ANTONIO PESENTI (1910-73) COME PENSATORE MARXISTA
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1. Antonio Pesenti non è stato affatto soltanto un pensatore e non “nacque” marxista. Fu innanzitutto, fin da giovane, fortemente interessato alla politica; e tenuto conto dell’epoca in cui fu giovane, la sua scelta politica dovette essere radicale. Egli divenne, fin dalla sua prima scelta, antifascista. All’inizio optò per l’orientamento repubblicano e poi socialista. Per quanto ricordo, solo in carcere si orientò in senso comunista e quindi marxista; poiché a quel tempo, e per alcuni decenni successivi, era assai raro trovare chi fosse comunista senza essere marxista.
Spero che qualcun altro tracci una più completa biografia del Maestro, perché la sua vita è del tutto esemplare per capire chi furono i comunisti e i marxisti. Qui non posso dilungarmi su questi tratti fondamentale del suo percorso umano e politico, perché fin troppo c’è da dire sul suo pensiero teorico, che sarò obbligato a soltanto sunteggiare. Tuttavia, va sempre tenuto presente che Pesenti non fu semplicemente un “pensatore”; uno che formula idee nel chiuso di una stanza, in solitario colloquio con se stesso o anche con l’Umanità in generale. Pesenti fu anzitutto uomo d’azione, impegnato fino all’ultimo nell’attività del partito che scelse durante i suoi anni di carcere (1935-43). Fu in pratica sempre, nel dopoguerra, parlamentare comunista (senatore dal 1953); fu Ministro delle Finanze nel provvisorio Governo di Unità Nazionale (primo e secondo Governo Bonomi), membro della Consulta Nazionale e poi dell’Assemblea Costituente. Successivamente, divenne il principale economista del suo partito (all’opposizione) ed eccezionale esperto di questioni finanziarie, sulle quali fece anche magistrali interventi nella sua qualità di parlamentare.
Solo alla fine, passato all’Università di Roma (dove abitava), decise di dedicarsi pressoché esclusivamente a studi e insegnamento, ma la sua scelta fu purtroppo di breve durata. Visse nemmeno 63 anni, ma la sua esistenza fu di un’intensità tale da superare o almeno eguagliare in opere e attività quella di un qualsiasi altro individuo longevo. Trattare dunque Pesenti quale mero pensatore sarebbe veramente tagliare, della sua multiforme personalità, una fetta: importante ma connessa con mille fili ad un’attività pratica (e politica) di rara qualità. Quindi, cercherò di porre in luce alcune sue fondamentali categorie teoriche – elaborazioni del marxismo – ma non potrò non fare spesso riferimento alla fase storica in cui queste sono calate.
Il pensiero di Pesenti è quello di uno scienziato, ma di formazione appunto marxista; per cui mai interessato a semplici elucubrazioni d’ordine “universale”, sempre invece legato alla congiuntura politica con le sue peculiarità d’ordine sociale. Per Pesenti vale quanto scrisse mirabilmente Max Weber ne La scienza come professione: “Ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo dieci, venti, cinquanta anni è invecchiato. E’ questo il destino, o meglio, è questo il significato del lavoro scientifico, il quale, rispetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in senso assolutamente specifico: ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed essere ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza”.
2. Il pensiero di Pesenti – come quello di un qualsiasi serio studioso, mai avulso, lo ripeto, dall’attività pratica nelle diverse concrete congiunture storiche – potrebbe essere suddiviso in varie fasi di sviluppo, con cambiamenti di fase in fase. Tuttavia, sarebbe impresa qui impossibile seguire tutte le diverse “varianti”. Diciamo intanto che, per quanto riguarda le linee generali e solidificate del suo pensiero, queste sono state definitivamente consegnate nell’ultima edizione (1970) del suo Manuale di Economia Politica, che ha conosciuto, a partire dagli anni ’50 (seconda metà, se non ricordo male), più edizioni con aggiunte e importanti rielaborazioni. Si tratta comunque dell’esposizione, per quanto non piatta né scevra di ripensamenti personali, di quello che potrebbe essere definito il “marxismo della tradizione”, che è stato in qualche modo “canonizzato” da Kautsky; e poi certo sviluppato – con varie “eresie” interne, fra le quali rilevantissima, anche per i suoi effetti politici caratterizzanti gran parte del XX secolo, è quella di Lenin, cui Pesenti si rifà abbondantemente – da molte generazioni di marxisti.
Tuttavia, il farsi del pensiero di Pesenti si riscontra meglio, considerando soprattutto uno spartiacque cruciale collocato in ogni caso negli anni ’50. Per certi versi, in modo più tradizionale e forse più banale, ci si potrebbe riferire alla ben nota cesura avvenuta con il XX Congresso del Pcus (1956) e la relazione Kruscev che diede inizio al processo denominato “destalinizzazione”. A mio avviso, tuttavia, è forse più visibile il mutamento provocato dal cosiddetto boom dell’economia italiana, diciamo soprattutto fra il 1958 e il 1962-63; processo tutt’altro che semplicemente economico poiché provocò il passaggio dell’Italia da paese agrario-industriale a industrial-agrario, con la trasformazione del “contadino” in “operaio”; assai visibile soprattutto nella forte emigrazione dal sud all’area industrializzata del nord, allora collocata per la massima parte sull’asse Torino-Milano (e, in misura minore, Genova). A questa trasformazione, legata specialmente all’emigrazione, va però aggiunta quella, alla lunga perfino più rilevante, dello sviluppo di un’area piccolo e medio-imprenditoriale – il cosiddetto “ceto medio produttivo”, oggi ricompreso nel “lavoro autonomo” o “popolo delle partite Iva”, qualche volta detto ancora “artigianato”, e via dicendo – nel cosiddetto “nord-est”, in Emilia, ecc.
Degli anni fino al 1956 è da ricordare l’importanza della rivista “Critica economica”, voluta e diretta da Pesenti che vi scrisse molti articoli, alcuni di notevole rilevanza teorica; e la sua partecipazione, credo sostanziale, alla stesura del mirabile corso di lezioni, tenuto all’Istituto di Studi Comunisti tra il dicembre 1955 e l’aprile 1956, sull’analisi dell’economia politica. Una vera perla, oggi dimenticata e che andrebbe ripubblicata e rivisitata con autentico spirito scientifico poiché è veramente uno dei punti alti del marxismo italiano. Si tratta di un corso di lezioni per null’affatto scolastico e puramente didattico, ma invece fucina (o cantiere) di molte elaborazioni, sia pure condensate ed esposte nella forma (ma solo forma) dell’insegnamento. Certo vi si trova soprattutto il ragionamento su questioni economiche, ma si va oltre questo impianto; e comunque se ne fa un “grimaldello” per affrontare i problemi reali, ovviamente relativi alla realtà di quella fase storica.
Negli anni ’60, dopo il boom e la prima crisi ad esso posteriore, molti cambiamenti intervengono e il pensiero di Pesenti si “aggiusta” in concomitanza con gli avvenimenti di quegli anni, sfociando in due fra i suoi interventi di maggior rilievo, entrambi nel 1970 (o dintorni): Le tendenze dell’economia internazionale, relazione al Convegno organizzato dall’Istituto Gramsci-Cespe su “Il capitalismo italiano e l’economia internazionale”; e Validità attuale de L’imperialismo nel supplemento ad un numero di “Critica marxista”, in pratica un quaderno dedicato al centenario della nascita di Lenin, in cui era pure contenuto un notevole saggio di Sereni sulla formazione economico-sociale, che diede inizio all’importante dibattito (internazionale) su tale tema tenutosi nel 1972-73 sulla stessa rivista.
3. Dividerò in parti, divisione certo assai artificiale, i contributi di Pesenti (e ne tratterò soltanto alcuni, particolarmente chiari e rappresentativi del suo pensiero). Innanzitutto, egli difese una serie di categorie prettamente storico-teoriche marxiane, non però con atteggiamento di pedante ossequio. Fra le questioni forse minori, quella relativa alle “leggi” dell’impoverimento assoluto e relativo del lavoro salariato. Quello relativo non poneva forse, all’epoca, particolari problemi, trattandosi della divisione del prodotto tra profitto e salario (in una visione teorica semplificata della società del capitale). Più problematico l’impoverimento assoluto, che alcuni marxisti dogmatici interpretavano in senso stretto come diminuzione del tenore di vita (e quindi del salario reale e del potere d’acquisto), cosa assai poco sostenibile, tenuto conto che lo stesso Marx, nella sua polemica con il “cittadino Weston” (in Salario, prezzo e profitto) aveva chiarito che il valore della merce forza lavoro era composto di una parte di carattere quasi naturale, biologica, e di una parte (crescente) legata allo sviluppo delle forze produttive della società e quindi al tenore di vita medio sociale.
Pesenti sostenne infatti che l’impoverimento era assoluto nel senso che i bisogni legati allo sviluppo sociale crescono più rapidamente del salario reale, per cui questo non riesce a tutto soddisfare; il lavoratore sacrifica perciò certi consumi essenziali pur di sopperire ai molteplici bisogni che via via divengono parte dello stesso valore della forza lavoro. Questo fatto fu però da lui legato soprattutto alle trasformazioni del capitalismo da concorrenziale in monopolistico. Le grandi imprese oligopolistiche, più che alla concorrenza sui prezzi che sono rigidi all’in giù nella nuova forma di mercato, si dedicano ad una competizione sul piano dei prodotti, inducendo quindi nuovi bisogni nei consumatori, la gran parte dei quali è costituita da chi offre (forza)lavoro remunerato con salario (il prezzo di questa merce particolare).
L’impoverimento assoluto è quindi in un certo senso pur esso “relativo”; non però rispetto alla classe antagonista, bensì alla stessa classe lavoratrice considerata nel tempo storico e quindi anche nella sua crescente organizzazione e capacità di lotta di fase in fase. Nel capitalismo monopolistico conta, ancor più che in quello concorrenziale, la lotta del lavoro salariato, organizzato in sindacati e partiti, per accrescere la propria remunerazione (era del resto su questo piano che il fondatore del marxismo polemizzava con Weston); tuttavia, è altrettanto importante la competizione interoligopolistica per i prodotti e per la loro affermazione in un mercato, in cui i prezzi sono appunto rigidi all’in giù. La lotta dei lavoratori accresce i salari reali (il loro potere d’acquisto) e, tuttavia, la competizione tra grandi imprese contribuisce largamente a indurre quell’aumento dei bisogni che fa si che tali salari siano in ritardo rispetto a quest’ultimo; processo da cui deriva appunto l’assoluto impoverimento in una versione quindi un po’ differente da quella elaborata da Marx e che certi marxisti scolastici avevano decisamente peggiorata.
Non c’è però solo l’impoverimento assoluto, ma anche quello relativo, che ha il significato di una modificazione nella distribuzione del prodotto, sempre più a favore (dunque percentualmente) del profitto in rapporto al salario (nei suoi termini reali ovviamente). La spiegazione di questo processo (tendenziale) è data usualmente con riferimento all’andamento della produttività del lavoro che cresce più rapidamente del salario reale. Anche Pesenti si rifà a questa considerazione come si rileva nel passo appena citato in nota. In definitiva, l’impoverimento relativo non è altro che il risultato dei metodi di accrescimento del plusvalore relativo (mezzi essenzialmente tecnologici o di organizzazione del lavoro; in definitiva, innovazioni di processo, non quelle di prodotto che rientrano più specificamente nel novero del conflitto interoligopolistico appena sopra considerato).
Tuttavia, proprio perché il capitalismo monopolistico è trattato da Pesenti nelle sue modalità di trasformazione in quello monopolistico di Stato, cioè di stretta integrazione tra capitale e Stato, si assiste ad un altro marchingegno per trasferire reddito dai salari ai profitti: le manovre sulla moneta (effettuate dal centro del sistema bancario) tese a provocare una lenta inflazione che erode i salari reali. Qui però si è in presenza di una “forma mista”. In effetti, vi è impoverimento relativo, ma anche assoluto; addirittura con la riduzione del potere d’acquisto di un salario dato. Si tratta insomma di una manovra che riduce, talvolta annulla, gli effetti della lotta dei lavoratori per l’innalzamento delle retribuzioni, con una sottile mistificazione possibile, e ampiamente sfruttata dagli ideologi (in specie economisti) del capitale. Ogni volta che la lotta per i salari ottiene un successo, si può subito correlarla ad un effetto inflazionistico, in modo da dichiarare l’inanità di certi sforzi, che comporterebbero l’effetto negativo della svalutazione monetaria.
Ci troviamo comunque di fronte a due nodi principali ed essenziali non della sola elaborazione pesentiana, ma di grande rilevanza per la “linea politica” del Pci, e in genere dei comunisti nei paesi a capitalismo avanzato: a) la trasformazione del capitalismo da concorrenziale in monopolistico, ma ormai un monopolismo di Stato; b) i profondi mutamenti della struttura dei rapporti nelle società caratterizzate da quest’ultimo e, appunto, dall’alto grado dello sviluppo capitalistico.
4. E’ bene affrontare per primo il secondo punto, perché su questo si nota bene lo spartiacque rappresentato – nel pensiero di Pesenti – dal boom italiano e dal passaggio alla netta prevalenza dell’industria nella struttura del nostro capitalismo; processo che non fu, appunto, di carattere solo economico. Questo passaggio – come del resto è accaduto in tutti i paesi della “seconda ondata di industrializzazione” (alla prima appartiene di fatto la sola Inghilterra) – si verifica mediante il decisivo intervento dello Stato per mobilizzare (e concentrare) tutte le risorse della società; il che ha favorito, assieme ad un rapido sviluppo, anche la centralizzazione dei capitali. Di conseguenza, il passaggio dalla prevalente agricoltura alla prevalente industria avviene nell’ambito di un capitalismo già monopolistico e con caratteri di incipiente passaggio a quello “di Stato”. Oltre ad essere un processo di impetuosa modificazione “di classe”; dai contadini agli operai o ai piccoli produttori (apparentemente) indipendenti, in realtà subordinati soprattutto all’apparato finanziario che, in Italia, era in gran parte statale (IRI).
Al contrario di quanto possono pensare “le varie concezioni riformistiche piccolo-borghesi e socialdemocratiche”, il monopolio non è semplice sovrastruttura della società, quindi politicamente correggibile, ma “struttura necessaria e propria del capitalismo giunto nello stadio odierno” (sempre nello stesso articolo); una struttura quindi ormai ineliminabile in regime capitalistico. Il capitale monopolistico sfrutterebbe il complesso della società, ma nel contempo rallenterebbe lo sviluppo delle forze produttive e quindi l’accrescimento possibile della ricchezza prodotta. Compare qui la duplice tesi del marxismo della tradizione. Innanzitutto, il capitale è barriera a se stesso, al suo sviluppo e quindi allo sviluppo delle forze produttive della società. Esso arricchisce se stesso, ma ostacolando le potenzialità insite nel progresso scientifico e tecnologico che potrebbe andare a vantaggio di tutta la società. In secondo luogo, il monopolio accentua quella tendenza – sulla cui base Marx fondava la formazione del “soggetto rivoluzionario” affossatore del capitalismo – alla polarizzazione della società: da una parte un pugno di capitalisti sempre più ricchi e progressivamente parassitari, dall’altra, il lavoratore collettivo cooperativo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”; si veda il marxiano Capitolo VI inedito).
Certamente, si verifica anche, come controtendenza, un accrescimento dei ceti medi, “cuscinetto” tra la classe sfruttatrice e quella sfruttata; ma questi ceti vivrebbero del plusvalore creato dal suddetto lavoratore collettivo, e la loro crescita non impedirebbe dunque, in ultima analisi, l’acuirsi dello scontro di classe affrettato dallo sfruttamento che il capitalismo monopolistico (e tanto più con il controllo e uso dello Stato) impone al complesso della società. Di conseguenza, in quella fase di sviluppo del capitalismo italiano (precedente il boom), si pensa che il processo sia tendenzialmente indirizzato ad una polarizzazione sociale e ad una semplificazione dello scontro di classe con oggettivo rafforzamento della spinta delle “grandi masse” verso soluzioni socialistiche; fra l’altro irrobustita dalla presenza di un “campo socialista” che si supponeva in crescita impetuosa e in grado di superare, in breve tempo, il campo avverso quanto a produzione complessiva.
Ben diversi sono al proposito gli scritti, sopra citati, degli anni ’70. Non viene abbandonato l’ottimismo circa le future, e nemmeno lontanissime, prospettive del socialismo. Permane la fiducia, appena attenuata, nello sviluppo dei paesi socialisti, cui si aggiunge la considerazione – nient’affatto terzomondista però – della lotta antimperialista e di liberazione nazionale che sembra in accentuazione nelle aree meno sviluppate del globo. Tuttavia, si ha un importante mutamento d’accento con riguardo al problema della struttura sociale nel capitalismo avanzato e, in particolare, in quello italiano. Lo sviluppo dei ceti medi è troppo imponente e appare irreversibile. Inoltre non si tratta solo di ceti delle “libere professioni”, il cui lavoro è spesso utile ma improduttivo (in termini marxiani, che riguardano la produzione di plusvalore; questi ceti sarebbero quindi “mantenuti” dal plusvalore della classe produttiva). Si sviluppa il ceto dei tecnici ed esperti, che prestano lavoro nelle grandi imprese oligopolistiche e negli apparati di ricerca; importante è poi il cosiddetto ceto medio produttivo (piccolo-media imprenditoria, il lavoro detto “autonomo”, ecc.), in genere originatosi dalla trasformazione della classe contadina (ad esempio nel nord-est) o di quella operaia, una parte della quale si stacca dalla grande impresa e costituisce attorno ad essa una cintura di piccole imprese fornitrici di beni e servizi per il suo ciclo produttivo (in senso lato, ivi compresa la distribuzione e commercializzazione dei prodotti); tipico il caso della Fiat e dell’economia piemontese (quindi del nord-ovest).
La lotta di classe non va polarizzandosi a causa della presunta formazione delle due classi fondamentali: la borghesia monopolistica (in genere proprietaria di pacchetti azionari e, quindi, gruppo sociale sempre più ristretto e di prevalente carattere finanziario) e la classe operaia (dalla direzione fino al lavoro esecutivo) sempre più allargata; con strati intermedi (soprattutto professioni “liberali”) che non potevano, alla lunga, impedire il radicalizzarsi dello scontro e la crescita dell’esigenza socialista nella maggioranza della popolazione, esigenza favorita dalla presenza del campo socialista, ritenuto in vigoroso sviluppo e in fase di progressivo allargamento e prevalenza rispetto a quello capitalistico.
Già negli anni ’50 era stata avanzata la tesi della “via italiana al socialismo”, che tuttavia, prima del boom, si confondeva con quella abbastanza tradizionale della crescita, appunto, del “lavoratore collettivo” contro una borghesia sempre più ristretta e tendenzialmente parassitaria, nel mentre il monopolio era visto come prevalente attutirsi della spinta propulsiva del capitalismo, quella che Schumpeter attribuiva all’imprenditore innovatore, figura ritenuta centrale nel capitalismo di concorrenza. Dopo il boom, il ceto medio produttivo non può più essere ritenuto un fenomeno residuale (come il superato artigianato dei mestieri, tipico di un mondo di prevalente campagna o di piccola urbanizzazione). La “via italiana al socialismo” deve essere pensata in un nuovo contesto, e si arricchisce quindi di quelle tesi passate alla storia come riforme di struttura. Ma andiamo per gradi.
5. Innanzitutto mi piace riportare alcuni brani iniziali dell’intervento di Pesenti (già citato) al Convegno (Istituto Gramsci-Cespe) sul capitalismo italiano e l’economia internazionale: “Il nostro Convegno si apre in un momento in cui si ripetono nel sistema imperialistico andamenti e fenomeni che sono stati caratteristici nella preparazione della ‘grande crisi’. Questo giudizio…..trae origine dal riconoscimento che si è accresciuta la generale instabilità del sistema, che trova una sua manifestazione nella instabilità monetaria, nella guerra dei saggi di interesse e nei rapidi movimenti internazionali di capitale a breve termine. Tale fenomeno non è che l’espressione più appariscente dell’acuirsi di tutta una serie di contraddizioni, che sono proprie dello sviluppo capitalistico nella fase imperialistica…..Si sono acuite le contraddizioni di fondo, e ciò ha portato a imponenti modificazioni quantitative e qualitative dell’imperialismo odierno come sistema mondiale e come struttura produttiva, sulle quali è necessario riflettere perché si riproducono…processi simili a quelli che si sono verificati nel decennio 1920-30…..ma essi non sono necessariamente destinati agli stessi sviluppi perché è mutata la situazione generale dell’imperialismo……La crescente instabilità del sistema, e l’aperta minaccia di una crisi economica generale, trae in primo luogo origine dalla rapidamente crescente internazionalizzazione dell’economia capitalistica, che non ha composto, bensì esteso a tutto il sistema le contraddizioni tipiche dello sviluppo capitalistico”.
Fatta la debita differenza che il campo avverso è oggi “imploso”, e il capitalismo è divenuto un vero sistema mondiale, non si può non notare come i toni di queste righe assomiglino a molte affermazioni di certi attuali critici anticapitalistici, che continuano imperterriti da sempre a parlare di contraddizioni crescenti e insolubili in questo sistema sociale. I brani appena riportati creano dunque una duplice sensazione: di modernità di quanto scritto da Pesenti; e di un notevole dejà vu nelle affermazioni odierne dei suddetti critici. A vantaggio delle affermazioni pesentiane di quarant’anni fa sta una serie di decise critiche di teorie allora (e non solo allora) “di moda”, che tuttavia sono tributarie di tesi di molti decenni prima. Pesenti ne individua piuttosto correttamente la radice. Innanzitutto, vi è la critica del terzomondismo, i cui punti basilari affondano nel pensiero della Luxemburg (cui si contrappose decisamente Lenin) per cui non esiste possibilità di riproduzione del capitale in un’area a puro modo di produzione capitalistico. Solo le aree precapitalistiche garantirebbero tale riproduzione. La vittoria delle lotte di liberazione nel Terzo Mondo avrebbe dunque creato le condizioni del propagarsi della rivoluzione proletaria mondiale.
La seconda decisa critica, anche questa motivata da quella di Lenin a Hobson e soprattutto a Kautsky, investe la trattazione dell’imperialismo in quanto semplice politica seguita da alcuni ambienti particolarmente reazionari della borghesia; politica che sarebbe stato possibile correggere senza troppo sconvolgere, mediante movimenti di rivoluzionamento, i meccanismi della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Vi è poi la contrapposizione, sempre affine a quella di Lenin nei confronti di Hilferding, rispetto a chi pensa la struttura imperialistica del capitale quale mera sovrastruttura finanziaria, anch’essa di possibile correzione mediante controllo – senza bisogno di rivoluzioni sociali radicali – del centro dell’apparato che manovra il capitale monetario, piegandolo ai bisogni produttivi della società tutta e non a quelli del profitto di pochi capitalisti fondamentalmente rentier, poiché sarebbero in sostanza questi a perseguire lo sfruttamento dell’intera popolazione mondiale. Come non avvertire che questi spunti critici potrebbero essere oggi rivolti, almeno in parte, a coloro che imprecano contro i “cattivi” finanzieri che non rispettano l’“etica negli affari”, o magari contro il “signoraggio” e altre sconsolanti banalità dispensate a piene mani nel corso della presente crisi mondiale?
Fin qui siamo tutto sommato alla ripetizione di molte tesi della tradizione marxista, rivisitate ne L’imperialismo di Lenin. Negli anni ’30 e ’40 vi furono più sostanziosi attacchi alle concezioni anticapitalistiche del marxismo. Attacchi che nascevano dalla nuova struttura del capitalismo americano in via di affermarsi in sede mondiale. Lenin, nel criticare Hilferding, aveva sostenuto che il capitale finanziario era in realtà simbiosi di capitale bancario e industriale. Tuttavia, anch’egli, in questa stretta unione, vedeva la predominanza del primo. Erano soprattutto i banchieri a sedere nei Consigli di Amministrazione delle imprese industriali a garanzia dei crediti (e non di gestione ordinaria, ma per investimenti di lunga durata in capitale fisso) a queste concessi. Tale era soprattutto la struttura del capitale monopolistico tedesco. Quello statunitense, ormai prevalente già nel primo dopoguerra, si era formato con la preminenza di grandi corporations, nelle quali primeggiava l’autofinanziamento rispetto al ricorso al credito.
Pesenti sostenne che la categoria del capitalismo finanziario nell’accezione leniniana sussisteva pur sempre, pur se nell’ambito della simbiosi prevaleva adesso il capitale industriale su quello bancario; sovente, sono infatti le grandi imprese industriali a crearsi le “proprie” banche oltre ad autofinanziarsi grazie ai profitti di monopolio, sui cui torneremo più avanti. E del resto, anche per quanto riguarda il credito, questo è in realtà raccolto spesso con i prestiti obbligazionari, sottoscritti da banche ma pure, in quote rilevanti, per conto dei piccoli risparmiatori. E gli stessi aumenti di capitale, per la parte di azioni in mano a questi ultimi, sono da assimilarsi sostanzialmente ad una sorta di credito, solo a “tasso variabile” (i dividendi distribuiti), per cui dette azioni sono solo formalmente, giuridicamente, titoli di proprietà giacché non attribuiscono alcun potere di disposizione né di controllo reale sull’impresa. Qui è utile una digressione di notevole importanza.
6. Nel 1932 esce un testo importante come The Modern Corporation and Private Property di Berle e Means. In esso certamente si parla della tipica struttura della grande impresa americana, basata più sul managerialismo che sulla proprietà. Tuttavia, il testo diffondeva l’idea di una “democrazia economica” a causa della capillare distribuzione della proprietà azionaria caratteristica di questa struttura societaria. I liberali crederono confutata la tesi marxista della centralizzazione monopolistica dei capitali e, dunque, del potere capitalistico. I marxisti risposero, e Pesenti riprende in pieno tali tesi, che anzi proprio questa struttura – in cui un piccolo pacchetto “di comando” consente il controllo dell’impresa e perciò di una quantità di capitale molto superiore a quello posseduto dal ristretto gruppo di azionisti proprietari di quel pacchetto – dimostra come il potere capitalistico si sia accresciuto in misura assai considerevole, mentre si è certo allargata la quota della popolazione che non solo crea il plusvalore (nel caso del lavoro salariato), ma mette i suoi risparmi, indubbiamente dovuti all’innalzamento del tenore di vita complessivo, a disposizione di un pugno di capitalisti, sottoponendolo dunque ai rischi dell’attività imprenditoriale svolta e guidata da altri.
In Fase di transizione (testo del 1956 già citato) Pesenti associa, nelle sue critiche alle tesi “democratiche” di Berle e Means, anche Burnham. In testi successivi, mi sembra che tale nome manchi. Non va fatta in realtà confusione tra La rivoluzione manageriale (1941), ben noto testo di quest’ultimo, e il libro del 1932. In entrambi si parla certo di apparato manageriale divenuto fondamentale nella struttura della grande impresa americana (che verrà ancora studiata a fondo da Chandler, ecc.). In Burnham, tuttavia, non si sviluppano tesi sulla “democrazia economica”; si mette in pieno rilievo il mutamento intervenuto con l’affermarsi del capitalismo statunitense, in cui la proprietà non ha più il ruolo centrale considerato da Marx nella sua analisi del capitalismo inglese (quello prettamente borghese). I manager, infatti, controllano le grandi imprese, perfino non avendo proprietà azionaria (spesso nemmeno il piccolo pacchetto di comando); essi sono più vicini al ruolo di strateghi dell’azione imprenditoriale piuttosto che alla vecchia idea del gruppo proprietario che, nella fase di accentramento dei capitali, diventa via via un insieme di capitalisti dediti soprattutto ai giochi finanziari e disinteressati alla specifica attività aziendale.
Certamente, anche Burnham presenta aspetti criticabili; tuttavia, intuisce la politicità della direzione imprenditoriale, e non la semplice proprietà (potere di controllo) dei mezzi produttivi, quale carattere decisivo degli agenti del capitale. Aver rigettato, assieme alle tesi di Berle e Means (che hanno poi trovato abbastanza a lungo ampio seguito presso gli apologeti della democrazia capitalistica), anche quelle di Burnham è stato senz’altro un grosso limite del marxismo, più o meno in tutte le sue versioni. Non si poteva pretendere che il Nostro, contrariamente agli altri studiosi di tale orientamento, afferrasse fino in fondo l’intuizione del sociologo ed economista ex trotzkista divenuto, già all’epoca de La rivoluzione manageriale, fortemente reazionario. Pesenti comunque, come già rilevato, non associa più Burnham a Berle e Means nei testi di fine anni ‘60.
D’altronde il Maestro, di cui si sta trattando, approfondisce un altro punto rilevante della struttura capitalistica arrivata alla fase di centralizzazione monopolistica dell’industria, fase in cui si trova l’Italia soprattutto dopo il boom di fine anni ’50-primi ’60. L’accentramento oligopolistico non significa minimamente scomparsa delle medie e piccole dimensioni imprenditoriali; esse vengono subordinate nell’ambito di un’articolazione assai complessa, in cui le grandi imprese hanno, oggettivamente, la possibilità di accrescere i loro profitti. Vediamo sia pur succintamente il problema; del tutto cruciale per la stessa politica di quegli anni. Non si tratta di mero gusto per la scienza, ma di analisi scientifica che sta alla base di scelte politiche.
7. In Marx, prescindendo adesso dalle complicazioni sorte con il ben noto problema della trasformazione (dei valori in prezzi di produzione), il prezzo di una merce sta in stretta relazione con il suo valore quale lavoro incorporato, che è dato dalla somma di C (valore dei mezzi di produzione) + V (valore della merce forza lavoro) +PV (plusvalore, cioè pluslavoro in forma di valore). A causa della concorrenza tra più unità produttive (imprese), e del continuo aumento della produttività del lavoro soprattutto per nuove tecnologie (oltre alle innovazioni organizzative), il valore e dunque il prezzo di una merce tende a scendere; tuttavia, è in ogni dato periodo una media dei “costi” (in tempi di lavoro) sostenuti dalle varie imprese che producono quella certa merce, una media appunto tendente verso il basso, verso i tempi di lavoro minori ottenuti dalle imprese più innovative, che estromettono tendenzialmente le altre nell’ambito della serrata competizione che contraddistingue il capitalismo concorrenziale.
Con l’oligopolio si sostiene che i prezzi sono “fatti” dalle grandi imprese e sono rigidi all’in giù; tesi valida per alcuni decenni dopo la guerra, quando si supponeva che ormai le innovazioni di processo (e ancor più di prodotto) fossero di portata relativamente modesta; tesi non più sostenibile in presenza di grandi svolte innovative come quelle dell’elettronica e informatica, delle biotecnologie e altre ancora, forse ancora più rivoluzionarie del motore a scoppio, dell’elettricità, della chimica, ecc. Comunque, nel 1970 si pensava diversamente. Se i prezzi sono fatti dagli oligopoli e tenuti ad un certo livello – in presenza logicamente di tendenziale non belligeranza e accordo tra le grandi imprese – essi sono fissati in base ai costi di una cintura di medie e piccole imprese esistenti nei vari settori produttivi, dotate di tecnologie meno avanzate, con minori economie di scala (interne), ecc.
In realtà, molte piccole imprese erano fornitrici di parti complementari del bene prodotto dalle grandi (che esplicavano dunque, in parte, funzioni di montaggio e poi lancio e distribuzione del bene completo). Tuttavia, si considerava che esistesse un buon numero di imprese da considerarsi “marginali” per la produzione in quel dato settore merceologico; e che esse fossero tenute in vita dalle più grandi attraverso una fissazione dei prezzi al livello dei loro costi più alti, di modo che le imprese oligopolistiche potessero godere di un extraprofitto, cioè di un profitto di monopolio. Oggi, lo ripeto, tali considerazioni, con il senno del poi, sono piuttosto opinabili; le piccole imprese hanno motivazioni diverse e il loro sviluppo, la loro “numerosità”, ecc. non dipendono soltanto dagli “artifici” posti in essere dalle grandi imprese, soprattutto non rispondono a motivazioni d’ordine esclusivamente economico, tanto meno relative alla sola formazione dei prezzi di mercato.
Poco si capirebbe di quelle teorizzazioni, di cui Pesenti fu valido rappresentante, se si pensa al solito studioso, chiuso nella sua cameretta, tutto intento a pensare un mondo che brulica e si agita tutto intorno. In realtà come ricordato sopra, il boom determina uno spartiacque sia nell’assetto sociale sia nel pensiero di chi sta elaborando una teoria anche per la politica, per di più una politica che si trova all’opposizione non semplicemente di un governo, bensì di un determinato sistema di rapporti sociali. Negli anni ’50 era ancora possibile, come visto, attenersi alla considerazione di una prevalente tendenza alla polarizzazione sociale tra capitale e lavoro (sottinteso: salariato), cioè tra le due classi fondamentali (e antagoniste) del modello marxista “classico”. Gli strati sociali intermedi, cuscinetto tra queste due classi, erano fondamentalmente trattati come residui di questa predominante tendenza alla polarizzazione. Se tali strati tendono a permanere, ciò dipenderebbe dalla intromissione di altri elementi “impuri”; ad esempio politici, tesi magari a smorzare e ritardare l’antagonismo sociale per ostacolare la presa del potere, pacifica e per via elettorale, da parte dell’organismo rappresentante il lavoro salariato, in specie quello operaio.
La trasformazione sociale italiana a cavallo tra anni ’50 e ’60 comporta uno scossone definitivo a queste tesi. La crescita di quelli che furono definiti “ceti medi produttivi” (di cui il nucleo essenziale è appunto rappresentato dalle piccolo-medie dimensioni imprenditoriali) non è fenomeno residuale, non è un rallentamento “artificiale” di un processo storicamente ineluttabile; è invece il portato oggettivo di una differente dinamica, tipica dei capitalismi arrivati ad un alto grado di sviluppo, caratterizzato dalla struttura monopolistica dei mercati e quindi da una diversa formazione dei prezzi, non più affidata alla semplice concorrenza. Le imprese oligopolistiche sono attive nel fissare certi prezzi, e riescono almeno in parte ad imporre quelli che danno loro profitti di monopolio, favorendo nel contempo la nascita di una miriade di imprese con cicli produttivi caratterizzati da un certo numero di livelli tecnico-organizzativi dei processi lavorativi, con costi differenziati e la cui diversificazione tendeva ad essere mantenuta; e il prezzo si stabiliva quindi in base ai costi delle imprese marginali.
A questo punto, diventava evidente la stabile, strutturale, permanenza dei ceti medi, anche di quelli di carattere imprenditoriale e produttivo. La trattazione teorica della nuova struttura del capitalismo avanzato doveva adeguarsi. Si considerava pur sempre nella sostanza valida l’affermazione leniniana secondo cui si era in pieno stadio imperialistico; si riteneva corretta l’indicazione che quest’ultimo era soprattutto caratterizzato dalla formazione del monopolio. Tuttavia, in un paese a sviluppo industriale avanzato si manifestava “qualcosa” in più. La politica di opposizione non poteva più limitarsi a conquistare soprattutto i ceti operai o le “masse lavoratrici” (quelle del lavoro salariato ai più bassi livelli esecutivi). Diventava imprescindibile la questione dei “ceti medi”. Questo era il significato cruciale del mutamento teorico intervenuto.
8. Ancor prima della seconda guerra mondiale, erano andate sviluppandosi – soprattutto in autori sovietici (come Varga) e francesi – le tesi di un ulteriore stadio, quello del capitalismo monopolistico di Stato. Tuttavia, in un primo tempo si intendevano segnalare pressoché esclusivamente con simile definizione gli “interventi indiretti nel processo produttivo (premi, sussidi di varie forme) o di consumo (pensioni, etc.), con l’uso di strumenti fiscali, finanziari, creditizi, monetari”; interventi che “stimolano il processo di riproduzione capitalistico, ma non ne mutano le leggi, le caratteristiche, il tipo di sviluppo e quindi sono destinati a raggiungere presto o tardi il limite della loro efficacia. Ciò vale anche per il più importante strumento, la ‘moneta manovrata’” (ibid.). Ben diversi sono “gli interventi con imprese produttive di proprietà statale” (ibid.).
Già Engels aveva parlato di capitalismo di Stato, pensato quale ultimo gradino di sviluppo del modo di produzione capitalistico, oltre il quale non poteva ormai che sussistere il passaggio al “socialismo” (quale primo livello o stadio del modo di produzione comunistico). Un paio di decenni dopo, Hilferding, nel suo Il capitale finanziario, aveva parlato della possibilità di un graduale passaggio a tale primo stadio socialistico mediante il controllo centrale, cioè statale (di uno Stato in mano a nuove forze politiche, espressione delle masse lavoratrici), dell’apparato finanziario; e, tramite questo, di quello produttivo. D’altronde – dopo la Rivoluzione d’Ottobre e l’infine obbligata scelta della “costruzione del socialismo in un paese solo” a causa del fallimento rivoluzionario nei paesi a capitalismo maggiormente sviluppato – il socialismo fu di fatto identificato con la proprietà statale dei mezzi produttivi: una proprietà ipso facto considerata “collettiva”.
Nel nostro paese, dopo la seconda guerra mondiale, era certo illusorio anche solo il pensare ad una costruzione socialistica “come in Urss”; vi ostavano i patti di Yalta ed altri motivi ancora. Il primo tra questi fu proprio il definitivo passaggio, tra anni ’50 e ’60, ad una fase avanzata di sviluppo capitalistico, caratterizzato dalla netta prevalenza dell’industria sull’agricoltura e dall’ancora non massiccio, ma già considerevole, progresso del settore dei servizi. Perfino nella situazione russa del 1917 – malgrado si sostenesse la centralità della direzione da parte della classe operaia, direzione esercitata in realtà dal partito ritenuto semplice avanguardia della stessa – la rivoluzione sovietica era stata realizzata grazie alla messa in movimento e all’appoggio delle masse contadine, particolarmente arretrate socialmente e con livelli di vita quasi primitivi.
Nell’Italia degli anni’60, alcuni movimenti immaginarono che gli operai fossero pronti alla rivoluzione; in realtà, si trattava di un periodo di lotte acute, che hanno quasi sempre contraddistinto storicamente, in molti paesi, la fase di passaggio dal contadino all’operaio, con migrazione dalla campagna alla città (da noi, in particolare, dal sud al nord). Sempre ricordando la formula del mutatis mutandis, era in realtà possibile pensare che, nella nostra realtà, il posto delle masse contadine russe – interessate alla rivoluzione sovietica soprattutto per il possesso della terra, non certo per particolare spirito comunistico – fosse occupato dai ceti medi; soprattutto, appunto, da quelli produttivi tenendo conto che, al massiccio fenomeno migratorio del contadino meridionale verso la città (operaia) settentrionale, si accompagnava l’altrettanto massiccio fenomeno della trasformazione del contadino settentrionale (“ricco” in relazione al suo corrispettivo del sud) in piccolo imprenditore, spesso riunito in varie forme cooperative. Tale fenomeno fu egualmente rilevante sia nelle zone “bianche” di Lombardia e Veneto che in quelle “rosse” dell’Emilia-Romagna. Ne discendeva la logica conclusione dell’alleanza operai-ceti medi produttivi; una sorta di aggiornamento dell’alleanza operai-contadini, passando da un paese (la Russia) ad appena iniziale sviluppo capitalistico (e pochissimo industrializzato) ad un paese che aveva ormai “superato il muro del suono” di questo tipo di sviluppo.
9. Entriamo nel vivo di tale questione e, dunque, dell’elaborazione teorica di Pesenti mirata a risolverla; un’elaborazione quindi legata alla fase storica in cui egli visse con forte impegno politico, e sempre dal punto di vista di una possibile trasformazione del sistema sociale, essendo però dati una non modificabile collocazione internazionale del paese e il tipo di governo allora esistente. Nel 1956 (intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti) fu varata, se così si può dire, la “via italiana al socialismo”; più o meno in quel contesto si cominciò a parlare di “riforme di struttura”. Il contenuto di quello che divenne il punto centrale del progetto politico comunista non era all’inizio ben definito (ovviamente è la mia interpretazione).
Come già sopra considerato, prima della trasformazione legata al boom, i ceti medi venivano ancora considerati residuo, alimentato in specie da scelte politiche, rispetto alla tendenziale polarizzazione sociale crescente; mentre dopo la trasformazione in oggetto, i ceti medi (produttivi, si insistette continuamente su questa specificazione) divennero componente strutturale della società italiana. Alla “questione meridionale” – non risolta, ma comunque profondamente mutata con la migrazione contadina verso le città industriali del nord – si doveva aggiungere di fatto una questione settentrionale (allora non la si definì proprio così) derivante dalla struttura del capitalismo industriale (avanzato) arrivato alla fase del capitalismo monopolistico, per di più con l’aggiunta “di Stato”, che in Italia – con l’Iri e, nel dopoguerra, con l’Eni e l’Enel – significava diretto intervento dell’apparato pubblico nella proprietà di imprese produttive.
La prima considerazione, fatta sopra, è che si doveva costruire un blocco sociale costituito dall’alleanza tra operai e ceti medi (insisto: produttivi, in sostanza piccolo-imprenditoriali). Questi ultimi andavano incoraggiati – e ciò richiedeva l’intervento pubblico, in particolare sotto forma di finanziamenti e regimi giuridici speciali e favorevoli – alla cooperazione con lo scopo di ovviare alle minori dimensioni comportanti svantaggi in tema di “economie di scala”, di possibilità di ricerca tecnologica e di prodotto, ecc. Tuttavia, tale alleanza non era certo favorita, come quella operai-contadini nella Russia del ’17, dalle particolari condizioni di arretratezza, di dissoluzione delle istituzioni del governo centrale (la “Duma borghese” non riuscì a sopperire al crollo del potere autocratico zarista). Lì fu possibile una “guerra di movimento”, in cui vi era bisogno di relativamente poche “truppe”, molto mobili, e di una direzione non pletorica con forti capacità tattiche e strategiche adeguate a quel tipo di conflitto.
Da noi, era prevedibile una lunga “guerra di posizione”, logorante, che si pensava di condurre dentro e attraverso le istituzioni, ma che doveva avere svolgimento capillare nel territorio: tramite appunto il blocco tra operai e ceti medi produttivi. Occorreva però una direzione; e non soltanto quella politica, bensì anche nella struttura economico-produttiva. Non si poteva fare a meno – così si pensò almeno – della grande impresa moderna e tecnologicamente avanzata in quello che si presentava come un lungo e tortuoso confronto. Tuttavia, la grande impresa era prettamente capitalistica, sia pure della nuova fase, quella imperialistica, che per il marxista Pesenti era solo uno stadio del modo di produzione capitalistico giunto, nella sua opinione (anche in ciò del tutto in linea con il marxismo tradizionale), alla fase della maturità e senescenza. In un mondo bipolare – in cui, dopo le illusioni create dal primo sputnik, ecc., era evidente la ripresa di forza mondiale del capitalismo statunitense, centro del campo capitalistico, mentre venivano sempre più alla luce le “crepe” dell’Urss e del campo “socialista” – non si poteva più, come negli anni ’50, rifugiarsi nei grandi successi e nell’avanzata impetuosa di quella parte di mondo; quest’ultima appariva invece sempre più lontana anche alle “masse” occidentali, che avevano già iniziato la loro ascesa verso un migliore tenore di vita (che intellettuali ben pasciuti denominavano con disprezzo “consumismo”).
D’altra parte, erano in voga allora le teorizzazioni (di Galbraith soprattutto) circa la tecnostruttura, carattere ormai acquisito dalle grandi imprese oligopolistiche. Questa non va confusa con l’apparato manageriale di burnhamiana memoria, che in qualche modo metteva in luce il carattere strategico degli attori imprenditoriali nel conflitto intercapitalistico. La tesi della “tecnostruttura” prendeva certamente in considerazione la nuova complessa organizzazione della corporation americana, divisa in dipartimenti e poi in divisioni. Essa nasconde tuttavia il predominio degli agenti del capitale dietro esigenze puramente tecniche che, sia pure in modo più articolato e aderente alla realtà empirica (il che non è sempre un punto a favore), si rifanno al calcolo razionale del massimo risultato (o minimo sforzo). Le strategie effettive tese al predominio di mercato (e con larghi interessi in direzione del potere politico e del predominio sociale tout court) sono lasciate in ombra; e vengono perciò criticate da Pesenti come da ogni altro marxista.
10. Il capitalismo italiano aveva una sua particolare strutturazione – in parte ereditata dal fascismo e con le “aggiunte” (e che aggiunte!) di Eni ed Enel – in cui circa la metà della produzione industriale, in particolare quella delle grandi imprese, era in mano pubblica; e così pure la parte fondamentale dell’apparato bancario. Sembrò quindi che il deus ex machina della situazione fosse proprio il diverso uso dell’apparato economico statale, cioè di quelle imprese produttive che segnalavano il cambiamento intervenuto nella struttura e funzioni pubbliche nella fase del capitalismo monopolistico di Stato; ma soprattutto nella peculiare situazione italiana, in cui tale forma capitalistica era già caratterizzata ampiamente dalla proprietà di così gran parte delle istituzioni economico-produttive di un capitalismo avanzato.
Cruciale questo illuminante passo di Pesenti (sempre in Validità attuale de l’Imperialismo): “dal punto di vista economico, per contrastare il meccanismo della riproduzione capitalistica e modificarlo, ossia per modificare il tipo di sviluppo, non vi è che un solo modo [corsivo mio]: estendere la proprietà statale dei mezzi di produzione, ossia accrescere, fino a farlo diventare determinante, il peso delle imprese produttive statali. Naturalmente questo ragionamento che è economico, di logica economica, per attuarsi concretamente esige un salto qualitativo politico, cioè nei rapporti di forza, tra le classi, la creazione di un nuovo blocco storico di potere [corsivo mio], di una ‘nuova maggioranza’ che attui ciò che noi italiani chiamiamo le ‘riforme di struttura’”.
Si noti la gradualità dello stesso linguaggio – “modificare”, “accrescere fino a farlo diventare”, ecc., sia pure con l’accenno al “salto qualitativo” e ai “rapporti di forza” – l’esistenza di “un solo modo”, specialmente l’indicazione di un “nuovo blocco di potere” (non viene usato il termine gramsciano di blocco sociale) attraverso una “nuova maggioranza”. Non credo proprio che fosse anticipata l’idea del “compromesso storico”, nemmeno in senso specifico quella di un “eurocomunismo” (con occidentalizzazione della prospettiva del Pci); non fu messo in discussione il legame con il campo “socialista” (e l’Urss), di cui si continuava a criticare la scarsa democraticità e non certo la proprietà statale dei mezzi di produzione (ancora identificata di fatto con il socialismo, mentre già era iniziata in Francia, con Bettelheim e la scuola althusseriana, la vivace critica di tale concezione). Era invece in vigore da tempo la tesi della “programmazione democratica” al posto della pianificazione; ma tale tesi apparteneva allo stesso ordine di accettazione di una lenta progressione verso la transizione socialistica, accettazione in un certo senso obbligata dall’ordine internazionale allora esistente.
Per realizzare il progetto in questione era certo necessario un “salto qualitativo nella maggioranza” da conquistare elettoralmente. Senza però l’illusione del famoso 50%+1 dei voti, bensì in accordo (e nel contempo lotta) con lo schieramento ancora avverso, la cui resistenza a simile accordo andava gradualmente vinta con un “blocco di potere” (pezzi di forze politiche al momento contrapposte, ma che sarebbero dovute andare progressivamente avvicinandosi) in grado di ricevere l’appoggio di base da parte degli operai e dei ceti medi produttivi. Il modello era quello delle “regioni rosse”, dove non a caso esisteva nel Pci una maggioranza di tipo “migliorista”, riformista e nel contempo la più filosovietica (si pensi bene a questo connubio, su cui non posso qui diffondermi, ma del tutto implicato da quanto già scritto finora). Tuttavia – non dimenticando mai il contesto mondiale allora esistente – era indispensabile promuovere una via economica al rinsaldamento di questo vagheggiato nuovo “blocco di potere” con la sua base di massa; una via decisamente coadiuvata, ma non forzata né imposta, dalla politica. Data la mancata critica a quella che Althusser definì più tardi la coppia ideologica “pubblico/privato”, data la persistente sostanziale assimilazione della proprietà statale a quella collettiva dei mezzi di produzione, la chiave di volta del progetto era l’utilizzazione del grande apparato pubblico dell’economia, ivi comprese le imprese produttive (e finanziarie).
Sintetizzando: il “blocco di potere”, di graduale formazione, doveva dunque essere basato sull’alleanza tra classe operaia e ceti medi produttivi, con forti impulsi ricevuti in sede economica dall’industria pubblica (tecnologicamente ed organizzativamente avanzata), a tale compito indirizzata – non con la coercizione pianificata, bensì mediante una più morbida “programmazione democratica” – da una “nuova maggioranza” costruita con pezzi vari di forze politiche interessate a modificare (tramite importanti “riforme”) la struttura del capitalismo monopolistico italiano. Per realizzare tale obiettivo, bisognava tuttavia sottrarre spazi al potere del capitalismo monopolistico di Stato, facendo delle imprese produttive pubbliche – ritenute troppo dipendenti dall’influenza di quelle private – delle concorrenti di queste ultime con l’attuazione di una politica di “servizio” utile alla collettività nazionale, soprattutto alle masse popolari italiane. A questo tendeva l’elaborazione teorica di Pesenti, non certo interessato a semplici disquisizioni dottrinali relative ad una maggiore o minore aderenza ai principi del marxismo-leninismo; pur se la gran parte delle sue formulazioni prendeva spunto da quest’ultimo, perfino interpretato a volte con stretta ortodossia.
11. Negli ultimi anni ’60, ivi compresi gli anni della “contestazione”, vennero invitati all’Istituto di Economia (della Facoltà di Giurisprudenza) di Pisa importanti uomini del settore pubblico dell’economia, fra cui ricordo bene Petrilli. Soprattutto importante a mio avviso fu il seminario tenuto da Marcello Colitti, alto dirigente dell’Eni (un uomo che era stato vicino a Mattei prima del presunto “incidente”). Per quanto ne so, non credo esista di quell’evento traccia scritta; solo la mia memoria, che non è evidentemente perfetta dopo tanti anni. Non ricordo certo le domande degli studenti né grandi interventi; fui tuttavia molto attento nel seguire l’intensa discussione tra il mio Maestro e il dirigente della più importante azienda pubblica italiana (che si era laureato in Giurisprudenza a Parma nel 1954 sostenendo la tesi proprio con Pesenti). Ne presi anche alcuni appunti, ma confesso che non sono nemmeno per me oggi facilmente decifrabili.
Nel complesso, tuttavia, si delineò, mi sembra abbastanza bene, una differenza di vedute che era in realtà qualcosa di più: netta divergenza di idee e di impostazione dei problemi. Da una parte, si sosteneva la possibilità (direi necessità) di utilizzare le imprese pubbliche in funzione antimonopolio (sottinteso: privato). Decisivo a tal fine diveniva l’appoggio a tali imprese da parte di una politica di “riforme di struttura”. Era piuttosto evidente che di fatto sarebbe stato necessario mettere l’industria statale al servizio dell’alleanza tra i raggruppamenti sociali fondamentali della popolazione: operai e ceti medi produttivi, appunto. L’appoggio andava quindi in effetti tradotto in robusto orientamento – nelle intenzioni senza aperta coercizione, ma certo con una buona dose di potere di imposizione – del sistema dell’economia pubblica da parte della sfera politica dello Stato.
Dalla parte del manager pubblico, mi sembrava visibile (se mi sbaglio, mi scuso con lui) la sorpresa di fronte ad una prospettiva che gli appariva evidentemente “bizzarra”. Una grande impresa pubblica agisce come ogni altra impresa delle sue dimensioni, a prescindere dalla forma giuridica della proprietà, sempre che sia ben gestita con criteri di efficienza (ed efficacia “strategica”). Essa, evidentemente, è in grado di stabilire accordi oligopolistici – quelli considerati negativi da varie teorie della formazione dei prezzi in tale regime, formulate soprattutto in sede di critica della società capitalistica – oppure sviluppa una forte azione concorrenziale, in specie quando deve farsi strada in un mercato dominato da altre grandi aziende di quel settore.
Quest’ultima era di fatto la posizione dell’Eni nei confronti delle famose “sette sorelle”. La concorrenza – a livello internazionale e non certo nazionale – era indispensabile allo sviluppo dell’azienda pubblica, ma esattamente la stessa cosa sarebbe valsa se fosse stata un’impresa privata. Regime concorrenziale o (mono)oligopolistico non sono stadi di sviluppo del capitale, così come non dipendono dal regime proprietario (se inteso in senso giuridico) delle imprese, a qualsiasi livello della loro dimensionalità. Accordo “monopolistico” o competizione detta “concorrenziale” – termine invero molto soft, dato che si tratta spesso di acuto conflitto strategico – dipendono dalla configurazione del cosiddetto “mercato mondiale”, influenzato in realtà dalla politica degli Stati in base alla differente collocazione di questi nei reciproci rapporti di forza; dipendono, in definitiva, dalla stabilità di tale configurazione o dal prodursi di eventi (economici e politici) che l’alterano e rimettono in moto una lotta prima relativamente sopita.
In quella fase storica (non che oggi sia poi così diverso), l’Eni – più che sottostare a certe direzioni non semplicemente politiche, ma in certa qual guisa ideologiche e partitiche, quelle che hanno giocato un ruolo negativo nella sedicente “costruzione socialistica”, non semplicemente bloccata da “incrostazioni burocratiche” (sovrastrutturali), com’era già allora visibile (basta appunto leggere le analisi di marxisti francesi dell’epoca) – aveva, lei, bisogno di orientare la politica, cioè l’azione dello Stato, per affermarsi su scala internazionale contro imprese già saldamente installate e che avevano alle spalle apparati statali assai robusti.
Mi sembra evidente che le due “visioni prospettiche” non coincidevano per nulla. Tentare, nel mondo bipolare di allora, di piegare le imprese produttive statali ad una politica che contrastasse il capitalismo monopolistico di Stato, correttamente considerato da Pesenti ormai struttura e non mera sovrastruttura della società, per arrivare al “nuovo blocco di potere” – con forze politiche nettamente schierate nel campo dominato, anche tramite la Nato, dagli Stati Uniti – mediante graduale formazione di un’alleanza tra operai e ceti medi produttivi, non può non essere considerato, certo con il senno del poi, un escamotage per non abbandonare la prospettiva di un almeno graduale passaggio al “socialismo”, non scoraggiando ulteriormente i propri seguaci, che di delusioni ne avevano già patite abbastanza.
In definitiva, si voleva mantenere un almeno “amichevole collegamento” con il “campo socialistico” (ancora lontano dal crollo), nel mentre si manteneva in piedi la prospettiva socialista (secondo la “via italiana”) con progressiva attuazione di “riforme di struttura”, accettando le forme democratiche di quel campo capitalistico, configurato in base ai rapporti di forza già considerati. Il tutto sarebbe dovuto confluire in una “programmazione”, non imposta centralmente e d’imperio, che avrebbe dovuto incontrare il gradimento sia dei ceti operai che di quelli piccolo-imprenditoriali. La Storia ha preso un’altra strada, che esula da questo scritto.
12. Mi sembrano risultare evidenti, dalla pur scarna e certo manchevole ricostruzione fattane, alcuni punti centrali. Intanto, il teorico Pesenti non può essere scisso dall’uomo pratico. Non ho nemmeno accennato, perché non competeva a questo scritto, all’enorme produzione di discorsi, articoli, discussioni, ecc. su argomenti finanziari e di politica economica. Tuttavia, al di la di questioni eminentemente pratiche, legate alla contingenza, vi era in lui una più generale stretta connessione tra le formulazioni teoriche – improntate alla concezione marxista (e del marxismo-leninismo), ma sempre attente alle necessarie innovazioni da apportare ad essa – e l’attività politica, intesa nel suo più alto senso di partecipazione all’elaborazione e discussione (anche a livello internazionale) di una linea d’intervento nella fase storica in cui si trovò ad operare (riprendendo il titolo di un libro di Sweezy del 1953, tradotto da noi nel 1962, possiamo dire: The Present as History).
Allora non si pensava alla politica senza un forte appoggio sulla teoria, intesa come scientifica “astrazione determinata” nell’analisi delle vicende legate ad uno scontro di portata complessiva, con forti valenze ideologiche; intendendo, però, per ideologia non il consapevole svisamento del “reale”, bensì la sua interpretazione a partire da una presa di posizione nel conflitto sociale, che sempre si rinnova e si svolge in modo tortuoso ed ondivago. Pesenti apparteneva ad una generazione di grandi economisti marxisti (che non cito per non far torto a qualcuno), ed è stato uno dei primi a dover “abbandonare il campo” (per causa di forza maggiore) quando aveva ancora molto da spendere in energie intellettuali. Egli sparì in un momento cruciale, all’inizio di un decennio passato alla storia come “anni di piombo”, con il “cambio di marcia” nel Pci (segreteria Berlinguer a partire dal 1972), ecc. Impossibile immaginare quali sarebbero potuti essere i suoi apporti teorici nella nuova fase storica.
In ogni caso, per quanto riguarda un periodo decisivo della storia italiana, e mondiale, e del suo “riflesso” nella teoria – certo dal punto di vista della scelta marxista – Antonio Pesenti resta un riferimento importante. Si tende a dimenticare quella generazione, almeno quella di orientamento marxista; non so se è scelta consapevole (e allora colpevole) oppure se ciò dipende dall’insipienza del pensiero attuale, e dal ripiegare della politica sul piccolo cabotaggio e la polemica “personalizzata”. In ogni caso, qualora si volesse scrivere un’autentica storia del pensiero, non solo “economico” – e se si avrà l’accortezza di connetterlo costantemente alle vicende storiche nel loro multiforme aspetto – si “inciamperà” sempre nell’opera di Pesenti, di cui ho tracciato qui volutamente, per ragioni di spazio e tempo, solo poche ma spero essenziali linee di sviluppo: troncato da un evento superiore a tutto il resto. Ovviamente, mi riferisco ai singoli individui, non alla Storia che continua a svolgersi imperterrita e indifferente; se la memoria non la vivifica, essa ci consegna solo cenere che ricopre il tutto rendendolo invisibile.