APPUNTI E SPUNTI (per una diversa storia e politica)
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1. Recentemente ho accennato più volte all’antifascismo “azionista”, intendendo riferirmi a quello che ha dato un contributo abbastanza limitato alla Resistenza, quanto meno a quella che non aveva il solo scopo della “Liberazione” (avvenuta comunque, pur se non so bene da che cosa ci abbia “liberati”, per opera delle truppe “alleate”), bensì quello di un profondo mutamento dei rapporti sociali. Non avevo l’età sufficiente ad “andare in montagna”, ma più che bastevole per ricordi piuttosto precisi del periodo 1943-45 e per contatti e discussioni, a pochissimi anni dalla fine della guerra, con coloro che vi erano andati. Non ho quindi dimenticato la differenza tra le “Brigate Garibaldi” (e “Nannetti”) e quella “Piave” o perfino la “Osoppo”, “Giustizia e Libertà”; e poi altre, le monarchiche (o “badogliane”), e via dicendo.
Non voglio generalizzare la mia esperienza limitata ad una certa area geografico-sociale; comunque, ricordo bene che anche gli anticomunisti avevano un notevole rispetto per i partigiani comunisti, mentre più volte, parlando degli altri, li chiamavano ironicamente “spartiroba”; dove la roba spartita non era la loro, e nemmeno sempre di fascisti, incarcerati o eliminati. Inoltre, anche se qualche nome mi sovviene, non posso certo scrivere di alcuni “nuovi ricchi” imprenditori della zona, che hanno fatto in questo modo la loro “accumulazione originaria”. Mentre non pochi comunisti hanno dovuto espatriare per qualche sedicente eccidio – in genere uccisioni normali quando si combatte sul serio e non per fregiarsi del titolo di antifascista – o si sono dovuti arrangiare in mezzo alle persecuzioni post-elezioni 1948 (qualcuno si è anche arricchito, per carità, non facciamo i manichei).
L’antifascismo più soft – spesso composto da alcuni che, pur bambino, ricordo bene quali tracotanti fascistoni fino al 25 luglio 1943; e lascio perdere le vivide impressioni dell’ 8 settembre – non era in effetti tanto quello definibile azionista (laico-socialista); vi erano i cattolici (sarebbe meglio dire democristiani che non è termine coincidente), i liberali di più vecchio stampo, i badogliani (monarchici appunto), ecc. ecc.
Non intendo negare la grandezza di personaggi quali i fratelli Rosselli (e non semplicemente perché uccisi dal fascismo), ma anche, prima ancora, Salvemini (che tuttavia stroncò come “poco equilibrato” il testo di Carlo Rosselli, Socialismo liberale), e poi i Lussu, i Parri, i La Malfa, gli Ernesto Rossi (il cui libro, I Padroni del vapore, conteneva però parecchie e svariate “imprecisioni” propagandistiche sulle condizioni di vita in Italia negli anni trenta, culmine del fascismo) e molti altri ancora. Grande stima ho nutrito per un Piero Calamandrei. Anche il movimento liberal-socialista (Guido Calogero, ecc.), non lontano da Giustizia e Libertà, è certo da apprezzare. E mettiamoci pure dentro il “padre nobile” Norberto Bobbio, in quanto filosofo chiave, credo, di tutte queste correnti, comunque decisamente più liberali che socialiste (forse il solo Lussu, o quasi, ne fu eccezione).
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2. Tuttavia, il dopoguerra – e soprattutto il dopo boom – è stato ingrato per i movimenti antifascisti. Lo stesso comunismo ha iniziato una “brutta” parabola già con Togliatti dopo la svolta di Salerno (1944), certamente rafforzata in modo irreversibile nel 1956 con l’intervista a Nuovi Argomenti. Non rinnego le critiche rivolte allora, pur giovane e inesperto, al “revisionismo” togliattiano e le fosche previsioni formulate, pur se oggi le rivedrei alla luce di una storia impietosa con il “comunismo” (che non lo era affatto, in nessuna delle versioni in lotta accanita fra loro). Contrastavo, e non lo rimpiango, il “revisionismo” (che era invece qualcosa di diverso, ma in ogni caso di negativo); posso però adesso (già da anni in verità) rivelare con sincerità che avevo maggiore stima personale nei confronti dei cosiddetti “amendoliani” (cui apparteneva il mio Maestro), mentre diffidavo e mi disgustavano i pasticcioni, e peggio, dell’altra corrente: in particolare, i “manifestaioli” (costola di tale corrente). Sul ’68 avevo esattamente la stessa opinione di Pasolini (non condividevo soltanto l’esaltazione dei poliziotti in quanto gente del popolo); per ragioni puramente tattiche, mascheravo il disprezzo per questi nanerottoli arroganti, presuntuosi e anche ignoranti poiché di Marx conoscevano al più i Grundrisse (il “frammento sulle macchine”). Quanto a Lenin, credevano fosse “un ganzo”, uno che li “aveva fregati tutti” per pura doppiezza e cinismo, che era invece la loro cifra caratteristica1 (lo ribadisco: erano I Demoni di Dostoevskij; questa la loro natura ributtante).
Tuttavia, vorrei essere chiaro: il comunismo, come spesso accade nella storia, ha dato vita ad un movimento che non ha condotto in quella direzione, ma che comunque ha cambiato in profondità il mondo. L’Urss non era la “patria del socialismo”, il suo centro irradiatore; e tuttavia oggi sempre meglio si vedono i reali risultati conseguiti da quel paese, che agì da grande potenza e i cui gruppi al potere erano gruppi dominanti in conflitto: fra loro (con lotte intestine particolarmente cruente, oscure, e senz’altro “scoraggianti”) e contro quelli dei paesi del capitalismo “occidentale”, i funzionari del capitale, i dominanti di stretta osservanza statunitense. Tuttavia, questo movimento ha creato qualcosa di nuovo, ancora non ben analizzato poiché si è sempre oscillato tra l’ostinazione a volerlo considerare orientato alla costruzione di un certa forma di socialismo (magari di mercato, questa vera degenerazione del pensiero
1 Ricordo bene una manifestazione studentesca a Pisa, davanti alla Questura, in cui il “piccolo Lenin” (così l’ho sentito chiamare con involontaria comicità) di “Lotta Continua” svillaneggiò, spalleggiato da quei giovani energumeni privi di qualsiasi materia cerebrale, il mio Maestro, Antonio Pesenti; uno che si era fatto 8 anni di galera fascista, aveva lì contratto la malattia che poi lo portò all’angina pectoris e alla prematura morte d’infarto. Non si tratta di fare retorica, ma di ristabilire le giuste misure: un giovane, che ha dimostrato in seguito di quale (cattiva) pasta era fatto, non avrebbe mai dovuto permettersi di insultare chi comunque ha pagato nella lotta uno scotto di quella fatta. Vergogna quindi per questi studentelli, il cui movimento verrà storicamente ricordato per quello che era: una miseria morale e intellettuale, da non paragonare minimamente alla lotta clandestina degli anni ’30, al confino e alla galera, alla Resistenza, ecc. Ho dovuto ingoiare il rospo all’epoca, perché credevo fosse necessario farlo in chiave antirevisionista; se oggi quei vecchi sessantottini, veri reduci di ingloriose sconfitte, mi ripropongono una qualche Onda, questa volta rifiuto senza esitazioni e con coscienza tranquilla. So bene quello che sono, e da 40 anni!
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fu marxista) oppure alla riproposizione di una specie di satrapia orientale o di una nuova versione dello zarismo; e altre sciocchezze varie.
Si tratta invece di una formazione con decise caratteristiche (in specie nella sfera economico-finanziaria) di tipologia capitalistica, e tuttavia con determinanti sociopolitiche differenziate che la renderanno comunque protagonista della nuova epoca o fase storica che si sta sempre più “aprendo”. Il contrasto tra essa e quella dei funzionari del capitale sarà decisiva per il carattere e gli sbocchi della lotta (tra dominanti) in tale nuova fase. Di conseguenza, se qualcuno – non gli sclerotici oggi in campo nei gruppetti che si pretendono anticapitalisti – vorrà interessarsi alla futura lotta dei dominati, dovrà fare, e a lungo, i conti con questa nuova realtà.
La stessa forza storica che ha avuto questa corrente – per un secolo considerata (erroneamente) comunista – non ha avuto, né poteva avere a mio avviso, quella liberalsocialista o del socialismo liberale. Nessuno vuol negare la “nobiltà” della figura, tanto per fare un esempio, del già citato Carlo Rosselli. Il suo pensiero e azione però, mi si scusi, sono vera “acqua fresca” di fronte a quelli di un Lenin o Mao. La pretesa di perseguire il socialismo staccandolo dal marxismo è come la vecchia credenza di poter volare sbattendo le ali; si cascava sempre giù e la morte attendeva puntuale il malcapitato. Ricordo la risposta di Mao a Bertrand Russell, dopo averlo ascoltato molto a lungo (mi sembra un paio d’ore) mentre esponeva le sue idee liberali (in fondo pur sempre di giustizia e di libertà): lei sta parlando di cose bellissime, poetiche, quale uomo al mondo potrebbe dirsi ad esse contrario, solo che non si riferiscono a questo mondo.
Un liberale e socialista sarà laico, magari ateo, crederà forse nel progresso (anche scientifico), certamente sarà scandalizzato a sentire il Papa che tuona contro i preservativi; tuttavia quando parla dei suoi ideali di giustizia e libertà è esattamente come il capo della Chiesa quando invita gli uomini a deporre le armi, ad essere tutti fratelli, senza più violenza fra loro (“perché la violenza chiama violenza”; questo luogo comune banale, che non significa un bel nulla!), a non peccare, ad essere generosi con i propri simili, e altre tiritere insignificanti, che un capo religioso deve forse dire – esattamente come un capo di diplomazia deve pronunciare una serie di frasi di circostanza – ma che tutti sanno bene essere di prammatica e che si possono, dunque, dimenticare appena pronunciate. Volete mettere un liberale della stoffa di Adam Smith? Non ci si deve aspettare la buona carne dalla benevolenza del macellaio, bensì dal suo egoistico interesse. Una ventata d’aria fresca, ossigeno per irrobustire il cervello affinché si metta veramente a pensare (perché, mi dispiace, ma a volte è verissima la frase: la religione è l’oppio dei popoli; non è soltanto questo, ma in certi casi lo è). Grande Smith: un vero liberale non socialista, quindi non meschino, non pieno di buone intenzioni ipocrite o fasulle e irreali. Lenin e Mao, in quanto comunisti, erano altrettanto realistici, non meschini né ipocriti; ecco perché hanno creato il nuovo nella realtà, pur se non è stato il comunismo.
Voler essere liberali e anche socialisti, per quanto i primi a predicarlo siano state persone “nobili”, significa preparare i propri seguaci all’ipocrisia, all’inganno, all’essere puri figli di puttana. Se poi rifiuti l’analisi strutturale del marxismo – per-
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ché questo è il marxismo, non quello dei chiesastici e fedeli, che si trovano ancora in qualche degenerato sito internet e ad occupare qualche buona cattedra universitaria – non puoi che finire a predicare come i capi religiosi, a esporre le “meravigliose idee”, fuori di questo mondo, che Russell riferì a Mao1.
3. In questo senso, quello che ho definito antifascismo azionista – erede dei socialisti liberali, forse più ancora che dei liberalsocialisti – è stato il terreno fertile per le più gravi involuzioni della storia della Repubblica italiana sfociate in “mani pulite” e su cui ho già detto più volte ciò che penso. Questo antifascismo sta compiendo adesso un ulteriore salto di qualità, facendosi apertamente complottista ed eversore. Mentre però le prime tentate eversioni vivevano di drammi: Piazza Fontana, Piazza della Loggia, i vari treni e la Stazione di Bologna, ecc.; qui siamo alla farsa, al pecoreccio, alle luci rosse. Non cambia la questione; è cambiata solo la popolazione italiana di sinistra, assai meno svezzata di quella di allora, conquistata all’ antipolitica, alle scelte su questioni decisive per antipatia o simpatia verso questo o quello. La “gente” – con l’avanguardia del “ceto medio improduttivo” di sinistra – è degenerata in senso infantile; il dramma si trasforma allora in farsa.
I vecchioni del laicismo azionista, dell’antico socialismo liberale, sono divenuti laidi, disgustosi, pieni di livore, venduti allo straniero perché pagati da quei gruppi finanziario-industriali, che lo sono essi stessi in quanto attivi in settori delle passate epoche, oggi soltanto operanti negli spazi loro lasciati dai paesi in rapida avanzata nelle branche innovative. Come detto spesso, la Fiat è l’autentico esemplare di tali settori di una vecchia fase dell’industrializzazione, un’impresa del resto sempre al servizio dello straniero, traditrice degli interessi del paese per lunghissima consuetudine; e oggi testa di ponte degli Usa in Italia e nella UE, abbastanza pericolosa se lasciata agire indisturbata in questa Europa di servi. Tuttavia, l’ azionismo – in quanto degenerazione del debole e utopistico socialismo liberale, passato da un idealismo astratto al venale servizio verso i potenti – è divenuto il fomentatore di politiche antinazionali e di completo “collateralismo” (leggi piena subordinazione) nei confronti degli Usa; in ciò trovando la piena collaborazione di quegli altri laici perversi che sono i radicali. Non vi è dubbio che tale antifascismo ha riassorbito in pieno quello un tempo comunista, dopo la svolta vile e degradante compiuta da quest’ultimo in seguito agli avvenimenti del 1989-91 (del resto imitando personaggi squallidi quali i Gorbaciov e gli Eltsin in Urss e poi Russia).
Dall’ex comunismo (piciismo), risucchiato dall’antifascismo dei fu liberali socialisti e dei settori radicali, è nata quella melma mefitica autodefinitasi sinistra. E poiché sono stati proprio i settori “di sinistra” di tale piciismo, assieme alla deriva del ’68 e
1 Ecco perché certe brigate partigiane (anche la Osoppo ad esempio) furono laico-socialiste e cattoliche insieme. Ammessa la buona fede e le ottime intenzioni (e non va ammessa sempre!), tutti gli utopisti si trovano insieme. Solo che certe utopie indeboliscono anche la lotta; e i fatti di Porzus non furono semplicemente dovuti alla “cattiveria” dei comunisti (realisti e lottatori decisi). Così come non lo furono certe lezioni impartite da questi ultimi nella guerra civile spagnola, checché ne pensi Ken Loach, le cui tesi, esposte in Terra e libertà, non mi hanno per nulla convinto.
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’77 (vera devastazione e marciume del nostro paese), a vendersi per primi agli Usa e alla finanza-(conf)industria italiana fellona e filo-straniera, ne è derivato pure il progressivo deterioramento e degenerazione delle frange che si erano opposte all’abbandono della tradizione piciista; ma solo per problemi identitari e di religioso attaccamento al passato, che è sempre il prodromo del cedimento improvviso e del passaggio di campo. Ormai gli sclerotici avanzi della fedeltà al vecchio comunismo (che tale non era) si trincerano dietro l’adesione al conflitto capitale/lavoro, dietro le roboanti dichiarazioni contro tutti i dominanti (imperialistici), per appoggiare di fatto in ogni dove (ultimi esempi, ma solo gli ultimi di una lunga serie, l’Iran o gli uighuri in Cina) le mene imperiali statunitensi; non imperialistiche, questa pura scusa per meglio tradire, bensì imperiali in quanto tentata riproposizione del monocentrismo statunitense, mentre l’imperialismo (policentrismo preceduto da una fase multipolare) ha, in prima istanza, l’effetto di rompere il dominio del mondo da un unico centro. E’ precisamente al progetto di questo dominio che si sono venduti i banditi falso-comunisti odierni, al seguito di una bastarda sinistra ormai tutta di tipologia antifascista azionista.
Per comprendere a fondo i processi che hanno condotto a questo “bel” risultato, sarebbe necessario un accurato e ponderoso lavoro storico dal 1945 ad oggi (e anche sulle radici di tali processi negli anni ’30). Non posso evidentemente farlo, né qui né altrove; occorre l’opera di un autentico storico, munito però di nuove categorie interpretative, non di quelle oggi influenzate dagli inganni e deformazioni dell’antifascismo in oggetto. Mi limito ad alcune riflessioni. Innanzitutto, c’è da lamentare lo svarione commesso purtroppo proprio dai comunisti (quelli in fondo seri e sinceramente convinti di essere tali) in merito al nazifascismo, incompreso quale processo realmente rivoluzionario, per quanto non anticapitalista. Fu però l’alternativa, perdente, nella lotta tendente alla sostituzione dell’ormai esaurito capitalismo borghese: quello iniziato in Inghilterra e a lungo (gran parte dell’ 800) da questa dominato anche negli altri paesi interessati dalla rivoluzione industriale. Nella sostituzione di tale capitalismo (quello analizzato da Marx) vinse alla fine il capitalismo, dei funzionari del capitale, affermatosi negli Usa e divenuto il nuovo dominatore centrale nel campo capitalistico dopo il 1945.
Tuttavia, il nazifascismo non era l’ultima resistenza di un capitalismo antiquato di stampo agrario (in Italia) e finanziario sia in Italia che in Germania, dove invece il nazismo lo sconfisse, ri(con)ducendolo al servizio dell’industria. Il capitalismo antiquato resisteva semmai in Inghilterra, che senza l’intervento americano sarebbe stata alla fine battuta (c’è da spiegare il presunto “errore” dell’attacco tedesco all’Urss, poco comprensibile se non con nuove ipotesi e ricerche storiche). Comunque, interessante è constatare in questa sede il peso che ebbe un marxismo ossificato nell’interpretazione del nazifascismo come fenomeno reazionario. Era il marxismo di Hilferding, purtroppo accettato da Lenin su questo punto, che vedeva la presunta ultima fase del capitalismo dominata dai rentier, quindi da una finanza parassitaria. Lenin corresse parzialmente l’errore, parlando di capitale finanziario quale simbiosi tra industria e banca, ma pur sempre con prevalenza della seconda.
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In realtà, il capitale finanziario è parassitario a seconda delle congiunture; non in mero riferimento ad una formazione capitalistica in generale, bensì all’articolazione tra più formazioni particolari con alcune (o una) predominanti rispetto alle altre. Allora – proprio come succede in Italia in questo periodo storico – la finanza diventa “parassitaria” in quanto succube della politica di una formazione preminente indirizzata a favorire un determinato sviluppo internazionale secondo, grosso modo certo (mai i fenomeni sociali sono puri e ben distinti fra loro), il seguente schema: impulso prevalente da imprimere ai settori della nuova ondata innovativa nel paese egemone, mentre nelle formazioni particolari subordinate (guidate dai subdominanti) sono finanziati soprattutto i settori delle passate ondate innovative, che non solo, essendo maturi, sono meno produttivi, ma soprattutto attribuiscono meno potenza a quelle date formazioni, rendendole perciò viepiù subordinate (o subdominanti) nel consesso internazionale.
Ciò che storicamente andrebbe spiegato è come mai i nazisti, che pure abbatterono la Repubblica di Weimar dominata chiaramente da una finanza subordinata a dati gruppi statunitensi’, trattarono di fatto l’Inghilterra come principale nemico e forse trascurarono un po’ troppo – cosa che non fecero i giapponesi, ma questo aprirebbe ulteriori capitoli – gli Stati Uniti2. In ogni caso, il nazismo si poneva come successore del vecchio capitalismo borghese (le correnti culturali nazifasciste furono eminentemente antiborghesi; per questo di lì, nel dopoguerra, uscirono molti comunisti o almeno piciisti). Riferendosi all’esperienza italiana, pensare al fascismo come reazione del capitalismo agrario3 e finanziario è stato, a mio avviso, un errore. Significava non capire poi bene l’uso che venne fatto dello Stato e dell’industria statalizzata (certo non volontariamente, ma a causa della crisi e dei fallimenti).
Tutti (i gruppi dominanti) pensavano (e pensano) allo Stato. La grande industria se ne interessa soprattutto come “cannella” cui abbeverarsi e avere un buon input a fini “privati”; nel mero senso di quelli perseguiti da singoli gruppi imprenditoriali, effet-
‘ Franz Neumann, nel suo Behemoth, rileva, direi con sorpresa, che dal punto di vista teorico certi studiosi nazisti ripresero in pieno le tesi del Capitale finanziario di Hilferding, nel frattempo divenuto un sostenitore di quella Repubblica dominata dalla finanza (la solita fine di ogni socialdemocratico, non se ne salva mai nemmeno uno!). Sorpresa oggi superata comprendendo che la finanza, subordinata alla politica della formazione predominante, corrisponde al “parassitismo” illustrato dal vecchio marxismo.
2 Nella Sesta parte del mondo, documentario sovietico del grande Dziga Vertov, i due paesi messi sempre a confronto – come capitalismo e socialismo – sono Usa e Urss. Potenza intuitiva dell’arte e anche acuta consapevolezza strategica del gruppo dirigente sovietico (Stalin in testa, piaccia o meno a certuni).
3 Nessuno nega che il capitalismo agrario, ma soprattutto quello padano, il più avanzato capitalisticamente, abbia finanziato il fascismo. Tuttavia, ben misera è un’interpretazione che lega la politica di una forza decisamente nuova – uscita dal socialismo più radicale (e dagli anarco-sindacalisti), con tutte le ascendenze soreliane e altre, ecc. – ai presunti suoi principali finanziatori. Ovviamente, non poteva essere il grande capitale industriale tipo Fiat – sempre alla ricerca dei sussidi pubblici e quindi impantanato nell’appoggio ad una specie di “centro-sinistra” ante litteram – a finanziare massicciamente un movimento assai più radicale e che, come vedremo subito, usò dello Stato in “altro modo”.
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tivamente interessati più che altro ai profitti, secondo l’interpretazione canonica del capitalismo, non solo di parte marxista, ma della “scienza” economica in genere. Il liberismo – che non sempre è coerente con i suoi assunti, ma si tratta di un’altra questione – è la corrente meno interessata a mungere lo Stato, poiché è convinta della “libera competizione” tra “privati” (imprenditori); lasciamo pur perdere quanto di imbroglio e menzogna ideologica vi sia dietro questa tesi. Il keynesismo non è affatto il contraltare del liberismo, se non in aspetti del tutto superficiali, enfatizzati solo dall’ideologia economicistica. Ci si concentra in ogni caso sui problemi della domanda (aggregata e costituita dalla somma di consumi e investimenti). Lo Stato ha una funzione accessoria e deve sostenere una struttura imprenditoriale privata, cioè di singoli gruppi – che oggi non sono più i borghesi ma i funzionari del capitale – interessati a realizzare fini particolari, “individuali”, spesso in contrasto con gli interessi più generali di quella data formazione particolare in cui si muovono, formazione che deve curare la potenza complessiva e le sue sfere di influenza. Di conseguenza, quando in certi momenti si arriva alla “resa dei conti” (la guerra, ma non solo), una parte di questi gruppi “individuali” sono quanto meno messi sotto tutela o anche sbaraccati (a meno che non servano a tenere allacciati quei fili tra formazioni particolari mai tranciati nemmeno nelle più violente contese fra di loro; si vedano i rapporti tra imprese tedesche o italiane con quelle “nemiche” durante la seconda guerra mondiale).
4. Lo Stato – questo campo di battaglia tra gruppi dominanti, in cui il conflitto precipita nella formazione di apparati aventi la funzione del mantenimento di una sufficiente compattezza ed unitarietà dell’insieme (percorso sempre dalla lotta, trasferita però nei suoi aspetti espliciti, per finalità antidisgregative, in altri apparati tipo partiti, lobbies, gruppi di pressione ecc.) – non ha sempre, nemmeno nei suoi interventi in campo economico, la semplice funzione di incrementare la domanda onde favorire i gruppi dominanti “privati”. In dati casi, i più decisivi fra i gruppi dominanti, sempre quelli delle strategie, abbandonano l’apparenza della primarietà di queste ultime nella sfera economica attribuendo piena rilevanza alla strategia politica tout court, mirante ad accrescere la potenza dispiegata per allargare le aree di influenza in senso mondiale. Questa politica ha ricadute importantissime anche sull’economia, ma non si trincera dietro l’ideologia del mercato e della domanda (spesso addirittura privilegiando quella di consumo, come avviene in tutte le formazioni dei subdominanti; esemplare l’Italia attuale).
Le due grandi ideologie, che hanno orientato più direttamente lo Stato verso l’esplicazione della sua azione per finalità relative alla formazione particolare nel suo complesso, sono state quelle della potenza della Nazione, magari con il corollario dell’affermazione di una razza superiore, ecc. ecc.; e quella della Rivoluzione proletaria, della classe operaia al potere, di cui difendere il primo avamposto (l’Urss) per poi progressivamente espandersi nel mondo in congiunture appropriate (seconda guerra mondiale, processo di decolonizzazione, lotte di liberazione nazionale, ecc.). Quindi, appunto, nazifascismo (in specie nazismo, assai più potente) e comunismo, di più lunga durata. Due rivoluzioni, ma diverse; una tesa a sostituire il capitalismo bor-
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ghese morente ed entrata quindi in collisione con la soluzione, infine vincente, dei funzionari del capitale (che, lo ricordo, hanno una concezione dello Stato come “servitore” di gruppi individuali, “privati”, salvo che in periodo di guerra); l’altra tesa a sostituire il capitalismo tout court innescando la supposta transizione alla nuova formazione sociale del futuro, quella che doveva, secondo le parole di Marx, mettere termine alla “preistoria dell’umanità”.
Tutte le ideologie del capitalismo vincente di tipologia americana, e quindi non solo il liberismo ma anche il keynesismo, strepitano sempre mettendo sullo stesso piano nazifascismo e comunismo. Tali ideologie del capitalismo “democratico”, solo apparentemente antitetiche, si trovano sulla stessa lunghezza d’onda nel senso che lo Stato è semplicemente sussidiario – sempre esclusa l’eccezionalità della resa dei conti – ai gruppi dominanti “privati”, in quanto addetto al sostegno della domanda; è su questo tema che si dividono, e si combattono l’un l’altro, liberismo e keynesismo, quasi fossero realmente alternativi, mentre sono entrambi pienamente liberali. Nazifascismo e comunismo – quello reale, quello che indubbiamente perse di vista l’originario progetto, legato in Marx a previsioni circa le dinamiche interne del capitalismo (solo quello inglese), rivelatesi errate (tutti temi che ho spiegato mille volte dal 1996 in poi) – ponevano subito e direttamente in primo piano lo Stato per conseguire finalità complessive di quella certa formazione particolare (nell’insieme di quella mondiale), obiettivi che poi avevano senza dubbio ricadute nella sfera economica, considerata uno strumento (soltanto strumento) rilevante per lo svolgimento delle funzioni strategiche.
Nazifascismo e comunismo (sia pure quello non in senso proprio) miravano comunque a scopi del tutto diversi, ma anche assai differenti tra loro; e si sono pure serviti di mezzi differenti, checché ne dicano i volgari anticomunisti odierni, cioè in pratica tutto il ceto intellettuale (gli ideologi) del capitalismo “occidentale” (americano). Non sto nemmeno a perdere tempo nell’illustrare simili differenze perché non sono essenziali al prosieguo del mio discorso. Non mi esimo invece, perché questo, sì, ha una sua utilità, dal vergare qualche parola su alcune critiche, di una superficialità sorprendente, che ogni tanto mi piovono sul capo. Io sarei contro il Welfare. Significa veramente non capire nulla di nulla, non avere la benché minima predisposizione all’approfondimento tematico; solo la difesa a testa bassa dei “poveri e diseredati” (vederli nei nostri paesi occidentali è la ripresa delle sciocchezze del vecchio Servire il popolo; e la fine che hanno fatto i suoi adepti è ormai ben nota).
La prendo alla lontana. Se fossi vissuto all’epoca del luddismo, sono certo che avrei appoggiato o comunque simpatizzato con quel movimento. Tuttavia, avrei affermato con chiarezza che sarebbe stato battuto, poiché si trattava di una battaglia di retroguardia mentre era necessario sforzarsi di interpretare la nuova epoca in avanzata: appena agli inizi e quindi tanto difficile da comprendere quanto lo è l’epoca che si sta aprendo adesso davanti a noi. Bisogna essere consapevoli di queste difficoltà, sa-
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pere che, se non si è guardinghi, ci si lancia in profezie1. Pur non potendo predire quanto sarebbe poi accaduto nel corso del XIX secolo, mi sembra indubitabile che già nei primissimi decenni si poteva comprendere come il macchinismo industriale fosse sicuro vincitore; conquistando, alla lunga, il favore della stragrande maggioranza delle popolazioni.
Nessuno di noi, oggi, si mette a predicare che va smantellato il Welfare, così come nessuno consiglia ai lavoratori salariati (a quelli del conflitto capitale/lavoro) di fermare le loro lotte tese a difendere retribuzioni e tenore di vita, condizioni e posti di lavoro, protestando inoltre contro la precarietà e la diffusione del lavoro a tempo determinato. Il problema centrale dell’epoca non è però questo. Si tratta di capire se queste lotte avranno lo sbocco che sperano i ritardatari del comunismo (o simili, in genere solo surrogati peggiorativi di quest’ultimo) o se invece si tratterà semplicemente di (giustificate) battaglie difensive, e tuttavia di retroguardia in un mondo che cambia e che travolgerà chi crederà di essere ancora nel vecchio oppure sta “tanto avanti” da sproloquiare in profezie per i prossimi secoli e millenni. Il Welfare è stato non tanto strappato dalla “lotta operaia” (altra ideologia consolatrice), quanto concesso – sia pure tramite le solite pantomime del “tira e molla” che accompagnano ogni contrapposizione e contrattazione – dal “capitale” in una specifica congiuntura storica, in quanto anche mirante a smussare il conflitto sociale (non rivoluzionario bensì tradunionistico, cioè sindacale), e ancor più come politica della domanda quale supposta panacea per garantire sviluppo illimitato al capitalismo.
Come la crisi del ’29 non fu risolta dal New Deal roosveltiano bensì dalla seconda guerra mondiale – e non perché così si incrementò la domanda via spesa pubblica militare, ma perché si uscì dallo scontro con un centro predominante nel campo capitalistico – così pure la spesa pubblica dedicata al Welfare non ha mai rappresentato la misura risolutrice delle crisi, divenute mere recessioni, e con un trend d’aumento del benessere delle popolazioni nei paesi capitalistici “occidentali” (funzionari del capitale). Il merito fu appunto della fase monocentrica, con l’inizio fin quasi da subito – se non altro con l’aerospaziale e anche l’energia atomica – dell’avanzata del paese centrale in settori innovativi (poi seguiti da quelli della “terza rivoluzione industriale”) mentre, tendenzialmente, le formazioni subdominanti (guarda caso, proprio quelle del migliore Welfare) davano la preferenza ai settori maturi della precedente rivoluzione industriale. Questa fu la complementarietà dello sviluppo dei vari paesi (e del tanto decantato libero commercio mondiale, presentato ideologicamente quale causa decisiva di benessere per tutti), assai simile a quello della prima metà ottocento con predominanza inglese.
1 Non escludo minimamente, in certe occasioni, anche un tono un po’ retorico e profetico; dipende da quello che si sta scrivendo e in quali contingenze e momenti. Non si deve sempre impedire all’indignazione di traboccare pur essendo pienamente consapevoli che essa non cambia i processi storici. Non si può essere sempre oggettivi e freddi e lucidi; che uomini si sarebbe? Tuttavia, deve poi subentrare questa lucidità e comportare il giudizio incerto e problematico sulle previsioni; non però sempre su alcune direttrici di fondo ormai abbastanza ben individuabili. Come vedete, il comportamento di chi pensa ed elabora non ha da essere univoco e monocorde.
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Arriva però il momento in cui la centralità di un paese decade, e la complementarietà dei reciproci sviluppi pure. Credo che siamo all’inizio di un’epoca per certi versi simile a quella degli ultimi decenni dell’ 800, di poca crescita (economica) e crisi frequenti; in definitiva, di tendenziale stagnazione, pur magari con qualche picco e qualche sprofondamento. Un’epoca, tuttavia, di grande “sviluppo”, inteso quale trasformazione dei rapporti sociali: ma, ancora una volta, non semplicemente e non prioritariamente quelli interni alle formazioni particolari, bensì soprattutto quelli intercorrenti tra queste ultime. Le trasformazioni interne risentiranno notevolmente di quelle esterne; la politica internazionale avrà, per un certo periodo di tempo, la prevalenza su quella interna. I rapporti tra quelle formazioni che diverranno potenze (per il ben noto sviluppo ineguale dei capitalismi) saranno aspramente conflittuali. Quindi, in una situazione di non alta crescita quantitativa, accompagnata dalla lotta in questione, il tenore di vita di porzioni non irrilevanti della popolazione mondiale, un tenore di vita mediamente stagnante (con crescita delle differenze in verticale tra i vari strati sociali), dipenderà dal successo o meno di questa o quella formazione nella sua lotta in ambito globale.
Le risorse, di poco in crescita, saranno dirottate più che proporzionalmente verso il conflitto, senza il quale quella formazione decadrà con tanti saluti al Welfare e a tante altre comodità. In ogni caso, tale Welfare è destinato a deteriorarsi; non perché lo vuole il povero La Grassa, ma la logica dei processi. E anche le altre lotte sociali diverranno dure; salvo forse quelle per posti di lavoro in certe industrie e servizi, e per certe fasce salariali, se ci si dovesse approssimare alla “resa dei conti”. Ci si metta in testa che questa è la realtà; non la voglio io, non ho alcuna responsabilità se non quella di usare il cervello per cercare di afferrare le tendenze fondamentali dell’epoca multipolare in fase di avvio.
5. Torniamo allo Stato, in quanto campo di battaglia disseminato di apparati – dediti all’esercizio di specifiche funzioni tramite l’apparente neutralità di date prestazioni amministrative – che si cerca sempre di salvaguardare nella loro solo apparente, ma reale, unitarietà e compattezza. Sia chiaro però – problema non capito da certi filosofi puramente idealisti (non in senso “tecnico”, ma solo perché hanno la testa fra le nuvole e non capiscono nulla del mondo reale in cui viviamo) – che la compattezza dello Stato è assicurata in modo del tutto specifico dall’esistenza dei “distaccamenti speciali di uomini in armi” e, in parte, dall’apparato giudiziario. Uno Stato senza questi corpi speciali è solo una larva di Stato1, un fantasma ideologico dei dominanti, che nascondono il funzionamento del loro principale mezzo di dominio.
1 Giustamente, quando si parla di concedere ai palestinesi un loro Stato purché sia “smilitarizzato”, è stato fatto notare, da chi non è un semplice imbroglione al servizio dei dominanti (colonizzatori), che questo non è uno Stato ma un semplice Protettorato israeliano, assegnato ai collaborazionisti sempre esistenti in qualsivoglia paese e popolazione. Lo Stato è Stato solo quando alla mera, e banale, amministrazione si accompagna la forza coercitiva. Si comprende perciò anche l’inganno perpetrato da quegli ideologi contraffattori delle tesi gramsciane sull’egemonia, che per il sardo non
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Tuttavia, nel capitalismo borghese, lo Stato era rappresentato di volta in volta dalle forze politiche che avevano in mano il Governo, il quale corrispondeva, approssimativamente, a quel “comitato d’affari della borghesia” di cui parlò Marx. Nella formazione dei funzionari del capitale, ben lungi dall’essere semplicemente l’apparato politico del capitale monopolistico – quest’ultimo pensato come tendente alla centralizzazione “ultraimperialistica” di kautskiana memoria o comunque sempre costituito da pochi oligopoli, dalle “multinazionali”, ossessione di infantili movimenti oggi sostanzialmente degenerati in senso filo-dominanti – lo Stato si struttura differentemente nelle diverse formazioni particolari che compongono la formazione mondiale di tale nuova configurazione del capitalismo (di tipologia americana), a seconda appunto che si tratti di quella predominante o delle altre subdominanti, ecc. In ogni caso, l’intreccio tra agenti strategici della sfera politica e quelli della sfera economica – intreccio in cui non è deciso in via generale e permanente qual è il gruppo che ha maggiore forza – comporta, sia che si seguano i principi liberisti o quelli implicanti l’accrescimento della spesa pubblica, l’ enfatizzazione delle funzioni tese a imprimere impulso agli interessi “privati”, “individuali”, di dati gruppi dominanti.
Ancora una volta, non si interpreti questa privatezza, questa “individualità”, pensando alle sole entità agenti nella sfera economico-finanziaria, quelle imprenditoriali. I gruppi sono compositi, intrecciati; certi imprenditori (proprietari o solo manager) sono “creati” mediante l’appoggio di date correnti politiche, altre volte sono gli imprenditori a dare vita e/o ad alimentare tali correnti, quelle a loro più propizie. Mai dare interpretazioni univoche e semplicistiche. Tuttavia, vi è una costante generale: lo Stato (il campo strutturato in apparati, protetto dalla corazza coercitiva) appare fondamentalmente sussidiario alla forza di questi compositi gruppi “privati”, “individuali”. A volte, è costretto ad estenuanti mediazioni, che spesso corrompono il tessuto sociale, comportando pericoli disgregativi (un buon esempio è l’Italia attuale); a volte può tessere una politica più unitaria, cioè relativamente più favorevole ad uno dei gruppi dominanti, con maggior stabilità istituzionale in quella data formazione particolare. E’ ovvio che ognuno di tali gruppi dominanti – intrecciati tra politica ed economia; e ovviamente anche cultura, che non penso però abbia mai la posizione preminente dato il carattere ideologico di ogni corrente culturale (e l’ideologia, lo ripetiamo, funziona se rafforzata dalla coercizione, in atto o sullo sfondo) – tende a dotarsi di canali per far scorrere, nel campo di battaglia che è lo Stato con i suoi apparati, il suo flusso teso a prevalere sugli altri: questo il succo della “democrazia” elettoralistica nella formazione dei funzionari del capitale. Per semplicità, indichiamo tale tipo di Stato come n. 1.
Diverso è però il caso di un capitalismo – o quanto meno di una formazione sociale in cui le forme economiche rinviano in definitiva al mercato e all’impresa – in cui il campo dello Stato (marchiamolo con il n. 2) viene occupato stabilmente e con metodi “pressanti” da un gruppo dominante (mai sempre e stabilmente coeso, ma co-
poteva non essere corazzata di coercizione. Questo è lo Stato alla faccia di tutti i pasticcioni e confusionari pieni di buone intenzioni e di ben scarsa intelligenza del reale.
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munque unito da una forte comune ideologia e finalità). Tale occupazione può dipendere da uno stato d’eccezione, che tuttavia preferirei chiamare stato di necessità nel caso sia prevista la sua provvisorietà. Tuttavia, spesso si tratta di una trasformazione assai meno transitoria e legata a nuove necessità di confronto e scontro tra formazioni particolari sul piano globale, con l’avvio ad una nuova fase multipolare accompagnata dai tipici fenomeni dello sviluppo ineguale in accentuazione man mano che si entra nel vero periodo del pieno conflitto policentrico; lo sviluppo ineguale non è, come lo interpreta l’economicismo (ideologia non del solo marxismo, ma anche delle correnti dominanti), la constatazione di differenti tassi di crescita economica, poiché comporta invece decisive differenziazioni “strutturali” dei rapporti sociali nelle diverse formazioni particolari.
Ad esempio, la mia idea circa i risultati ultimi della Rivoluzione d’Ottobre, pur scatenata per finalità “comunistiche” d’ultima istanza, è esattamente quella della nascita di nuove formazioni sociali. Anche l’epoca di “grande trasformazione”, che si sta ora aprendo, comporterà la transizione ad altra “struttura” sociale in generale, quella che sarà caratteristica della(e) formazione(i) particolare(i) vincitrice(i) alla fine del confronto policentrico1. Lasciamo comunque adesso perdere tale questione. L’importante è capire che lo Stato, in tale sua forma, non ha semplici funzioni di sussidiarietà, dal lato della domanda, dei vari gruppi “privati”, “individuali”, di cui già detto; una sussidiarietà, sia chiaro, che mai si priva dell’uso degli apparati della coercizione e dello scontro internazionale (bellico in senso ampio), favorendo tuttavia il predominio di dati gruppi di agenti strategici in modo indiretto, tramite la funzione di apparente (eppure reale) opera di mediazione nello scontro tra questi ultimi.
Lo Stato n. 2, molto più direttamente, diventa espressione di un gruppo dominante – sempre intreccio di politica ed economia, dove quest’ultima è però ridotta scopertamente a strumento senza il pesante mascheramento ideologico (la “democrazia”) della società dei funzionari del capitale – nella sua unitarietà di indirizzo politico: sia per quanto concerne l’azione all’interno di quella data formazione particolare sia nella sua funzione di potenza all’esterno. Il gruppo dominante – se nell’epoca di transizione al policentrismo funziona da motore dello sviluppo ineguale nel senso del rafforzamento del suo paese nei confronti di quelli della più vecchia formazione capitalistica – può contare sul consenso di un blocco sociale maggioritario nella popolazione.
1 Gli ideologi dei funzionari del capitale continuano ad illudersi che prima o poi formazioni sociali come Russia o Cina dovranno “esplodere” e riavvicinarsi alle loro forme “democratiche”. Si illudono pure circa la preminenza in Asia, che verrebbe infine assunta dall’India, ancora invischiata, almeno per il momento, in uno sviluppo considerato simile a quello della formazione dei funzionari del capitale. Mi permetto di predire che si sbaglieranno; le nuove formazioni sociali sono quelle in gestazione nelle nuove potenze in crescita (ma proprio Russia e Cina, pur con differenze tra loro). Chiunque uscirà vincente dalla nuova epoca di grande trasformazione, perfino si trattasse ancora degli Usa, non sarà più caratterizzato dalla forma capitalistica oggi in auge; essa tramonterà così come tramontò il capitalismo borghese (a dominanza inglese) nella precedente grande trasformazione (grande stagnazione, e forte sviluppo/mutamento “strutturale”, negli ultimi decenni del XIX secolo e, in definitiva, fino alla prima guerra mondiale).
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Le note teoriche degli ultimi paragrafi non sono certo esaurienti, ma danno un’idea della complessità di tali problemi, per risolvere i quali occorrerà pure una minuziosa opera da parte degli storici; non più però guidati dalle tesi che hanno influenzato sinora tali studiosi nella formazione dei funzionari del capitale. Occorrono nuove tesi orientative. Torniamo adesso all’Italia.
6. Negli anni ’30, causa la crisi mondiale, il fascismo si trovò a dirigere una quota consistente degli organismi imprenditoriali bancari e industriali (l’IRI) con un’operazione che il gretto ideologismo degli economi(ci)sti (sia marxisti che dominanti) riduce alla sola “socializzazione delle perdite”. Ad un anno dalla fondazione di quell’istituto, com’è noto, Beneduce, per conto del Governo, propose al grosso dell’imprenditoria privata (in testa la solita Fiat) di riassumere la guida di quell’insieme composito di imprese. I “privati” risposero picche, Mussolini diede loro dei “coglioni” (termine quanto mai appropriato), e si rimase così alla “statalizzazione” di questa grossa quota dell’apparato economico (produttivo e finanziario) italiano. In ogni caso, al di là della forma giuridica della proprietà, sia chiaro che in Germania il nazismo operò anche più decisamente nell’attribuire allo Stato le funzioni di quello che ho indicato con il n. 2. Questo a dimostrazione del fatto che non conta tanto la “privatezza” o “pubblicità” della forma proprietaria imprenditoriale quanto la configurazione di quel “campo di battaglia” strutturato in apparati denominato Stato, le prerogative e funzioni ad esso attribuite da chi in tale campo si scontra per il predominio, il fatto che quest’ultimo sia, pur con ben differenti quote di potere, distribuito tra vari gruppi dominanti (Stato n. 1) o assunto fondamentalmente da uno d’essi in nome degli interessi unitari e non più contendibili (quanto meno non scopertamente e in modo divisorio) di quella data formazione particolare (Stato n. 2).
Il dopoguerra non comportò affatto la “privatizzazione” dell’IRI, ma la sua conquista e direzione da parte di quel partito assurto al Governo tramite “democratiche” elezioni con il viatico e l’influenza determinante (anche attraverso il piano Marshall, ma non solo, non cadiamo pure noi nel semplicismo economicistico) dei vincitori che occupavano, in base ai “patti di Yalta”, la parte di mondo “occidentale” (divenuto “campo capitalistico”, cioè dei funzionari del capitale, poiché dominato centralmente dalla formazione sociale statunitense). Impossibile qui (e per me) ripercorrere la complessa storia del quasi mezzo secolo seguente al 1945 fino alla fine del bipolarismo e della posizione particolare assunta dall’Italia nella porzione di mondo (monocentrico) dominata dagli Usa, posizione che le permise una certa politica con “scatti” di autonomia, assai poco ben visti d’oltreatlantico, come si capì solo con lo scatenamento del colpo di mano (per non dire di Stato) di tipo improprio e subdolo, tramite cioè lo strumento giudiziario; un cambio di regime totalmente anomalo e intriso di tale menzogna che continuiamo a pagarne lo scotto e a trascinarci dietro questa specie di maledizione non ancora esorcizzata.
Personalmente, quando seguivo mio padre nelle visite ai Ministeri dell’Agricoltura e dell’Industria e Commercio, mi resi ben conto della continuità, almeno nel personale dirigente amministrativo, tra fascismo e postfascismo. Debbo dire, sempre per i
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miei lontani ricordi, che si trattava di personale non ideologizzato – capace senza tanti trasformismi di servire differenti regimi – e che mi sembrò di buona qualità come capacità dirigente e di lavoro. Del resto, anche i personaggi messi dai governi del dopoguerra a posti dirigenti (per tutti cito Pasquale Saraceno, vicepresidente dell’IRI per un certo periodo) furono di prim’ordine, almeno in linea generale. Vi furono poi ulteriori acquisizioni, ancora più importanti, dell’industria “pubblica” o “di Stato”: l’Eni (1953), diretta da Mattei (credo si possa considerare senza dubbio il più geniale di tutti i dirigenti del settore industriale “pubblico”) e l’Enel, nato nel 1962 (su impulso del Psi) con la nazionalizzazione di una serie di imprese elettriche “private”.
Per lungo tempo, l’opposizione principale (cioè il Pci) diede della Dc un giudizio simile a quello emesso sul fascismo: partito del capitalismo più arretrato, degli agrari e perfino dei latifondisti meridionali. Inoltre, l’industria “pubblica” fu a lungo giudicata come una sorta di appendice di quella “privata”, cioè utilizzata per favorire non uno sviluppo al servizio di interessi generali, ma solo quello dei gruppi imprenditoriali privati. L’esempio classico sempre propagandato era quello delle acciaierie di Cornigliano (Siac, società incorporata nel 1967 nell’Italsider) considerate nel loro mero compito di fornire materie prime a sottocosto alla Fiat e altre. A parte il fatto che all’epoca, e per un dato periodo di tempo, la Fiat poteva essere considerata un’azienda quasi al passo coi tempi – tenuto conto del ritardo sia della diffusione del taylorismo-fordismo in Italia sia della trasformazione del nostro sistema economico (con riflessi sociali evidenti) da prevalentemente agrario a decisamente industriale (il famoso boom fine anni ’50 e primi ’60) – è in ogni caso evidente che la riduzione delle imprese statali (IRI e le altre ancora più rilevanti aziende “pubbliche”) a semplici ancelle dell’imprenditoria privata fu ancora una volta un’interpretazione errata con pesanti riflessi di linea politica.
La Dc – e ancor più la successiva (1962) accoppiata Dc-Psi – fu un coacervo politico assai complicato da giudicare nelle sue effettive funzioni in un mondo bipolare. Fu agrario (ma non sempre come sintomo di arretratezza) e industriale, moderno e ostacolo alla modernizzazione, ma soprattutto in senso culturale e dei costumi, non sul piano della gestione aziendale, sia nell’industria e servizi (terziario) che nell’agricoltura. In ogni caso, soprattutto per un paio di decenni (o quasi) il governo di allora fu negativo sul piano della repressione e dell’opposizione alla crescita del “movimento operaio”, fu timoroso di processi di più celere modernizzazione culturale, ecc. Tuttavia, se escludiamo “tette e culi”, la TV di allora fu benemerita per una serie di trasmissioni di effettiva cultura (non però di critica dei governanti; questa fu più che carente e spesso interdetta).
Tuttavia, l’errore fondamentale dell’opposizione fu proprio commesso in tema di giudizio sull’apparato economico “pubblico” (banche ma soprattutto industria). D’altra parte, un errore che veniva da lontano: dalla confusione tra socialismo e statalismo, dalla riduzione della classe operaia alle sole “tute blu”, quando nel pensiero originario si trattava del lavoratore collettivo (od operaio combinato): dal primo livello dirigente all’ultimo del lavoro manuale. Il tutto si fuse nella concezione paternalistica – dove il paternalismo era l’ideologia di uno strato dominante ristretto e chiuso
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in sé – dello Stato come esercizio di una presunta funzione emancipatrice della classe operaia (considerata appunto in un significato del tutto limitato ed errato), che poi, com’è ben noto, avrebbe emancipato tutta la società; una società invece in crescente complessificazione e dove la classe operaia in senso stretto sarebbe presto divenuta minoritaria.
Naturalmente si obietterà che, rispetto al “socialismo reale”, il Pci apportò, già con Togliatti, una ventata “innovatrice”. Nessuno nega barlumi di novità nelle tesi sull’alleanza con i ceti medi produttivi e nell’appoggio dato a certe scelte dell’industria pubblica pur diretta (apparentemente; e, in questo caso, spesso non realmente) da altre forze politiche1. Tuttavia, troppo spesso si parlò di “alleanza fra produttori”, mettendo nello stesso calderone raggruppamenti sociali vari – il lavoro dipendente (salariato) dei bassi strati con quello direttivo e con una congerie di ceti del lavoro “autonomo”, della piccola o perfino media impresa – che dovevano invece essere adeguatamente distinti in base ad una analisi condotta con categorie non più “marxiste” tradizionali, ma nemmeno cedendo alle banalità della “scienza sociale” ideologica dei dominanti. Un’analisi, diciamolo pure, che tuttora langue; ma almeno questo blog tenta di assumerne, e diffonderne, la consapevolezza e l’urgenza.
Pure sull’industria statale la confusione fu grande. Non si capì mai che le imprese pubbliche non potevano essere semplicemente indirizzate a contrastare i cosiddetti grandi monopoli privati, quasi si trattasse di iniziare una sorta di “costruzione del socialismo all’italiana” (appunto: “la via italiana al socialismo”). Anche perché, per quanto si trattasse di concezione moderata da una del tutto contraddittoria adesione alla “democrazia” del capitale, per socialismo si intese sempre un intervento (improprio) dello Stato, che non era in realtà né quello n. 1 né quello n. 2. La “programmazione democratica” era in definitiva una versione soft della pianificazione centralizzata; qualcosa che poteva assomigliare alla sedicente autogestione jugoslava, solo fonte di attribuzione di qualche potere in più ad “autorità” locali (regionali), pur sempre autoreferenziali e incapaci di affrontare i problemi decisivi tipici di una formazione capitalistica, in cui appunto le strategie (politiche) sono, in contingenze “normali”, dirette “democraticamente” alla mediazione ed orientamento di vari gruppi dominanti (sempre con intreccio di agenti politici ed economici) fra loro in conflitto ed esercitanti pressioni a volte componibili a volte no; in tale ultimo caso, si ha la conseguente necessità di passare a strategie più cogenti promananti da un gruppo dominante prevalente, che indirizza con una certa unitarietà la politica di quella data formazione particolare.
La presunta continuità con il regime precedente la guerra era in realtà il mantenimento di un forte intreccio tra politica ed economia, in cui l’apparato pubblico (o insieme di apparati, cioè lo Stato) fu una commistione – non sempre “virtuosa” – di
1 A volte l’apparenza è solo l’aspetto parzialmente distorto, e quindi non sempre in piena luce, di una realtà che comunque le corrisponde, sia pure con quelle distorsioni (in genere ideologiche). In dati casi, l’apparenza nasconde invece una realtà totalmente differente, perfino opposta, rispetto a ciò che appare; oppure, ancora più spesso, presenta come reale una situazione del tutto inesistente, fantasmatica.
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Stato n. 1 e 2. Il primo perché si faceva parte del “mondo libero” fondato sulla “democrazia” assicurata dal predominio centrale degli Usa nel campo capitalistico (“occidentale”, dei funzionari del capitale); e assicurata proprio in quanto funzionale a tale predominio centrale1. Lo Stato n. 2 fu invece molto utile e comodo per mantenere inalterato per quasi mezzo secolo – fino al crollo del “socialismo reale” – il regime governativo in Italia. Di volta in volta, si è considerata la predominanza diccì, successivamente con la costola del piesseì, come dovuta ai legami agrari (nelle regioni “bianche”) o a quelli con la criminalità organizzata e le clientele al Sud (mediante l’ambigua e tutto sommato fallimentare politica della Cassa del Mezzogiorno), al sostegno dei “padroni” americani (mediante, fra l’altro, gli apparati militari della Nato) con l’aggiunta di quello fornito dal capitale monopolistico privato (Fiat in testa).
Ci fu senz’altro tutto questo, ma si sottovalutò l’importanza degli interessi aggregatisi attorno agli apparati economici (industriali e finanziari) pubblici: quelli ereditati dal fascismo ma con aggiunte rilevantissime, forse le più importanti. Ciò che abbiamo scoperto dopo il “crollo del muro” e il colpo di mano giudiziario patrocinato da Usa e finanza-industria “private” – cioè la capacità dei governanti italiani di svolgere una certa politica autonoma verso il mondo arabo (perfino palestinese) e verso est; e anche, soprattutto in una prima fase anteriore al colpo di Stato in Cile, nei confronti di alcuni paesi sudamericani – è in realtà stato reso possibile dal connubio politica-economia che aveva il suo fulcro nell’apparato finanziario-industriale “pubblico”. Mai il Pci ha fatto un’analisi seria in tal senso; eppure non poteva non rendersi conto di tali fenomeni poiché aveva uomini infiltrati dappertutto, e in particolare nell’apparato pubblico dell’economia.
L’affaire Moro, fra tante altre cose (misteriose), non ha proprio nulla a che vedere – quanto meno nello “strano” comportamento delle varie parti politiche: antitrattativista ad oltranza il Pci, trattativista ad oltranza il Psi – con la centralità di tale apparato nella politica italiana? Forse il Psi, difendendo i tentativi di salvare Moro, proteggeva la sua posizione, di grande influenza, in quella decisiva base del potere costituita dagli apparati dell’economia “pubblica”? Per converso, l’atteggiamento contrario del Pci era forse mosso dall’intenzione di divenire pedina essenziale per la stabilità interna italiana, conquistando però spazi più ampi in quegli stessi apparati, fondamento non ultimo – prima del “crollo del muro” – di quella stabilità?
Perché non è stata valutata fino in fondo l’importanza degli apparati in questione, assumendo spesso il tipico atteggiamento della “volpe e l’uva”? Si è addirittura voluto vedere in essi – ma soprattutto a partire dalla fine anni ’70, in piena epoca berlingueriana con la sua enfasi (sincera?) sulla questione morale (o era invece magari la
1 Non a caso, l’unica corrente europea occidentale in grado di mantenere una discreta dose di autonomia rispetto agli Usa fu il gollismo, trattato da tutti (e dal Pci e Pcf in primo luogo) come una dittatura o quasi. In realtà, tale corrente sospese il tipo di “democrazia” consona alla subordinazione dell’intero campo agli Stati Uniti. Esattamente ciò che occorrerebbe fare anche nell’attuale contingenza che vede una UE passivamente succube dello stesso paese centrale nel mentre si sta entrando in una fase multipolare, nella quale si rischia di restare schiacciati se non verrà riconosciuto lo stato (e quindi lo Stato) di necessità.
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delusione della “volpe” di fronte all’ “uva” non colta?) – solo la fonte di corruzione; e l’attacco di “mani pulite” a quest’ultima – con il corteggio di suicidi e di probabili omicidi mascherati da suicidi – è a mio avviso, nella sostanza, l’ultimo atto di un’offensiva che era iniziata con il ben noto “incidente” di Bescapè in cui rimase vittima Mattei1. Perché non si sono perseguiti identici “reati” commessi da ambienti del Pci, quelli che rinnegando se stessi avrebbero fornito il nuovo personale politico adeguato all’operazione guidata d’ oltreatlantico con l’appoggio di finanza-industria privata italiana?
Si è fatta passare la bufala che è stato l’ “eroismo” di Greganti a salvare gli ex piciisti. Quante bugie! Lasciamo stare che il vero genio della finanza (pratica) del Pci non era costui, ma altro personaggio a me ben noto e per cui avrò sempre alta stima, perché proprio di autentico valore e di massima correttezza. Il problema cruciale è che non si voleva andare a fondo sugli affari del Pci, nient’affatto particolarmente loschi (se non per falsi moralisti che agivano per tutt’altri scopi), ma esattamente nello stesso senso degli affari di altri partiti invece distrutti tramite azione giudiziaria. Non erano evidentemente le indagini sui piciisti quelle utili e necessarie a smantellare l’apparato decisivo del potere di un sistema governativo quasi cinquantennale, che era servito quale argine contro il “socialismo reale”, ma si era concesso troppe libertà invise ai “padroni” americani, per cui andava liquidato una volta cessato lo “stato di emergenza” per i loro interessi imperiali (di dominio globale). Gli attacchi al Pci potevano aspettare; semmai servivano come “spada di Damocle” per futuri ricatti e costrizioni all’obbedienza2.
7. Tirando le fila, se ne conclude che il vero perno del potere Dc-Psi fu l’industria (e la finanza) pubblica; non solo ereditata dal fascismo, ma ampliata e rafforzata con più convinta adesione alla necessità di una sorta di dirigismo nell’andamento dell’economia. Tuttavia, come abbiamo sopra rilevato, lo Stato di quel periodo non poteva che essere un miscuglio, non troppo coerente, di quello n. 1 e di quello n. 2. Non si potevano affrontare – con il piglio e l’autorità di un De Gaulle – gli americani. Non avevamo né la forza né il personale politico adeguato all’uopo. La situazione rimase sempre ambigua, con prevalenza delle correnti filo-atlantiche, supine di fronte
1 A dir la verità, forse l’ultimo atto è l’eliminazione, sempre giudiziaria, di Fazio dal Governatorato della Banca d’Italia, occupato dall’ex vicepresidente della Goldman Sachs. Come al solito, non è tanto importante contestare l’esistenza di determinati reati, che ci sono stati (come anche molti di quelli contestati da “mani pulite”); è invece da discutere la tempistica e le reali motivazioni di certe per null’affatto tempestive “levate di scudi” morali e giudiziarie.
2 Cossiga si è innumerevoli volte vantato, mai smentito nemmeno in una virgola, di essere stato all’origine della caduta di Prodi nel 1998 e della sua sostituzione con D’Alema, al fine di favorire l’azione aggressiva degli Usa (di Clinton) contro la Jugoslavia, pienamente appoggiata e condivisa infatti dal nostro nuovo Governo. Posso supporre che ci fossero sufficienti motivi per “convincere” l’ex piciista? Solo la sua ambizione? Forse si, tuttavia mi si consenta un’altra ipotesi: i motivi risalgono già ai primi anni ’90, ad incontri trilaterali tra ambienti (dominanti) Usa con la nostra finanza-Confindustria e personale dell’ex Pci, salvato dal naufragio generale del dopo “crollo del muro” dietro precisi accordi e garanzie (di ottime prestazioni servili per tutto il futuro immaginabile).
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ai voleri del paese centrale del campo capitalistico, oggi diremmo di quello “occidentale” (scusate se mi ripeto spesso: dei funzionari del capitale).
Tuttavia, con il vecchio Pci, in fase “revisionista” come si diceva allora, vi era un qualche sostegno – pur nell’errore di interpretazione relativo alle funzioni del capitale “pubblico” diretto dagli avversari governativi – ad un minimo di nostra autonomia verso il mondo arabo e verso est. Già Berlinguer – non a caso il più rispettato dai settori “di sinistra” del nostro opportunistico “comunismo” (Il Manifesto in testa a tutti) – iniziò uno spostamento verso occidente, che fu il primo sintomo della putrescenza dilagante dopo il 1989-91. All’indubbia cristallizzazione (e stagnazione) del campo socialista (con la sola eccezione della Cina, rimessasi dagli sconquassi della “rivoluzione culturale proletaria”) si accompagnò lo svaccamento di tutte le correnti più opportuniste del piciismo; ed emerse la particolare funzione di spostamento servile verso “occidente” assunta proprio dalle frange che sembravano “più a sinistra”, mentre mantenevano un minimo di coerenza, pur solo riformista, le correnti “destre” (le “amendoliane” )1.
Venne infine Gorbaciov, le cui odierne “uscite” fanno addirittura pensare che fosse già allora in connivenza con il nemico nello svendere la potenza (non il socialismo, inesistente!) dell’Urss. Più probabilmente però è solo l’odio e lo spirito di rivincita nei confronti di chi lo ha sbalzato di sella a spingerlo oggi verso l’ignominia. In ogni caso, oggettivamente, egli ha smantellato quella potenza e tutto un sistema, che tuttavia non reggeva più. Non scordiamoci però del suo viaggio in Cina dove, in combutta con l’allora segretario del Pcc, cercò di seminare la stessa zizzania. Il grande paese orientale non era però “in apnea” come l’Urss, e Teng diede così una bella lezione agli “scalmanati” filo-occidentali.
Il crollo del sistema detto “socialista”, e in particolare della potenza sovietica, liberarono le spinte più servili (e di autentico tradimento e rinnegamento del passato, del resto ormai molto corrotto e demolito) nella sinistra piciista italiana; e ancora una volta gli alfieri del “passaggio di campo” furono le correnti un tempo “ingraiane”. Non lasciamoci ingannare da certe resistenze identitarie o da certi ultimi sussulti contro l’imperialismo americano. Nella storia i tempi non sono di anni bensì di decenni. Comunque, come ormai si constata con accelerazione esponenziale, uno ad uno i finti comunisti, gli “estremisti” dell’ antimperialismo antiamericano, cadono e tornano dalla “mamma”, che per loro è il grande capitale “privato”: quello dei settori arretrati fi-
1 Momento cruciale fu l’agosto polacco dell’80, che Il Manifesto, con un vergognoso oltre che demenziale articolo della Rossanda, paragonò al 1917 (e Walesa a Lenin). Oggi tutti hanno dimenticato quello che non fu un mero errore di valutazione, bensì la dimostrazione che certa “sinistra radicale” era la più avanzata nella putrefazione intellettuale e politica. Nessuna autocritica da allora, si è scagliato il sasso e nascosta la mano. Io ho però una memoria da elefante verso i misfatti di simile gente che ho sempre disprezzato, malgrado i media dei dominanti (quelli non a caso filoamericani accesi) l’abbiano incensata e proposta come i veri comunisti. Altrettanto dicasi per Negri, che oggi inneggia agli Usa di Obama buttando finalmente la maschera, fatto passare addirittura per un novello Marx. Pensate anche alla degenerazione di questi dominanti; la vecchia borghesia si sarebbe vergognata di utilizzare simili personaggi di così scoperta svendita.
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nanziario-industriali, legati per interessi cogenti1 ai dominanti centrali della loro area di riferimento.
Qual era il punto d’attacco fondamentale per smantellare il regime Dc-Psi con la scusa dell’eccesso di corruzione, del suo “mantenimento” ormai troppo costoso? In termini relativi, non erano affatto minori i flussi finanziari in direzione del Pci, che fu ampiamente salvato. Così come fu ad un certo punto invischiata anche la Fiat tra le aziende “finanziatrici”, ma anche su di essa non si insistette. Il punto focale fu invece la Dc-Psi, per quanto riguarda l’attacco giudiziario ai suoi dirigenti (salvo qualcuno da salvare, e non dei meno “corrotti”, per obiettivi elettorali, comunque falliti con la discesa in campo di Berlusconi): poi si doveva però mettere le mani sull’industria pubblica, e così fu, infatti, a partire dalla ben nota riunione sul “panfilo Britannia” nel 1992, che tuttavia non enfatizzerei. L’importante è che l’attacco ci fu e lo smantellamento pure; per fortuna non completo.
Chi poteva meglio portare l’attacco all’industria pubblica? Evidentemente gli esiti ormai totalmente degenerati dell’ azionismo. Questo passava per riformismo modernizzante, in fondo era l’erede del socialismo liberale. Da tempo uno Scalfari recitava la parte del Vate del paese; Ciampi passava per ottimo professionista della politica economica; Amato credo non abbia la stessa derivazione azionista, ma era un socialista, di quelli però pronti agli ordini dei potenti abbandonando per tempo la nave in affondamento. I nomi contano comunque poco, conta una certa corrente politico-ideologica. I piciisti d’antan avevano confuso il socialismo con lo statalismo (quasi fossero ormai regrediti al lassallismo); eppure avevano avuto alle spalle Marx per più di cent’anni. Figuriamoci quelli che parlavano di socialismo, ma senza e anzi contro Marx. Da tempo, questo socialismo liberale era solo la seconda parte della definizione; e non solo liberale, ma liberista puro sangue, cantore del mercato e delle sue taumaturgiche virtù.
Crediamolo pure in buona fede, non ci costa nulla; certo un po’ indirizzato dai “poteri forti”, ma in fondo non erano convinti seguaci della meravigliosa Fiat della “qualità totale” gli operaisti, gli ultrarivoluzionari seguaci del novello Marx, al secolo Toni Negri? Cosa c’era di male a eliminare la, dichiarata inefficiente, “mano pubblica” industriale (e soprattutto bancaria) per riaffidarla a qualche altra “qualità totale”? Non aveva in fondo ragione Ricardo (grande economista) contro List, mediocre e surclassato in ogni storia del pensiero economico? Non era meglio non dare più fastidi agli Stati Uniti e ristabilire una subordinata nostra complementarietà di settori “maturi” e superati rispetto ai loro avanzati, in modo da guadagnarci tutti, sia pure rispettando i rapporti di primogenitura dei “campioni della democrazia”? Per operare l’annientamento del regime politico Dc-Psi, demolendo nel contempo il centro del suo potere, l’economia “pubblica”, nulla di meglio dei “socialisti liberali”, che con un
1 Ricordo ancora una volta che tale atteggiamento è simile a quello degli Junker prussiani o dei proprietari di piantagioni di cotone nel sud degli Usa, conniventi con la potenza allora centrale, l’Inghilterra, ma per proprio interesse; perché, in certi casi, i dominanti di dati paesi hanno tutto l’interesse a servire quelli del paese preminente, ne traggono benefici per i loro settori arretrati, che sono complementari rispetto a quelli avanzati del paese in questione.
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semplice tratto di penna su “socialisti” diventano giocondi liberisti, e fra i più scatenati e dunque fra i più filoamericani (esattamente come i radicali, della stessa pasta avvelenata!).
Tuttavia, come già nella Resistenza, gli azionisti erano pochini, si sentivano troppo di élite. Sulle montagne ci andarono soprattutto i comunisti (quelli veri pur con la confusione tra socialismo e statalismo). Essi erano, nel 1992, morti o sclerotizzati, ridotti a identitari semirimbambiti. Invece, i “moderni”, quelli “radicali”, avevano seguito Dubcek, Walesa, Gorbaciov; erano ormai pronti anch’essi al “comunismo libertario” (e “democratico”). Bastava anche qui cancellare la prima parola e liberali (liberisti) e libertari si incontrarono; e continuano ad incontrarsi tuttora con, appunto, successive ondate di tradimenti e rinnegamenti. E tutti finiscono nell’amore per gli americani, soprattutto adesso che sono presieduti da un “nero”, da un “diverso”; del tutto eguale invece ad ogni altro dominante in un paese della potenza degli Usa, come lo sarebbe se fosse donna (magari se fosse stata Hillary, del resto sottosegretario di Stato come la Condoleeza) o gay o perfino pedofilo.
In definitiva, nel 1992, Britannia o non Britannia, mentre “mani pulite” compiva una parte dell’operazione, i socialisti (parola cancellata) liberali (liberisti) compivano l’altra parte, trovando una “base di massa” nei comunisti (parola cancellata) con speciale riferimento a quelli radicali (e modernizzanti, con mentalità progredita forgiata a Capalbio) o libertari, anch’essi in mutazione verso il liberismo; alcuni mantenendo persino severe incrostazioni keynesiane, che tuttavia non ripuliscono la piaga né la rendono meno tumida e dolente.
8. Oggi restano pochi brandelli della fu industria “pubblica”, ma di grande rilievo. Questa parte è sotto prevalente, ma non completo, controllo da parte dello Stato (azionista ne è il Tesoro). Tuttavia, vorrei ricordare quanto ho più volte sostenuto nei miei pezzi teorici e altri. Non è per me importante la distinzione tra privato e pubblico, che ritengo effettivamente ideologica; nel senso di ingannevole e tesa ad impedire la retta comprensione del problema decisivo. E’ indispensabile appurare quali settori economici (in realtà, i gruppi dominanti in essi attivi) si pongono come perno dell’autonomia di una certa formazione particolare (per semplicità diciamo un paese), assicurandone anche una certa indipendenza nazionale; e quali invece – essendo “maturi”, retaggio di superate “fasi innovative” – trovano il loro interesse nell’integrazione complementare, con dipendenza, rispetto al sistema economico e (soprattutto) politico del paese centralmente dominante.
La situazione italiana, per ragioni storiche peculiari, si presenta con le seguenti caratteristiche: l’industria rimasta ancora nella forma per buona parte pubblica appartiene a branche produttive che potrebbero consentirci una maggiore autonomia, mentre ampi strati della finanza (in pratica tutta) e dell’industria privata (quella che controlla la Confindustria) tendono alla subordinazione al paese predominante tuttora centrale. La crisi degli ultimi due anni, innescatasi con veemenza in quest’ultimo, è stata tutto sommato “benefica” perché ha messo in piena luce come non sia affatto interesse dell’Italia rimanere, supinamente e senza alcuna alternativa, nell’orbita della
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preminenza schiacciante di tale paese. Indipendentemente da come proseguirà nei prossimi mesi questa crisi – comunque anche le migliori, e credo molto ottimistiche, previsioni danno tassi di sviluppo italiani per alcuni anni a venire mai oltre il 2%, cioè poco più che stagnazione, specialmente in relazione alle previsioni per gli altri paesi “avanzati” o in procinto di diventarlo – è ormai tassativo affermare che continuare a seguire tale finanza e industria adagiate sulla dipendenza agli Usa comporta un grave danno per la stragrande maggioranza della nostra popolazione; ma soprattutto, lo dovrebbero ammettere i finti critici anticapitalisti e antimperialisti, per gli strati sociali più deboli e a minor reddito.
Cerchiamo di capirci meglio. Fra una ventina d’anni – prevedo così all’ingrosso, forse ci vorrà magari un po’ di più – dovremmo essere entrati in una fase storica ormai matura in senso policentrico; diciamo simile, pur con le solite diversità che la storia produce non ripetendosi mai con identiche caratteristiche, a quella dei primi anni del ‘900. Se ci trovassimo a quel punto – che vivranno i più giovani fra i redattori di questo blog – sarei il primo a suggerire ai miei amici: fermiamo altre attività e pensiamo a costruire possibili alternative ad una politica egemonizzata sempre, per quanto assai malamente, dai gruppi dominanti. Sarebbe comunque necessario abbandonare del tutto i miti e le credenze novecentesche – non solo quelle rivoluzionarie, ma anche meramente riformiste – e accelerare l’analisi del coacervo di ceti sociali che rimarrebbero assai sorpresi nel sentirsi definire dominati (almeno nei nostri paesi occidentali e, in un’epoca come quella immaginata, pure nei paesi di nuovo sviluppo “avanzato”).
Immagino si dovrebbe compiere soprattutto un’indagine sulle condizioni che tengono lontani ampi strati della popolazione (la netta maggioranza) dai luoghi dove si prendono le più rilevanti decisioni interessanti l’intera collettività; mettendo in luce come questa “democrazia” (puramente elettoralistica), retaggio dei miti (“di massa”, nella società dei funzionari del capitale) novecenteschi, non consenta di superare lo iato esistente tra questi strati maggioritari e gli ambiti delle decisioni in oggetto. Non credo proprio si tornerebbe a predicare le “classi” e la “lotta di classe” (concezioni vecchie già cent’anni fa), bensì qualcosa che assomiglierebbe alla “scoperta” di Lenin per i paesi definiti “anelli deboli” nella precedente epoca policentrica: l’alleanza operai-contadini. Qualcosa di paragonabile sarebbe, in Italia, la “sintesi” – da attuare con forzature politiche (d’altronde come lo fu in Russia quella tra i pochi operai e la massa dei contadini, suddivisa in verticale secondo varie stratificazioni) – tra lavoro dipendente e autonomo; anche qui tenendo conto che, in entrambi questi due generici e grossi raggruppamenti, la stratificazione è considerevole.
Tuttavia, siamo ancora lontani da una situazione geopolitica e sociale del genere; il policentrismo in senso specifico è di là da venire; lo si può prevedere con un, credo, alto margine di probabilità, senza darlo per certo e sicuro secondo l’inveterata abitudine dei profeti, di cui abbondano le file dei presunti rivoluzionari, piccoli mucchietti di chiacchieroni ormai indigeribili. E’ bene attenersi alla sempre più evidente tendenza al multipolarismo, in cui – purtroppo, ripeto purtroppo – agiscono soprattutto gruppi dominanti di svariati tipi, pur se alcuni di essi vengono presi, da coloro che
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hanno sempre bisogno di inventarsi dei “salvatori”, per combattenti a favore del popolo; mettiamo uno Chavez o un Ahmadinejad. Non cito a caso questi due, a favore dei quali sono senza tante riserve, per motivi però affatto differenti da quelli di chi li considera “difensori dei miseri e diseredati”; ben conscio invece che sono almeno un po’ “figli di p….”, e lieto che lo siano giacché non li appoggerei se non lo fossero abbastanza.
Allora, si capirà che, dando della fase storica attuale un giudizio simile, i compiti che ci si pone – che mi pongo io come gli altri redattori del blog (e sito) – sono assai diversi da quelli più specificamente politici in senso stretto. Voler fare quel tipo di politica, con il nostro atteggiamento pur sempre agganciato ad un “istinto” di opposizione ai decisori, significherebbe ripetere esperienze brucianti di vecchi gruppetti di opposizione, che giudicavano la situazione “matura” per mutamenti radicali e sono andati “per suonare”, restando “suonati” per sempre. No, cari miei, nessun avventurismo, nessuna smania di fare i protagonisti in condizioni oggettive tali, in cui chi volesse assurgere a tale ruolo si dovrebbe rassegnare a “giocare” con i veri potenti, a vendere il c….; e se lo facesse, con la finzione di restare fedele ai propri principi – quella svendita infatti attuata da “quell’uno a uno che stanno cadendo”, come già sopra rilevato – indurrebbe solo schifo e disgusto in qualsiasi persona abituata ad un minimo, ma proprio minimo, di coerenza.
E’ compito primario costituire un “pensatoio”, un gruppo di discussione e diffusione di una nuova cultura del “disvelamento” ideologico (mai totale sia chiaro). Consapevoli dei nostri limiti e dei mezzi scarsi a disposizione, dobbiamo sforzarci di analizzare le situazioni di fase e costruire nuove categorie dell’analisi, che – in linea di massima – si rifanno a Marx (e a Lenin) per il fatto di attenersi a date impostazioni problematiche, consci nel contempo dell’urgenza di uscire da quell’universo teorico, nemmeno appartenente all’ultima fase storica da noi vissuta, ma addirittura alla precedente (del capitalismo borghese).
Quindi siamo consci di stare indagando il gioco dei potenti (dei dominanti, cioè di coloro che possono prendere le maggiori decisioni). Sappiamo però, nel medesimo tempo che: a) non tutti i potenti sono dello stesso grado, siamo ancora lontani dall’effettivo conflitto policentrico; b) questi potenti di diverso grado prendono decisioni “reali”, che tuttavia sono anche apparenze implicanti altri significati, di cui essi sono talvolta consapevoli, altre volte no, in quanto collocati dentro una data ideologia (la loro); c) le decisioni non conseguono quasi mai (e il quasi è messo per prudenza) gli effetti desiderati e perseguiti dai potenti, poiché i risultati sono conseguenze di innumerevoli concause, di cui nessuno ha il pieno controllo, senza poi considerare che le azioni, presunte concomitanti e in realtà invece contrastanti, hanno spesso alla fine una “sintesi”, una composizione, non voluta da nessuno.
In questo contesto, dunque, pensiamo e anche agiamo, poiché il pensiero – quando non totalmente avulso dalla realtà pensata, e sempre interpretata – produce comunque effetti, che poi si depositano in tempi non prevedibili e valutabili a priori. In base alla realtà, così come interpretata mediante le nuove categorie teoriche – e trovandoci nella fase (multipolare) accennata – assumiamo determinate posizioni che possono sem-
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brare favorevoli a questo o quel gruppo dominante (decisore), a questa o quella potenza di grado differente. Non ci schieriamo invece per, analizziamo e valutiamo soltanto il come date situazioni evolvono e indichiamo quale evoluzione ci sembra più favorevole a condurre verso configurazioni mondiali, ma anche verso articolazioni del potere dei vari gruppi dominanti interni all’Italia, che appaiono le più “progressive”: dove con questo termine definiamo la direzione di marcia più consona. A che cosa? Ben chiesto: a) ad avanzare verso il policentrismo, rafforzando quindi la configurazione multipolare odierna; b) a scardinare il potere della finanza e industria italiane legate agli Usa da precisi interessi (dei settori più arretrati complementari a quelli più avanzati di tale paese) e ad accrescere quello dei settori che riteniamo più idonei a conseguire una nostra maggiore autonomia.
Il “caso” vuole che i settori, chiaramente reazionari, sono “privati”, quelli progressivi sono “pubblici” (non completamente, del resto). Inoltre, la politica verso “sud” (mondo arabo, detto però molto all’ingrosso) e verso “est” è progressiva – cioè si muove in direzione del multipolarismo – quella verso “ovest” vuole favorire il tentativo “imperiale” (monocentrico), che gli Usa di Obama non hanno affatto abbandonato né accantonato, perseguendolo semplicemente con altri mezzi e tattiche. Con chi non ha capito queste verità elementari il nostro disaccordo è totale1; altre contraddizioni sono mediabili, a seconda delle concrete contingenze. Basti pensare all’ambientalismo o alla decrescita, su cui avremo modo di discutere in futuro poiché non ci sembrano adesso questi i problemi più urgenti. Fra l’altro, credo che per gli anni a venire ci si dovrà adattare, se non alla decrescita, ad una crescita abbastanza stentata e forse al limite della stagnazione. Tuttavia, attribuiremo maggiore importanza allo sviluppo in quanto trasformazione qualitativa, implicante l’alterazione degli attuali rapporti di forza in seguito al già segnalato andamento ineguale di tale processo nelle diverse formazioni particolari. Tutti temi trattati da sempre, ma che affronteremo molte altre volte in futuro.
Con quanto argomentato fin qui per “appunti e spunti”, ho voluto segnalare le linee direttrici del nostro lavoro, i suoi limiti, i suoi punti salienti: attività di ripensamento teorico, analisi di fase, demistificazione dei vari imbrogli politici e ideologici in campo, preferenza – del tutto relativa a quest’epoca, in cui sono i dominanti e le potenze in fase di lento progresso verso il multipolarismo a “guidare le danze” – per certe soluzioni piuttosto che per altre; ma senza l’illusione di riuscire ad orientare i processi concreti verso soluzioni positive, quindi tenendo sempre presenti i loro pos-
1 Non uso il plurale maiestatico. Qualcuno, spero in buona fede, cerca di vedere tra di noi delle differenziazioni. Sarà bene che si leggano i nomi dei redattori, che tali resteranno a lungo salvo cooptazioni di chi è con noi omogeneo. Non ci sono proprio differenze, anzi una compattezza di vecchio stampo. Ciò dipende proprio dal fatto che non è nostra intenzione giocare al gruppetto che fa politica cosiddetta “concreta”, dimostrandosi solo una fastidiosa “pulce”. Noi intendiamo per politica, in questa fase, una battaglia prevalentemente culturale, di critica e orientamento, di “disvelamento” ideologico (come già dichiarato) con l’elaborazione di nuove categorie teoriche. E qui occorre una buona compattezza che è appunto la nostra cifra. Non intendiamo introdurre alcun elemento di discordia e di disgregazione; l’esperienza gruppettara è stata sufficiente e non la ripeteremo, nemmeno provocati (taluni forse tentano questa via, ma sarebbero sciocchi a nutrire speranze in proposito).
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sibili sbocchi negativi. Nei limiti delle nostre forze – e meglio ancora se ci riuscirà di cooptare nuovi “adepti” preparati al lavoro di analisi teorica, politica, storica – questi sono i compiti che ci siamo dati e per cui possiamo chiedere aiuto. Certamente, nell’ambito dell’inquadramento generale, verranno svolte spesso indagini più specifiche, di eventi contingenti; sempre però rilevanti per le finalità qui indicate nelle loro linee generali (e non sistematicamente).
Qui dunque chiudo, conscio però che ogni chiusura implica ormai l’apertura a ventaglio di altri sviluppi argomentativi su altre questioni – più o meno generali o particolari – già sul tappeto o di prossima “irruzione” nel nostro “campo visivo”.
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