico incapace di depurare il magma in questione, consiste il feticismo della merce; non nell’alienazione, idea cardine di chi non è empirico ma nemmeno sa usare la forza d’astrazione scientifica che deve sostituire il microscopio nel cogliere il funzionamento della (forma di) cellula, indispensabile per comprendere quello del corpo. Si rilegga l’inizio de Il Capitale: si deve partire dalla merce poiché la ricchezza prodotta secondo il modo capitalistico, con i suoi rapporti sociali storicamente determinati, è ormai una immane raccolta di merci, il che duplica subito i rapporti di produzione in quelli di scambio e richiede l’uso dell’equivalente generale delle merci, cioè del denaro nelle sue diverse figurazioni monetarie. Non c’entra niente l’alienazione, mania di pensatori idealisti persi nelle loro fantasie da intellettuali avulsi da ogni contesto sociale effettivo; una schiera di affamati di audience che hanno cercato di attrarre Marx nel “buco nero” del loro cervello non aduso al rigore della scienza.
Errata è però pure un’altra interpretazione del pensiero di Marx, cui aderii anch’io per una ventina d’anni, impiegando tuttavia i successivi venti ad una serrata critica, nel contempo un’autocritica. Si pretese (Althusser) che nell’analisi del modo di produzione specificamente capitalistico si sarebbe dovuto prendere, quale cellula dello stesso, l’opificio industriale sede del processo lavorativo vero e proprio; per cui, in definitiva, sarebbe stato più corretto iniziare Il Capitale dalla “quarta sezione” (la produzione di plusvalore relativo) con i suoi certo fondamentali capitoli sulla manifattura e la grande industria meccanizzata e quindi con la transizione dalla sottomissione (sussunzione) formale a quella reale del lavoro al capitale.
Invece, se così fosse stato fatto, si sarebbe preso in considerazione il plusvalore (pluslavoro) nel suo farsi dentro il processo di erogazione del lavoro, analisi di cui nessuno può negare la rilevanza, ma che avrebbe però fatto perdere le sottigliezze di questa forma storica dei rapporti sociali di produzione, mediati dalla rete degli scambi mercantili implicante l’eguaglianza (detta formale, ma solo perché relativa alla “superficie” dei fenomeni sociali) e l’effettiva liberazione da ogni vincolo servile dei vari scambisti (possessori di merce). Ponendo l’attenzione sul processo di produzione nel suo stretto significato di attività lavorativa per la trasformazione (dalla materia prima al prodotto), si colloca, in modo immediato (e non pensato), l’estrazione del pluslavoro sotto l’ambito della potestà direttiva di tale attività esercitata dal proprietario di quel complesso organizzato di mezzi di produzione che è la fabbrica. Si arriva allora al famoso “comando del capitale” (di uno dei portatori soggettivi del processo lavorativo), che tanto ricorda il dühringhiano profitto estratto all’operaio “con la spada in pugno” (non lo stesso concetto, ma simile e pur esso affetto da grave errore).
In definitiva, il pluslavoro viene così pensato senza mediazioni (in primis, quella della forza d’astrazione) quale conseguenza della diseguaglianza di potere tra capitalista e operaio; e il prodotto assume d’emblée nel capitalismo la forma di valore (in quanto mero “coagulo” di lavoro speso) mentre la forma di merce diventa quasi un fenomeno secondario, non principalmente rilevante per comprendere l’estrazione del pluslavoro. Che quest’ultimo manifesti la forma di valore (plusvalore appunto) diventa mera conseguenza di fenomeni successivi alla sua estrazione, dipende dal fatto che il prodotto entra nel circuito mercantile; il problema creduto fondamentale sarebbe che il capitalista, grazie alla sua potestà sui mezzi di produzione, impone il suo volere nel processo di lavoro ed estrae in questo il pluslavoro grazie a tale imposizione. Il che è vero, ma solo nel suo aspetto superficiale (e apparente, dove tale termine non significa falso, sia chiaro).
In realtà, nella società capitalistica – in cui vengono aboliti i rapporti di servitù delle formazioni sociali precedenti – tutto deve avvenire nell’ambito dell’eguaglianza fra i soggetti che stabiliscono fra loro relazioni “contrattuali” in piena libertà, senza costrizioni sociali legate al potere coercitivo di dati soggetti (tipo i signori feudali). Questi soggetti, per essere eguali e liberi nelle loro reciproche relazioni, debbono possedere e contrattare merci; la loro libera interrelazione deve insomma essere mediata necessariamente da qualcosa che essi possano vendere e acquistare come merce. La forma di merce è quindi la prima e più fondamentale condizione sociale per estrarre il pluslavoro in situazione tale che chi lo fornisce non se ne accorga e si senta libero ed eguale a colui che se ne appropria e ne gode l’uso. Il valore è successivo, è conseguenza dello scambio attuato in forma di merce (non di dono o altro).
3. Certamente esiste il differenziale di potere tra proprietà del “capitale” (dei mezzi di produzione) e proprietà di semplice forza lavoro. Tuttavia, volendo arrivare subito, per scorciatoia (legata proprio alla carenza di forza d’astrazione), al nocciolo della questione (il profitto in quanto pluslavoro), si perde tutta la sottigliezza di questa società, sottigliezza assicurata precisamente dalla forma di merce. Lo scambio mercantile è la superficie della società: chi si limita all’analisi d’essa (e vede magari Marx come il precursore della globalizzazione, o mondializzazione, della rete degli scambi mercantili) non capisce più nulla, completamente dimentico della diversità esistente tra i possessori di merci differenti nella loro “essenza”, cioè tra i capitalisti e gli operai (venditori di forza lavoro per un salario).
Tuttavia, non si capisce nulla della resistenza del capitalismo, della sua longevità (almeno nelle forme generali dell’impresa e del mercato) se prima non si comprende che, pur in assenza di ogni “attrito”, pur nella più perfetta eguaglianza di diritti tra capitalista e operaio – e la regolamentazione ossessiva del mercato, la non ipocrita ricerca di eliminare il più possibile ogni forma di “monopolizzazione” nel possesso delle merci da parte dei vari scambisti, mira a questa perfetta eguaglianza, risultato della liberazione (anche nella forma mentis) da ogni vincolo di servitù, da ogni considerazione (magari di stampo razzistico) inerente a presunte differenze tra i vari individui umani, ecc. – si verifica sempre l’estrazione del pluslavoro, ma nella necessaria forma del valore, proprio perché ciò dipende da quelle sottigliezze della merce (dello scambio generalizzato di prodotti del lavoro umano), che nascondono lo “sfruttamento”, sono la maschera che ogni possessore di merce prende invece per il vero volto del suo simile, per l’immutabile ed essenziale “natura”, nel passato come nel futuro, dell’essere umano in quanto tale.
Si capisce infine perché Marx afferma che sarebbe necessario avere a disposizione un microscopio onde vedere e studiare la cellula invece di doversi limitare alla sola visione del corpo nella sua dimensione macrofisica? Nell’osservazione della società non lo possediamo, dobbiamo approfittare della capacità del pensiero umano di astrarre da molte condizioni fenomeniche di carattere più immediatamente visibile per cercare il nocciolo della questione sottoposta ad analisi. Il pragmatico rifugge da simile modo di pensare, vuole giungere subito alle conclusioni; al massimo rileva con strumentazioni varie gli elementi più vicini ai sensi e li mette in forma matematica o di grafici, ecc. credendo di aver così riprodotto la realtà. Sbaglia clamorosamente. Senz’altro è aiutato in questa sua convinzione dal lavoro di determinati “filosofe(sse)ggiatori”, che elucubrano sulle “essenziali” e immutabili caratteristiche dell’essere umano, che il capitalismo conculcherebbe riducendolo a puro alienato. Sciocchi gli uni e gli altri. In questo senso Marx, pur se lo ritengo superato per una serie di ipotesi riguardanti la dinamica del modo di produzione capitalistico, è ancora decisivo in quanto consente di ripudiare le false analisi di questi sciocchi e di considerare invece le sottigliezze (simili a quelle dell’analisi microscopica) della società della “perfetta” eguaglianza e libertà di contrattazione intersoggettiva.
Se uno pensa che la merce, apparendo alla “superficie” del fenomeno sociale nel capitalismo, è forma semplicemente derivata da quel “coagulo di lavoro” creato nel processo della sua estrinsecazione, prende cantonate in continuazione. Lega lo “sfruttamento” (estrazione di pluslavoro) alla semplice lotta tra capitalista e operaio. Poi, quando deve pensare il rivoluzionamento della società capitalistica, arriva di fatto o a predicare una rivoluzione soltanto negli apparati politici del potere statale (non capendo nulla di che cos’è in realtà la politica in quanto mosse strategiche, ecc., cose scritte più volte), credendo che il tutto si giochi nel controllo di detti apparati e nella capacità di questi ultimi di dettare i loro comandi ai vari settori della produzione (agli apparati della sfera economica); e così arriva soltanto ad ossificare le strutture sociali della produzione, facendo risaltare, per contrasto, quella capacità di “disseminazione” del potere nell’esercizio della politica nei più svariati ambiti della società che è tipica delle formazioni capitalistiche e le rende più flessibili e dunque più durevoli.
Oppure, quando la centralizzazione ossessiva mostra viepiù le sue crepe e conduce alla stagnazione, ripiega sul sedicente “socialismo di mercato”, credendo nella capacità dei lavoratori (del corpo lavorativo collettivo) di controllare i singoli opifici sede dei processi lavorativi, lasciando però alla forma di merce del prodotto una qualche possibilità di flessibilizzare la produzione sociale complessiva. Il tutto, però, sempre sotto una forma suprema di controllo poiché simili opifici, se lasciati senza una guida strategicamente capace (il “direttore d’orchestra” della cui presenza necessaria parlarono sia Marx che Lenin), e invece affidati effettivamente a “collettivi” (sostanzialmente anarchici e caotici), conducono pur essi a gravi dissesti e disordine economico e poi sociale.
Qualcuno pensa che la forma di merce, poiché la rete degli scambi riguarda solo la “superficie” più visibile (e quindi empirica), non provochi danni se si ha sufficiente controllo della produzione (lo ripeto, ridotta al solo processo lavorativo). Si perde insomma tutta l’analisi (microscopica) di questa forma con le sue varie sottigliezze, che non sono l’alienazione degli esseri umani in generale, bensì quel nascondimento dello “sfruttamento”, che si maschera in modo assai seducente tramite la libertà contrattuale e l’eguaglianza tra i soggetti scambisti, e che Marx ha disvelato. Si perde dunque la vera acquisizione scientifica di Marx, quella per cui questi va ancora tenuto presente (così come sarebbe stupido buttare a mare Galileo, e Newton, solo perché c’è stato poi Einstein) in quanto fondatore di una scienza della società e non saltimbanco delle “tecniche” di governo di vari specifici (e “congiunturali”) sistemi economico-produttivi né evanescente sognatore di filosofemi vari sull’Uomo (“questo sconosciuto”).
4. Negli ultimi (almeno) quindici anni ho cercato, progredendo assai lentamente e con pignoleria nel compito, di mostrare dove il pensiero di Marx ha mostrato la corda. Non ripeterò qui quanto scritto in non so quanti articoli e libri (purtroppo ignorati dai “grandi pensatori” odierni). Ho però anche chiarito come il marxismo affermatosi subito dopo Marx – e sia per l’opera di chi successivamente è stato ritenuto revisionista sia per quella di chi ha pensato di ripristinare l’ortodossia, ritenuta più consona alla rivoluzione proletaria mondiale – non è esattamente il pensiero di tale autore. Non parliamo di effettivo, e tanto meno cosciente, fraintendimento; nemmeno nascondiamo che tale torsione fu quasi inevitabile perché, come appunto rilevato più volte, la dinamica capitalistica non condusse, secondo quanto supposto da Marx, ad una proprietà puramente assenteista (non più in possesso delle capacità direttive della produzione), da una parte, e al lavoratore collettivo (od operaio combinato, “dall’ingegnere all’ultimo manovale”), al polo opposto e antagonista del “quasi signore”, quale si credeva fosse divenuto il capitalista.
Tuttavia, quando Marx disquisì sulle classi rivoluzionarie nelle precedenti formazioni sociali, tenne pure presente la loro capacità egemonica. E’ ovvio che la trasformazione culturale non è affatto sufficiente per praticare un radicale rivoluzionamento sociale; tuttavia, nemmeno è possibile che se ne possa fare a meno. E’ risultato però evidente sia a Kautsky che a Lenin come dalla classe operaia nel suo senso più stretto (di personale addetto ad operazioni esecutive nella fabbrica) non potesse emergere un vero strato intellettuale capace di elaborazione ideologica e di una nuova concezione del mondo e della società. Ci si rifece ampiamente all’affermazione marxiana contenuta ne Il Manifesto; “come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica [grassetto mio, per motivi che spero di non dover più spiegare dopo aver trattato dell’importanza della forza d’astrazione rispetto al puro atteggiamento dell’empirico] del movimento storico nel suo insieme”.
Per Marx questo doveva essere però solo un primo passo: e il riferimento alla parte di nobiltà passata alla borghesia, vera classe infine egemone nella transizione al capitalismo, chiarisce bene il problema. Nel “movimento operaio”, invece, i “fuoriusciti” dalla borghesia hanno continuato, sia pure reclutando alcuni elementi proletari, a costituire i vertici dirigenti dei partiti (detti “operai”) e perfino dei sindacati, entrambi organismi in grado di condurre, con modalità e scopi differenti, la “lotta di classe”. In particolare, il partito che realizzò la prima rivoluzione presunta proletaria (in Russia) fu pensato quale avanguardia della classe operaia, cioè portatore autentico di quella coscienza che in quest’ultima esisteva (si supponeva esistesse) allo stato ancora confuso, informe, al massimo in fieri. Per di più si dovette aggiungere a questa concezione dell’avanguardia il problema del coinvolgimento, in qualità di alleati, della gran massa di contadini (soprattutto poveri, nullatenenti) che non avevano alcuna idea del comunismo, né vi aspiravano in modo particolare, poiché erano interessati semplicemente a possedere un “pezzetto di terra” (e non certo “in collettivo”).
Ulteriore modificazione avvenuta per spiegare il successo della rivoluzione laddove la classe operaia era poco numerosa fu quella relativa alla tesi dell’anello debole della catena imperialista (problema che vedremo meglio nella quarta puntata) unita alla considerazione delle masse d’oriente (contadine appunto) arretrate culturalmente ma più avanzate politicamente di quelle operaie d’occidente, avanzate culturalmente e politicamente “depresse”. E infine l’aggiunta decisiva rappresentata dalla netta affermazione che la rivoluzione non vince laddove le forze rivoluzionarie (in realtà, soltanto credute oggettivamente depositarie della necessità rivoluzionaria) sono più numerose bensì nei paesi in cui quelle reazionarie (le vecchie classi dei passati regimi sociali) sono più deboli e in fase di disfacimento interno.
Nel mentre si verificavano tali processi, nel periodo storico a cavallo tra XIX e XX secolo (l’epoca dell’imperialismo), la classe operaia inglese – quella del paese “laboratorio” preso in considerazione da Marx per individuare il reale processo di costituzione del modo di produzione capitalistico e ipotizzarne la dinamica di ulteriore sviluppo e trasformazione – diveniva in pratica subito, già all’epoca dell’analisi marxiana, “tradunionista”, poco interessata al rivoluzionamento del capitalismo e invece molto alla lotta sindacale per la semplice redistribuzione del reddito prodotto secondo il modo capitalistico. Per giustificare il “fattaccio” si utilizzò una tipica ipotesi ad hoc, favorita dalla posizione dell’Inghilterra con i suoi vastissimi possedimenti coloniali. Era appunto lo sfruttamento delle colonie a consentire l’attribuzione di “briciole” onde corrompere alcuni “strati” dei dominati – la cosiddetta “aristocrazia operaia” – in genere i più colti e in cui venivano reclutati i quadri intermedi del “movimento operaio”.
Una spiegazione, questa, che funzionò per qualche tempo, ma che sarebbe stato bene abbandonare già con la Rivoluzione d’Ottobre. A mio avviso, il 1917 è il vero momento della verità, il punto di svolta per poter dire – ma lo si è sostenuto invece con un secolo di ritardo, e sono ben pochi ad averlo affermato – che si era mostrata con tutta evidenza la fallacia del giudizio sullo spirito rivoluzionario della classe operaia (che non era comunque per nulla affatto l’operaio combinato di cui parlava Marx, mai venuto ad esistenza). Invece, si è continuato a insistere che ogni rivoluzione supposta proletaria, verificatasi sempre in paesi agricoli con stragrande maggioranza di contadini, era comunque guidata dalla quasi inesistente Classe rivoluzionaria per eccellenza (pura ideologia, sempre più mistificatrice e ingannatrice degli stessi pensatori che la propagandavano); anzi, poiché tale Classe continuava nella sua inerzia, la guida era rappresentata dalla sua pretesa “avanguardia cosciente”. In realtà, man mano che i vari paesi avanzati, anche quelli privi o con poche colonie, proseguivano nella trasformazione dalla predominanza agricola a quella industriale, sempre più le masse operaie (prima contadine e poi via via assunte in fabbrica e inurbatesi) divenivano simili a quella inglese, intrise di mero “tradunionismo”, interessate al miglioramento delle condizioni di vita ma nell’ambito della riproduzione dei rapporti sociali capitalistici di produzione.
5. E, visto che ci siamo, ricordiamo un altro fenomeno di decisiva rilevanza anche teorica. La classe operaia inglese dell’epoca della manifattura – dunque non ancora operaia in senso specifico, soltanto un artigianato espropriato dei mezzi produttivi e sottoposto, prima, alla sottomissione formale del lavoro al capitale e, successivamente, all’iniziale fase di quella reale, cioè al progressivo ma ancora parziale spossessamento dei suoi saperi produttivi – fu assai violenta e radicale nel suo “luddismo”, nella lotta per la distruzione delle macchine, non appena s’innescò la prima “rivoluzione industriale” (1760-1840 circa) nel “laboratorio” inglese di Marx, quella che completò la sottomissione reale e condusse alla prima fase dell’effettivo modo di produzione specificamente capitalistico, in cui le “potenze mentali della produzione” (le capacità direttive dei processi in corso nella sfera economica) vennero a concentrarsi nella proprietà dei mezzi produttivi.
Ed è sempre stato così, mentre lo si è voluto sempre ignorare nel “movimento operaio” a cavallo tra XIX e XX secolo e poi in quello “comunista” che credette di ereditarne i compiti presunti rivoluzionari. La sedicente classe rivoluzionaria ha sviluppato lotte radicali nel passaggio dalla condizione agricola a quella industriale, poi ha condotto (a mio avviso in modo del tutto razionale e sensato) lotte anche robuste per migliorare il proprio livello di vita (quindi di reddito) e le condizioni di svolgimento del lavoro; scopi che non si raggiungono certamente bloccando la riproduzione dei rapporti sociali e sconvolgendo rivoluzionariamente l’intero assetto della società. Solo in particolari momenti di crisi – legati all’acuta lotta tra gruppi dirigenti incapaci di (o impossibilitati a) trovare il bandolo della matassa per risolverla – vi sono sommovimenti nati dall’azione dei “senza lavoro”, spesso individui disadattati, divenuti rigurgiti violenti dell’incipiente disfacimento sociale, nel cui ambito diviene appunto più aspro il conflitto tra gruppi più o meno dominanti, pur essi dunque in processo di disarticolazione.
Il modo di produzione capitalistico è eminentemente rivoluzionario per quanto riguarda le tecniche lavorative e le ulteriori “rivoluzioni industriali” in cui vengono creati interi nuovi settori produttivi mentre alcuni dei vecchi decadono e altri svolgono una funzione subordinata e di complemento. Et pour cause, giacché in questa formazione sociale, per la prima volta nella storia (o quasi), il conflitto per la conquista e accrescimento del proprio potere si estende dalle sfere politico-militare e ideologico-culturale a quella economico-produttiva. Questa novità storica ha effetti assai peculiari, è un processo ormai senza ritorno; e qualsiasi sogno di ripristino del passato nutrito dai vecchi gruppi egemoni – il cui potere era legato alla terra, o anche ai commerci, con il mantenimento di rapporti servili riguardanti ampie masse di dominati – fu assai presto destinato all’insuccesso e al tramonto tragico o, peggio ancora, meschino, miserabile.
Da quel momento, ogni innovazione rivoluzionaria nel campo della produzione (innovazione di processo, di prodotto, di nuove fonti di energia, ecc.) mette fuori fase sia una parte dei gruppi dominanti nella sfera economica (quelli che metaforicamente denomino “cotonieri”, e spero ci si ricordi del parallelo da me istituito con la guerra civile o di secessione americana) sia i lavoratori – ai vari livelli gerarchici, a meno che non si tratti della più bassa manovalanza priva di qualsiasi minima funzione specialistica – che subiscono gli effetti di simile processo indicato giustamente come creazione distruttrice (espressione a mio avviso più corretta di quella che afferma una distruzione creatrice). Si viene allora ingrossando, in una prima fase, una trasversale e complessa corrente “reazionaria” (non si carichi immediatamente di valore negativo tale termine, senza nessuna accorta e ragionata valutazione della situazione prodottasi), i cui molteplici strati sociali costitutivi vengono investiti da fenomeni di obsolescenza o di faticoso impegno di riqualificazione (sia imprenditoriale sia di lavoro dipendente) che li pone in netto contrasto con il mutamento innovativo.
Se ci spostiamo dal fronte interno (ad un dato paese, ad una data formazione sociale particolare) all’articolazione internazionale di queste formazioni particolari, le nuove ondate innovative provocano spesso il formarsi di filiere di paesi, alcuni all’avanguardia nei nuovi settori produttivi (spesso strategici in funzione della potenza di alcuni di essi e di alcuni gruppi al loro interno, paesi e gruppi da definire predominanti), altri in ritardo e tendenti magari ad aggrapparsi ai settori di precedenti fasi innovative, ormai “maturi” e in diminuzione di importanza nei paesi più avanzati. Gli strati sociali (a diversi gradini gerarchici), implicati in questi settori “maturi”, sono spesso interessati alla loro complementarietà rispetto ai sistemi economico-industriali dei paesi d’avanguardia. Il risultato del processo è quindi scontato: i paesi a settori “maturi” – se gli strati sociali in questi presenti assumono la direzione del paese tramite le loro organizzazioni politico-sindacali – cadono in posizione di dipendenza rispetto ai paesi in cui diventano preminenti i settori innovativi e i loro strati sociali, una dipendenza che conosce varie gradazioni secondo scale gerarchiche che si vanno generalmente modificando nel tempo.
E’ ovvio che quanto più un paese diventa dipendente da un altro, quanto più dunque al suo interno prendono il sopravvento i cosiddetti “cotonieri” – in questo compito aiutati pienamente dai gruppi dirigenti dei(l) paesi(e) predominanti(e); tipico esempio il rapporto Usa-Italia, in modo particolare da “mani pulite” in poi, con accentuazione frenetica della nostra dipendenza dal 2010-11 – tanto più entra in disfacimento la struttura sociale del paese subordinato, tanto più quest’ultimo viene usato, con la complicità interessata dei suoi subdominanti (e dei loro tirapiedi politici, giornalisti, intellettuali, uomini di pseudo-cultura, servi sciocchi e inetti, ecc.), come base e strumento delle strategie di politica internazionale dei paesi predominanti nel loro conflitto (multipolare e alla fine policentrico con scatenamento di eventi bellici di prima grandezza) per la supremazia mondiale. E’ chiaro?
6. Tuttavia, deve essere altrettanto chiaro che in questo complesso processo, in cui si accentua la subordinazione di determinati paesi, rimasti indietro nell’innovazione produttiva (in specie di carattere strategico per la potenza) a causa della preminenza assunta in esso dai “cotonieri”, questi ultimi trovano complicità – non sempre consapevoli, volontarie, ma il risultato è lo stesso – in strati sociali che i ritardati dell’ormai defunto “movimento operaio”, o anche di un terzomondismo altrettanto sorpassato, vogliono ancora considerare portatori di rivolgimenti rivoluzionari. No, sono reazionari e condannano questi paesi alla subordinazione nei confronti del gioco – sempre più complicato e attraversato da rapidi mutamenti di fronte, da alleanze cangianti (e sempre false, aperte ai tradimenti) – dei paesi predominanti in conflitto multipolare.
Il crollo del mondo bipolare – un mondo che fu vissuto nella più che ingannevole prospettiva dell’antagonismo tra capitalismo e socialismo – ha infine condotto ad una configurazione internazionale con tendenza al multipolarismo in completa assenza della sedicente “lotta di classe” che avrebbe dovuto condurre, passo dopo passo, all’estensione di una nuova formazione sociale, appunto socialista, nata dal rivoluzionamento – processo interno ad ogni successiva formazione particolare (paese) entrata in fibrillazione – della formazione sociale generalmente caratterizzata dal modo di produzione capitalistico, cioè da una struttura (intelaiatura portante, “ossatura”) di rapporti sociali di produzione capitalistici.
L’impasse prodottasi dopo il 1945 nel conflitto tra capitale e lavoro (tra borghesia e proletariato o classe operaia) nei paesi avanzati aveva già spinto determinati settori rivoluzionari a pensare che le sorti dell’anticapitalismo mondiale fossero ormai affidate alle “masse” dei paesi del “terzo mondo”; da cui derivò l’altra invenzione, tradottasi in un disastro, del presunto “accerchiamento delle città da parte delle campagne”. Il non riconoscimento (dopo oltre un secolo di esperienze via via sempre più negative) dell’errore di Marx in merito alla formazione dell’operaio combinato, il non avere accettato la dimostrazione che la presunta classe operaia, ridotta al mero lavoro esecutivo di fabbrica, non aveva alcuna intenzione di compiere “rivoluzioni proletarie”, il fallimento progressivo e la fine catastrofica delle varie tesi (formulate generalmente da intellettuali molto alla moda in campo “occidentale”) inneggianti alla lotta terzomondista; tutti questi errori e topiche clamorose mai riconosciuti hanno condotto ad una situazione in cui il vero, e via via più acuto, conflitto si svolge tra gruppi dirigenti nelle varie formazioni particolari (paesi). Sia con riferimento a quel tipo di conflitto che appare in forme più manifeste nel suo svolgersi tra paesi, sia per quanto concerne i contrasti interni all’establishment di ogni dato paese. Un conflitto punteggiato spesso da belle parole, da accordi transitori (ma che a volte durano abbastanza a lungo) indispensabili a meglio studiarsi, a capire come penetrare nelle sfere di influenza altrui, ad appurare su quali alleati si potrà contare quando si dovrà arrivare alla resa dei conti, ecc. ecc.
La crisi, non semplicemente economica bensì di de-regolazione dell’intero sistema “globale” (e quindi potenzialmente in grado di interessare pure i paesi che ancora appaiono in ottimo sviluppo) si farà senza dubbio sentire anche all’interno dei vari paesi tra strati sociali diversi. Se qualcuno pensa però che essa diventerà una lotta di classe di antico stampo (soprattutto ideologica alla fin fine) tra dominanti e dominati, con netta distinzione e irriducibile antagonismo tra di essi, costui sta sognando; tanto più che una lotta del genere non si è mai verificata nemmeno nei più acuti processi rivoluzionari. Ci saranno “masse” di malcontenti, di disagiati, che forse in qualche occasione protesteranno con particolare vivacità. Tuttavia, il gioco complessivo, per un periodo storico che appare ben lungo in relazione alla nostra vita media, sarà condotto da “coacervi sociali” – nemmeno credo alla formazione di autentici blocchi, implicanti maggiore coesione interna, in genere assicurata da forti ideologie che rivestono di una spessa coltre gli interessi in gioco (ideologie oggi del tutto mancanti) – variamente strutturati, non però in modo molto saldo e quindi piuttosto soggetti a fluidità tali da favorire generalmente la subordinazione ai diversi gruppi dominanti (o pre o subdominanti a seconda dei differenti paesi), che ne assumono la sostanziale direzione.
Per questo motivo, va affermato senza reticenze che dev’essere combattuto quello spirito essenzialmente reazionario – nel semplice senso che è rivolto ad un passato ormai morto e sepolto – di cui sono permeati alcuni scalmanati ancora in vena di gridare alla lotta di classe del proletariato o alla lotta antimperialista (di cui non hanno mai capito nulla) dei paesi dell’ormai inesistente “terzo mondo”, diversificatosi in numerosi gruppi di formazioni particolari tra loro spesso accesamente conflittuali; e per ragioni religiose, etniche, ecc. e non certo per opporsi allo “sfruttamento” imperialista (sempre confuso con quello coloniale).
7. Dobbiamo partire da tutt’altra impostazione; non per accettazione di principio di nuove teorie che potrebbero poi rivelarsi fasulle. Semplicemente come primo passo per giocare intanto sulle contraddizioni in reale acutizzazione, presenti oggi in campo internazionale malgrado tutte le chiacchiere – diffuse da un altro tipo di reazionari – intorno alla “globalizzazione” e alla competizione puramente mercantile, quindi “virtuosa” e foriera di una nuova pace mondiale. Balle, ci avviciniamo a nuovi terribili e tragici confronti; non presto però come ritengono alcuni, che si mostrano troppo frettolosi. Bisogna passare per una “seconda epoca dell’imperialismo” (con i vari fenomeni già rilevati a fine secolo XIX), termine che va ormai meglio definito, nel suo senso più generale, come multipolarismo e policentrismo.
Dobbiamo puntare proprio sulla lotta tra le varie potenze (e subpotenze), consci che solo dal suo acutizzarsi in un periodo futuro non prossimo (ma non fra un secolo e nemmeno fra cinquant’anni) nasceranno possibilità di più radicali rivolgimenti in grado di coinvolgere pure la “struttura” (dei rapporti) della moderna formazione sociale. Non pretendiamo di voler subito individuare da quale conflitto (che si svilupperà a quel punto anche “in verticale” tra diversi raggruppamenti sociali) potrebbe nascere una nuova formazione sociale; e quale dei nuovi gruppi sociali potrebbe essere in grado di assumere il predominio in questa eventuale nuova formazione sociale. Dallo sconvolgimento nato dalla prima guerra mondiale (scoppiata tuttavia dopo quarant’anni di “balletti” vari) uscì la rivoluzione sovietica e la nascita e sviluppo dell’Urss. Dalla seconda guerra mondiale nacquero altre rivoluzione e altri paesi (Cina, ecc.) dominati da differenti gruppi sociali. La nuova formazione sociale venne presa per socialista (o almeno di transizione a quest’ultima); non era così, non abbiamo ancora le idee chiare su che cosa si fosse venuto creando in quei paesi, ma certamente si è verificato un radicale rivolgimento sociale.
Per quanto mi riguarda, dico subito che non mi commuovo per nulla nel sentire termini come Patria, Nazione, Tradizione, ecc. Nemmeno però mi scuotono i vecchi rimescolamenti delle idee intorno alla rivoluzione proletaria e all’internazionalismo del presunto e inesistente proletariato (una “fantasia” durata troppo a lungo). Un’era è finita, si è concluso un processo che, pur non essendo stato affatto quello pensato e idolatrato, ha prodotto eclatanti mutamenti nel mondo. Oggi siamo probabilmente entrati in un’epoca di transizione, ma non conosciamo adeguatamente i fenomeni trasformativi riguardanti le diverse formazioni particolari che interagiscono in varia guisa su scala mondiale. In quest’epoca, la nettissima sensazione da me (e non solo da me) avvertita è quella di un conflitto, molto articolato e spesso mascherato da accordi transitori tipici di tali periodi, condotto per l’ennesima volta dai vari gruppi dominanti (e subdominanti), con i vari “servi” (gli “ascari” della situazione) di complemento.
Inutile girare in tondo attorno alla questione che appare decisiva: è indispensabile agire per la maggiore autonomia e sovranità possibile del paese in cui ci si trova ad operare, onde ostacolare ogni tentativo di ristabilire una “regolazione” fondata sul predominio di una o pochissime potenze. Bisogna muoversi per accentuare il contrasto tra queste, far saltare accordi stabiliti sulla pelle dei più deboli, non accettare il sicariato a pro dei più forti, bensì giostrare fra essi in modo da conquistare maggiori spazi per sé; comportamento che, ne dobbiamo essere coscienti (se conosciamo minimamente la storia), condurrà ad una s-regolazione mondiale via via più accentuata con tutti i rischi del caso. Tuttavia, una fluidità sempre maggiore, che assuma forme cangianti nei più rapidi tempi possibili, è l’unica ad assicurare ai paesi di minor forza la prospettiva di autonoma capacità di sviluppo o – in una fase di lunga crisi dovuta alla deregolamentazione del sistema globale, com’è quella iniziata nel 2008 – di migliore posizionamento possibile, sfruttando al massimo le potenzialità di cui ogni dato paese è in possesso.
In definitiva, per concludere, è necessario assumere quale orientamento di base il cosiddetto sovranismo o come altro lo si vorrà chiamare. Si tratta di non seguire più, anzi di combattere, le vecchie idee della “lotta di classe”. Non la si rinnega affatto, semplicemente se ne deve finalmente indicate il reale carattere assunto nella passata epoca e le finalità infine conseguite a seguito dei mutamenti indubbiamente verificatisi nella configurazione degli assetti mondiali dei rapporti tra le varie formazioni particolari. E si deve comprendere che insistere oggi su idee – di cui si è scoperta l’ingannevole raffigurazione dataci del mondo e della nostra lotta, ideologicamente tesa al conseguimento dell’impossibile obiettivo del socialismo e comunismo – sarebbe effettivamente “diabolico”.
Si deve ripartire oggi – in una situazione in cui nella “struttura” dei rapporti sociali caratterizzanti le formazioni del preteso capitalismo avanzato è individuabile un ampio miscuglio, assai poco conosciuto, di quelli che denominiamo “ceti medi”, non ancora decantatisi così come avvenne negli anni ’40 del XIX secolo per quanto riguarda gli strati sociali del Terzo Stato – dal conflitto tra potenze e subpotenze (e paesi “servi”). Chi si porrà, senza esaltazioni di sorta, entro un tale orizzonte, che durerà a lungo nei nostri paesi, forse riuscirà a ottenere qualche risultato. Gli altri – quelli in preda a piagnistei per il glorioso passato delle lotte (e non nego affatto questa gloria, ma se ne deve finalmente intendere l’effettivo significato e portata) e ridotti a miseri gruppetti guidati da furfanti di mezza tacca – saranno consegnati al ludibrio della Storia.
Mi auguro di essere stato sufficientemente chiaro nello spiegare le reali motivazioni per cui il sottoscritto – e credo anche altri aderenti a questo blog – ha intenzione di seguire una strada senza l’entusiasmo del neofita convinto di aver infine afferrato “il più alto ideale”. E’ solo la dura “realtà” del presente che mi ingiunge di abbandonare i nostalgici del passato; alcuni del resto soltanto farabutti di dubbia intelligenza, intellettualoidi “ultracritici” vendutisi ai peggiori rigurgiti reazionari, i quali sanno comunque individuare con una certa sapienza le tesi contrapposte utili a far risaltare la “lucentezza” delle loro, semplicemente servili verso i predominanti mondiali. Quindi, adesso, dobbiamo optare per il sovranismo nell’ambito della lotta tra potenze e subpotenze. Questo l’orientamento fondamentale. Senza tuttavia perdere di vista due punti ben precisi.
Innanzitutto, la lotta è tra dominanti di varie formazioni particolari e non certamente mossi da ideali “sublimi”. La costrizione a seguire soprattutto le “danze” (conflitti, accordi, tradimenti, nuovi conflitti e cambi di alleanze, ecc.) di dati paesi, presi nel loro complesso, fa spesso trascurare la loro strutturazione sociale interna. Il secondo punto è dunque la continua attenzione da prestare a quest’ultima, per quanto non sempre esplicitata nell’analisi. In ogni caso, l’elemento cruciale è al momento rappresentato dall’indagine intorno ai processi in corso nell’arena internazionale, con la possibile comprensione di come vadano atteggiandosi i vari gruppi dominanti dei diversi paesi. In modo del tutto particolare, dobbiamo seguire quanto avviene in Italia e nell’area a noi prossima poiché qui siamo situati. E’ il solito problema, valido pure nei rapporti interpersonali: conoscere meglio se stessi per meglio muoversi nel variegato interagire con gli altri.
(CONTINUA)