APPUNTI SULLA TIPOLOGIA DEI CONFLITTI
di Gianfranco La Grassa
PARTE PRIMA
IL CONFLITTO TRA GRUPPI DOMINANTI
1. All’inizio del Manifesto del ’48 – uscito nel gennaio, quindi scritto alla fine del ’47; pamphlet estremamente brillante e conciso, da non prendersi però quale testo di teoria della società, né tanto meno come “il libro del Profeta” – Marx affermò che tutta la storia è storia di lotta di “classi”, intendendo riferirsi a quella tra gruppi sociali dominanti e popolazioni complessivamente subordinate, pur se in modi assai diversi; guai ad assimilare schiavi e servi della gleba ai proletari, in quanto semplicemente lavoratori salariati, nella società più moderna, capitalistica. Quando il Manifesto fu scritto si era alla vigilia dello scoppio delle famose rivolte del ’48, che punteggiarono in successione vari paesi (forse la più acuta, come al solito, si svolse a Parigi) fino al 1849 e furono in genere poi schiacciate o comunque spente. In quei mesi emerse con maggiore chiarezza l’avvenuta decantazione del Terzo Stato nei due raggruppamenti denominati borghesia e, appunto, proletariato, che è tutto sommato, come appena detto, l’insieme dei lavoratori salariati. In anni successivi Marx – sotto la sintetica formula di “ingegnere e manovale”, oggi potremmo dire lavoratori dipendenti sia della mente che del braccio – penserà tale insieme quale lavoratore collettivo od operaio combinato, ritenuto fondamento sociale oggettivo della transizione ad altra formazione sociale (socialista e poi comunista).
E’ chiaro che Marx fu influenzato dal clima della rivolta, indubbiamente di grande importanza storica, ma non certo perché abbia condotto alla nascita del presunto “soggetto rivoluzionario” in grado di travolgere la società capitalistica. Una volta spentosi il movimento – che ebbe dopo oltre vent’anni un altro rilevante sussulto, ancora più limitato spazialmente e temporalmente, nella Comune di Parigi – Marx si dedicò allo studio dell’economia politica (quasi esclusivamente classica, comunque senza il minimo sentore del presentarsi di quella neoclassica o marginalistica con Walras, Menger e Jevons nel 1870, ben prima quindi della sua morte) e sviluppò le sue più decisive conclusioni con il disvelamento dello “sfruttamento”, cioè dell’appropriazione del pluslavoro dei salariati in forma di plusvalore perfino se si realizzasse la più perfetta eguaglianza tra individui possessori di merce nello scambio delle stesse; sufficiente, per detta appropriazione, è la presenza della forza lavoro in forma di merce.
Nonostante quanto appena ricordato, i marxisti hanno ragionato in lungo e in largo per oltre un secolo intorno alla “lotta di classe” tra borghesia e classe operaia – fra l’altro ridotta prevalentemente agli operai esecutivi, al “manovale” o poco più – facendo grandi discorsi sul tramonto del capitalismo, la transizione al socialismo e comunismo, che infine ha messo in piena luce il suo carattere solo ideologico con il tracollo della formazione sociale, ancora tutt’altro che ben conosciuta, cui la presunta “rivoluzione proletaria” aveva dato vita. La “lotta di classe”, quella che avrebbe caratterizzato l’intera storia della società umana, è divenuta mera contesa per l’attribuzione di varie porzioni di quanto prodotto a differenti gruppi sociali; e nell’ambito di una produzione di tipo capitalistico, quella che ha condotto al più alto tenore di vita medio sociale, pur nella grande differenziazione dei livelli di reddito goduti dai vari raggruppamenti.
Le rivoluzioni più radicali del XX secolo sono state di tipo contadino, non hanno interessato le società capitalistiche vere e proprie. Per una parte di detto secolo tali rivoluzioni sono state condotte in nome del comunismo, e condite di propaganda infarcita di una teoria marxista sempre più lontana dallo spirito scientifico che avrebbe voluto infonderle il suo fondatore; a parte alcune eccezioni anche rilevanti. Da ormai parecchi decenni, tali rivolte si sono sedate e i nuovi sussulti che si manifestano qua e là, di tempo in tempo, non hanno più alcun carattere comunista. Sono lotte fondamentalmente condotte in base a ideologie religiose, che sono del resto le più appropriate, tenuto conto che anche il comunismo era ormai da tempo divenuto una religione; e quei pochi che continuano a biascicarlo, si limitano a sostituire l’Uomo a Dio, il che appare una perdita e non un guadagno. Dio, se ci si crede, si predica come essere perfettissimo, onnipotente, onnisciente, ecc; inoltre gli si attribuisce la prerogativa di assegnare premi e condanne dopo la nostra dipartita. Mettersi a predicare sull’Uomo – quest’animale feroce e spesso insensato, in ogni caso un poveretto sperso in un mondo che si arrabatta a capire – in quanto finalità della “lotta di classe”, spesso pur essa insensata e comunque atta a conseguire assai limitati obiettivi e non certo l’instaurazione di rapporti sociali di piena e reale eguaglianza, di cooperazione e solidarietà, e via dicendo, è di un’insipienza ormai insopportabile.
Non ha più alcun senso continuare a insistere sulla convinzione che l’intera storia dell’umanità sia stata generalmente caratterizzata dalla lotta tra classi dominanti e dominate, usando ancora per semplicità questa distinzione molto schematica e superficiale. Ci sono stati momenti – nella lunga storia delle diverse formazioni sociali si è trattato soltanto di brevissimi periodi, di “attimi” – in cui si è sviluppata una lotta di tal genere. Tuttavia, per fasi storiche ben più lunghe, e dense di sommovimenti e trasformazioni, la contesa si è svolta principalmente tra differenti gruppi di dominanti, con una serie continua di cambiamenti di fronte, di alleanze fatte, disfatte e rifatte, in un conflitto condotto fino al pieno annientamento del gruppo nemico o invece con accordi e compromessi (o vere compromissioni), con assorbimento dello stesso; e in altri cento modi non descrivibili nei loro termini più generali.
Per di più, anche quando si sono sviluppati conflitti “di classe” – cioè, detto meglio, tra gruppi sociali al vertice del comando nella società e “masse popolari” in rivolta contro condizioni di vita ormai giunte al livello della scarsa tollerabilità – i movimenti di queste masse sono stati il più delle volte repressi e schiacciati sanguinosamente. Solo laddove si sono formati gruppi dirigenti – quasi sempre non enucleatisi dalle masse in movimento, già presenti invece in base a segmentazioni e stratificazioni della popolazione subordinata avvenute da tempo – si è potuto realizzare l’obiettivo del sovvertimento del vecchio ordinamento sociale. Bando, quindi, alle roboanti enunciazioni intorno alla “lotta di classe”, che non è mai esistita nei termini in cui è stata raccontata. Bisogna afferrare meglio i caratteri delle “guerre” (in senso lato, in quanto conflitti giunti a grande acutezza) tra vari raggruppamenti sociali; limitandoci, al momento, alla società detta capitalistica – soprattutto dopo la rivoluzione industriale – e non all’intera storia dell’Umanità, ben difficile da controllare senza ricorrere a inutili chiacchiere diversive.
2. Aveva ragione Lenin, anche se non so al momento citare il luogo della sua affermazione, quando invitava alla “analisi concreta della situazione concreta”. In definitiva, se si vuole agire, soprattutto quando s’intende procedere ad un autentico rivoluzionamento sociale, è indispensabile conoscere nei particolari la specifica congiuntura in cui si opera, anche perché non sempre essa si presta ad essere sfruttata nel senso del ribaltamento radicale dei rapporti di forza tra i gruppi sociali esistenti; e sbagliare momento di intervenire conduce al fallimento e alla sconfitta. D’altronde, anche se e quando la situazione appare favorevole, è indispensabile conoscere i metodi di lotta, le possibili mosse strategiche più favorevoli ad un suo buon esito, oltre a non commettere gravi errori in merito alle forme ideologiche secondo cui dirigere rilevanti quote delle “masse” in movimento, che devono inoltre essere passibili di organizzazione, devono essere in condizioni di accettarla e ben praticarla, altrimenti il disordine e scoordinamento conduce alla disfatta.
In casi simili, è necessaria una teoria sia della struttura sociale esistente nella fase storica cui appartiene quella congiuntura, sia della tipologia generale delle lotte rese possibili da tale struttura nella fase in oggetto. La teoria è semplicemente la capacità di distanziarsi dalla situazione in cui ci si trova collocati, la capacità di porla “davanti” a noi quasi fosse un oggetto esterno e dotato di sufficiente immobilità – che è pur sempre una finzione rispetto all’ondeggiare tumultuoso dei processi in cui siamo immersi – al fine di poter riflettere ad una serie di mosse da compiere per conseguire quello che definiamo un successo; sempre provvisorio, sempre parziale, continuamente rimesso in discussione, il che ci obbliga dunque a ridiscutere e riformulare pure le nostre teorie nel tentativo di adeguarle alla nuova situazione; e il ciclo si è ripetuto indefinitamente nell’ormai lunga storia della società umana, e continuerà a ripetersi per i secoli dei secoli.
Non si agisce in base ad un semplice e immediato schema stimolo/risposta; si cerca di trovare nel “tumulto” – per via di riflessione, con continui ritorni all’indietro sul precedente dispositivo di spiegazione individuato per ogni dato processo – un possibile schema di successione degli eventi onde poter intervenire efficacemente in essi. Se non si trova il “bandolo della matassa”, è meglio soprassedere. L’azione politica non è come la guida di un’auto; l’automatismo dettato dall’abitudine (detto prontezza di riflessi) deve avere applicazione del tutto subordinata, per brevi contingenze specifiche, rispetto ad uno studio ben più complesso dell’intero campo – anch’esso una “costruzione teorica”, necessaria e utile, da tenere in conto senza credere che si tratti della realtà così com’essa è – su cui si svolge il conflitto. Procedendo ad una prima schematizzazione dei conflitti che influenzano il decorso storico, schematizzazione del cui semplicismo tenere conto nel prosieguo dell’analisi dei processi in atto durante tale decorso (detto meglio: che si suppone si verifichino in esso), direi di operare una tripartizione dei conflitti in oggetto: a) conflitti tra dominanti; b) conflitti “coloniali” (in senso lato, cioè per le sfere d’influenza); c) conflitti “di classe” (tra dominanti/decisori e subordinati, dominati).
Al primo posto, per la durata del suo operare durante intere epoche storiche, metterei il conflitto tra gruppi dominanti (sempre tenendo presente la genericità di tale denominazione semplicistica). Se Marx non fosse stato mosso dall’intento rivoluzionario, che sembrava molto realistico (in ogni caso destava emozioni) nel momento in cui scrisse di getto Il Manifesto, avrebbe dovuto affermare che l’evolversi degli eventi storici è per la maggior parte del tempo influenzato principalmente da tale conflitto. Non solo: come capirono successivamente i due grandi rivoluzionari Lenin e Mao, avrebbe dovuto rilevare che le rivoluzioni scoppiano, e soprattutto hanno possibilità di successo, solo quando il conflitto tra dominanti ha raggiunto una considerevole acutezza e ha inceppato, perfino sconvolto, i meccanismi riproduttivi di una data formazione sociale (di un certo sistema di rapporti sociali), il cui funzionamento ha caratterizzato la stessa per una lunga epoca storica.
Nella società capitalistica – mi limito pur sempre alla considerazione di quella(e) in cui predominano le forme dell’impresa e del mercato, società che penso abbia tuttavia conosciuto fasi caratterizzate da configurazioni piuttosto diverse dei rapporti sociali – i conflitti tra dominanti trovano ulteriore specificazione, e particolarizzazione, negli scontri tra quegli insiemi organizzati di apparati detti Stati. Chiunque blateri intorno alla fine delle funzioni di questi ultimi – in quanto, appunto, sistemi di apparati che sono il precipitato, la condensazione, del conflitto tra dominanti – sbaglia gravemente oppure è un imbroglione in servizio permanente attivo dei gruppi subdominanti peggiori e più reazionari, assillati dalla necessità di nascondere in una nebulosa indistinta la loro subordinazione rispetto ai reali predominanti, situati generalmente in un altro paese (altra formazione particolare) dotato del suo Stato (complesso di apparati) in grado di affermare o consolidare il loro predominio.
Nemmeno si deve però trattare lo Stato quale soggetto a se stante, talvolta preso per padrone della società, altre volte quale organizzatore di servizi generali per la collettività abitante in un dato territorio geografico-sociale. E’ facile farsi abbagliare da tale apparenza poiché gli apparati costituenti lo Stato sono stretti in fascio da una regolamentazione giuridica, che sembra unirli in un tutto compatto e funzionante in scorrevole coordinamento, servendosi della cosiddetta burocrazia, corpo di funzionari selezionati, inquadrati in cosiddetti organici con rigide carriere ben scandite nei loro passi successivi e che, in teoria, devono svolgere le loro attività lavorative secondo principi organizzativi ben definiti e in modo relativamente omogeneo. La compattezza dell’organizzazione e coordinamento secondo determinate norme giuridiche confonde le idee; possiamo in realtà assimilare lo Stato ad una sorta di roccaforte insediata su un terreno accidentato e talvolta persino sconvolto dai conflitti in svolgimento nella società, conflitti solitamente combattuti tra i vari gruppi sociali con diversi interessi, quasi sempre rivestiti di abiti ideologici.
Si è criticata per la sua eccessiva semplicità la tesi dello Stato quale strumento della classe dominante. Fino a quando la “roccaforte” non viene direttamente assaltata e sgretolata (in genere per costruirne una di solo parzialmente diversa), essa sembra ergersi al di sopra di ogni suo uso strumentale a causa della suddetta regolamentazione giuridica unitaria e coordinatrice, apparentemente non sensibile a pressioni dall’esterno. In realtà, i gruppi che hanno maggiore influsso decisionale negli affari sociali – fra cui si trovano spesso pure le élites ufficialmente rappresentanti gli “esclusi” dalle decisioni più rilevanti per la riproduzione dei rapporti sociali in quella loro forma specifica – portano la lotta entro le mura della roccaforte, nei vari “androni” (apparati statali) che la costituiscono. Le decisioni che da quegli “androni” escono – al di là della formulazione assunta (in base a regole predisposte) e osservando invece con maggiore attenzione e capacità analitica gli obiettivi posti e realizzati oppure mancati – sono la risultante del conflitto tra i gruppi decisionali in questione.
3. La lotta tra gruppi dominanti – quellieffettivamente in grado di prendere le decisioni produttrici dei più rilevanti effetti per l’intera società abitante in un dato territorio – è dunque continua, si svolge anche in condizioni di fase apparentemente stabili e tranquille; tale lotta si conclude spesso nell’emanazione di disposizioni che appaiono inerenti alla sfera detta comunemente politica, quella appunto dello Stato (dei suoi apparati stretti in fascio unitario) e di altri organismi in movimento nel suo ambito come i partiti, associazioni ed organismi vari in grado di aggregare quote della popolazione di determinate formazioni particolari (in genere paesi). Tuttavia, ogni lotta tra gruppi dominanti (decisori) – del resto, non solo nella società capitalistica – deve trasferirsi dal suo lato specificamente legato agli interessi materiali degli stessi a quello della formazione e utilizzazione di specifiche “strumentazioni”, che riescano ad aggregare più o meno ampi complessi di individui attorno a tali gruppi (nei casi più rilevanti, si verifica la formazione dei “blocchi sociali”).
Di conseguenza, la lotta viene solitamente combattuta dai diversi gruppi mediante la presentazione dei loro contrastanti interessi in particolari vesti ideologiche; tramite simili travestimenti i gruppi in conflitto acquisiscono maggiore forza e si trascinano dietro porzioni di popolazione i cui interessi coincidono solo molto parzialmente (o addirittura per nulla) con i loro. D’altra parte, molto spesso le rappresentazioni ideologiche non sono consapevoli inganni perpetrati dai diversi gruppi dominanti (decisori). Anzi quasi mai lo sono, giacché le ideologie, soprattutto le più ampie e pervasive, sono il modo decisivo per affrontare il mondo e muoversi in esso; in linea generale, non esiste altro modo di combattere il conflitto se non nel suo travestimento ideale.
Tuttavia, va tenuto presente che l’ideologia non è la sola, e forse nemmeno la principale, forza a disposizione dei combattenti; ancora più importanti sono quegli apparati della sfera politica adibiti all’uso della violenza, una parte dei quali ha reali compiti bellici. Ideologie e apparati della violenza sono strumenti appaiati nella lotta tra dominanti (o gruppi di decisori). Il loro uso, la loro azione, vanno incardinati in una serie di altri mezzi, costitutivi della politica nel suo significato più vero, che solo per traslazione viene poi riferita allo Stato e agli altri organismi della sfera detta appunto politica (o, in termini giuridici, “pubblica”); i quali possono quindi considerarsi strumenti derivati rispetto a quelli originari della politica. Quest’ultima è appunto intessuta delle mosse strategiche tramite cui i contendenti combattono il conflitto in vista di conquistare la supremazia nella formazione sociale in quella determinata congiuntura e, possibilmente, per una determinata fase o anche per un’intera epoca storica.
Quando si dice, e a mio avviso ciò è nella sostanza corretto, che la guerra è la continuazione della politica (Von Clausevitz), si deve però intendere appunto la politica quale complesso di operazioni strategiche nell’ambito della lotta, che in date contingenze si trasforma in vero e proprio scontro armato, militare. In linea generale, a parte il caso in cui quest’ultimo diventa “guerra civile”, esso viene combattuto tramite gli Stati, con uso dei loro apparati armati dediti ad esercitare la violenza appunto bellica. Ribadisco che gli apparati statali sono strumenti derivati, seppure indispensabili, dello strumento principe del conflitto: le strategie (la politica) impiegate sia nel confronto non apertamente violento, e tra gruppi dominanti interni ad un dato paese per il governo dello stesso, sia in quello armato e tra Stati (salvo il caso speciale delle “guerre civili”, interne ad un paese e in cui gli apparati dello Stato prendono le parti di uno dei contendenti, ma possono sfaldarsi ed essere sostituiti da altri).
Purtroppo, quando si parla di politica, ci si riferisce in genere alle pratiche svolte in una data sfera dell’agire sociale, in cui vengono coinvolti gli apparati dello Stato e tutte le organizzazioni (partiti, associazioni, ecc.) che in essa si muovono promuovendo gli interessi (nel loro travestimento ideologico) dei diversi gruppi dominanti, seguiti spesso da quote di popolazione (a volte, però più raramente, costitutive di effettivi blocchi sociali). In questo modo per politica s’intende quasi sempre l’azione di apparati, organizzazioni, ecc. del tipo in questione. Quando le mosse strategiche sfociano nell’azione che usa detti apparati – in effetti quelli, fra questi, armati e addetti all’esercizio di violenza da parte di una data formazione particolare (di un paese) – per muovere guerra ad altre formazioni particolari (paesi), si dice appunto che la politica continua con la guerra. In generale, però, si tiene conto solo dello Stato e dei suoi apparati; è tale organo, preso per soggetto, di cui si constata prima l’agire sul piano interno e per condurre una certa politica estera in situazione di “pace”, e poi il passaggio alla fase dello scontro aperto e bellico quando non sembra esservi più possibilità di rinviare la resa dei conti.
In realtà, la politica nel suo senso più proprio è, come già rilevato, l’insieme delle strategie (e delle sequenze di mosse di cui queste constano) poste in opera nel conflitto per assumere il predominio. Questo, detto in senso effettivamente generale: si tratti di strategie utilizzanti quegli organismi denominati imprese nella loro competizione mercantile – mai condotta in base al semplice principio del minimo mezzo per diminuire costi e prezzi (spesso con innovazioni di processo) e nemmeno tramite le sole innovazioni di prodotto – o di strategie degli organismi (partiti, ecc.), rappresentanti i vari gruppi sociali (più spesso quelli dominanti) in contrasto per conquistare la direzione complessiva del governo di un paese, o di strategie utilizzate dagli apparati statali per la repressione interna o l’aggressione all’esterno, ecc.
Le strategie della politica sono necessarie alla stabilizzazione e delimitazione di un campo del conflitto, allo svolgersi delle mosse che devono compiere le forze durante il combattimento in detto campo, alla valutazione e analisi delle forze in campo, e via dicendo. In linea generale, le strategie della politica sono gli strumenti fondamentali per agire in un mondo in continuo movimento, caotico, pieno di sorprese, che deve appunto essere stabilizzato (formazione del suddetto campo) per poter combattere; ogni stabilizzazione comporta poi previsioni sulla futura evoluzione del campo, pensata e “costruita” con modalità cinematiche troppo spesso confuse con la reale dinamica del reale, un “fluido” in continua vibrazione e rimescolamento. Pensando e agendo – comunque necessariamente data la nostra configurazione di corpi in movimento – secondo la cinematica, le previsioni vengono sempre, in misura minore o maggiore, deluse; occorre sufficiente elasticità per modificarle quando lo scostamento dal reale supera certi limiti, non univocamente definibili.
Le mosse strategiche effettuate in determinati campi, stabilizzati mediante l’analisi (con formulazione di teorie) e di cui si prevedono date evoluzioni in base alla “costruzione cinematica”, utilizzano vari insiemi di organismi e di apparati, fra cui fondamentali sono quelli costituenti lo Stato, i quali sono i più stabili e durano spesso, nella loro strutturazione (normalizzata tramite regole giuridiche), per intere fasi storiche. Sarebbe tuttavia sbagliato, sbaglio che però si commette normalmente, prendere la cosiddetta sfera politica – una delle sfere in cui può essere divisa la società per fini di utile schematizzazione – come l’artefice della politica. Detta sfera, con i suoi apparati vari (politici e ideologici, ecc.), è la parte materiale, certo indispensabile a condurre le strategie, prodotto del pensiero stimolato dal conflitto. Senza tale parte materiale non si può evidentemente condurre azione alcuna, così come senza cervello (e non colpito da alcun grave accidente) non si può pensare.
Il cervello, tuttavia, è solo lo strumento, non determina le varie modalità del pensiero e i suoi “prodotti”, ecc.; così pure è degli apparati costituenti lo Stato, di cui tuttavia non si può fare a meno così come non si può fare a meno del cervello. Il sistema strutturato di detti apparati – cioè lo Stato in un dato paese ed in una data fase storica – sembra sovente ancora la stesso quando in realtà è ormai mutato il senso del suo agire perché la fase in questione è caratterizzata da nuovi conflitti in corso tra “agenti” attuanti altre strategie e con differenti rapporti di forza. In realtà, non agli apparati e organismi vari in sé bisogna rifarsi primieramente, bensì alle condizioni della lotta in svolgimento, con nuovi (parzialmente almeno) agenti che la conducono e le cui strategie (la politica) sono cambiate, il che trasforma pure il senso dell’azione statale e politica in genere.
Spesso si dice che è ormai diversa la “costituzione materiale” di un dato Stato, i cui apparati appaiono formalmente (per la normazione giuridica che li regola) immutati. E’ un modo di esprimersi che può generare qualche equivoco. Gli apparati, proprio nella loro materialità oltre che nella configurazione formale, sono sovente gli stessi. E’ trasformato il senso (direzione e obiettivo cui si mira) del loro agire a causa sia della diversa articolazione degli agenti in conflitto sia del nuovo reticolo costituito dalle strategie poste in opera (la politica di questi agenti). In ogni sfera della società – economica, politica, ideologico-culturale – questa politica può essere continuata nella “guerra” (sia pure in senso lato) quando il conflitto tra agenti strategici arriva al punto in cui deve trasformarsi in definitiva resa dei conti (almeno per quella fase storica e per quell’articolazione degli agenti in lotta), in netta e non più discutibile vittoria degli uni sugli altri (sempre in quella fase storica). In genere, questa più aspra risoluzione del conflitto diventa evidente (e drammatica) soprattutto nella sfera politica, in particolare nello Stato con i suoi apparati della violenza; siamo allora in presenza della guerra nel suo significato più stretto, che è pur sempre continuazione della politica con altri mezzi. Occorre dunque sforzarsi di andare al fondo della questione, cioè prendere atto della, e conoscere la, politica nel suo specifico significato; non limitarsi a studiare l’uso degli apparati (la sfera politica della società) di cui questa si serve. In realtà, è proprio a questi apparati, detti ideologici di Stato, che si limitò di fatto la pur meritoria analisi del gruppo althusseriano.
4. Il secondo tipo di tipologia dei conflitti (delle “guerre”) – isolabile teoricamente pur se di solito intrecciato agli altri, ma con differente peso dei diversi tipi nella loro articolata unione – è quello che ho definito “coloniale”. In termini però assai lati, senza fare confusione con l’idea di colonia formatasi nella storia. Mi riferisco in particolare ai paesi conquistati e generalmente occupati e amministrati dai paesi capitalistici; in primo luogo dall’Inghilterra, il più importante paese del genere, quello che ha posseduto la più grande estensione di colonie. In linea generale, la dominazione coloniale – spesso confusa con quella imperialista – fu ritenuta appunto l’occupazione e annessione (con sottomissione) di paesi agricoli (o ricchi di materie prime minerarie, energetiche, ecc.) da parte di un paese capitalistico già notevolmente sviluppato, che “sfruttava” la colonia quale serbatoio di queste materie prime o prodotti agricoli necessari al suo sviluppo industriale.
La vecchia colonizzazione, quella classica o tradizionale, implicava spesso lo scardinamento di usi e costumi (la cultura in generale) del paese subordinato e generalmente occupato; ciò non avveniva però sempre, talvolta si lasciavano sussistere in larga parte le tradizioni locali quando non in contrasto con la sottomissione coloniale. Inoltre, spesso il paese colonizzatore dotava comunque il paese subordinato e occupato di un’amministrazione (soprattutto statale) simile a quella sua propria e costruiva pure una serie di infrastrutture (in particolare nei trasporti: porti marittimi, ferrovie, ecc.) utili allo “sfruttamento” coloniale; opere risultate tuttavia di importanza non trascurabile dopo la “liberazione” del paese dall’occupazione coloniale vera e propria, sostituita spesso da più sottili condizionamenti.
Analizzando l’epoca policentrica (conflitto tra varie grandi potenze) a cavallo tra XIX e XX secolo, Lenin distinse tra il colonialismo nel suo senso tradizionale (appena considerato) e il vero e proprio imperialismo, in cui esistono pure rapporti di dipendenza tra paesi capitalistici già industrializzati, ma diversamente potenti; il problema non si pone dunque nei termini usuali di “sfruttamento” coloniale, legato al rifornimento di materie prime o prodotti agricoli alla potenza colonizzatrice e provenienti dal paese colonizzato, cui essi erano sottratti con la forza e non certo mediante contrattazione mercantile (nemmeno formalmente mercantile!). In questo senso, nel caso dell’imperialismo, si parla, più che di colonie, di sfere d’influenza. Una data potenza non occupa necessariamente i paesi della sua sfera d’influenza; non sempre, quindi, pretende d’installarvi una sua propria organizzazione amministrativa statale, e nemmeno di imporre in modo costrittivo la propria cultura, lingua, ecc.
In un certo senso, senza esagerare nell’assimilazione analogica dei diversi fenomeni, i rapporti tra Stati – e tra paesi i cui Stati servono pure da organi di “amministrazione degli affari generali”, tuttavia muniti di forza coercitiva onde orientare la riproduzione dei rapporti sociali secondo gli interessi dei gruppi dominanti ivi in conflitto fra loro – sono simili a quelli tra i possessori di merci nell’organizzazione sociale della produzione capitalistica. Detti “soggetti” sono “liberi ed eguali” sul piano formale della contrattazione; sono diseguali nella situazione reale di possessori di merci di natura differente: i mezzi di produzione (i capitali monetari, o assimilati a questi, necessari ad acquistarli) in mano a storicamente specifici gruppi dominanti e decisori, e la mera forza (capacità) di lavoro di chi ha soltanto questa “cosa” da vendere per vivere. Gli Stati, in situazione imperialistica, possono dunque essere formalmente eguali fra loro e apparentemente liberi nella contrattazione o meno – anche nell’assenza di contrattazione vi è apparente libertà tra i non contraenti – intesa a tessere i loro reciproci rapporti. In realtà, ben diversa è la loro posizione in termini di forza: sia in campo economico – relazioni di collaborazione o competizione tra i componenti (ad es. imprese e gruppi di imprese) dei sistemi economici dei vari paesi nel mercato “globale” – sia in quello politico per quanto riguarda una serie di altri accordi o disaccordi per stabilire alleanze o aprire un conflitto (sordo o manifesto), ecc.
All’apparenza – la ben nota apparenza reale, cioè nella superficie dei fenomeni – gli Stati sono più forti quando dispongono di apparati più efficienti; non semplicemente, anzi non tanto, nella cosiddetta amministrazione degli affari generali del paese, quanto nell’esercizio (non necessariamente attuale, è sufficiente la potenzialità) della violenza, in particolare per quanto riguarda quelli che la rivolgono all’esterno (attività “bellica”, sia pure in senso lato, per acquisire maggiore influenza in territori sempre più vasti), poiché è nell’uso di simili apparati che meglio si rileva la posizione di questo o quello Stato nell’ambito della rete dei rapporti di forza sul piano mondiale. Ancora una volta, è necessario ricordare che senza la “bruta materialità” dell’organizzazione detta Stato non sarebbe possibile alcuna effettiva attività volta a dimostrare il gradino su cui si colloca ogni singolo paese nella scala di detti rapporti di forza; con l’ovvia considerazione che, nei gradini più alti, si situano i paesi detti potenze, poi vi è una fascia di subpotenze e infine varie altre gradazioni quanto a forza.
Tuttavia, gli Stati sono comunque strumenti della politica nel suo senso di conflitto combattuto per la supremazia utilizzando tutta una serie di giochi strategici. E’ dunque alle strategie della politica che è indispensabile rivolgere primieramente la propria attenzione nell’analisi degli svolgimenti delle relazioni interstatali (tra i diversi paesi). Poi, senza dubbio, è indispensabile valutare se gli strumenti – Stati e, in generale, sfera politica delle varie formazioni particolari (di solito paesi) – sono adeguati a sostenere le strategie decise, cioè a svolgere una determinata politica sul piano mondiale o comunque in date aree in cui quelle formazioni intendono esercitare la loro influenza. Normalmente, l’attenzione degli analisti e studiosi delle relazioni mondiali si concentra sull’indagine intorno agli strumenti; e di solito sui più “superficiali” fra essi.
Sia chiaro che la “superficialità” maggiore o minore degli strumenti è riflesso degli strati della società in cui essi operano. Inoltre, tutti gli strumenti sono utilizzati nell’ambito di strategie del conflitto, quindi sono usati da gruppi differenti di individui – operanti a quel determinato livello (strato) della formazione sociale – in contrasto fra loro. La superficialità dello strato coinvolto nell’analisi implica l’errata attribuzione di importanza primaria, nell’evoluzione degli accadimenti, ad un gruppo di agenti che è in realtà il meno rilevante per i sommovimenti più decisivi di quella data società. Tipico il caso delle crisi, dette non a caso economiche. La società capitalistica vede in primo piano, come livello visibile (il più superficiale), la circolazione mercantile che, essendo generalizzata, non si effettua tramite baratto bensì con l’intermediazione del denaro, nelle sue varie figurazioni monetarie, ed equipollenti. La cosiddetta anarchia mercantile, provocata in prima istanza dalla competizione tra soggetti produttori di merci (dovrebbe essere invece indagata a livelli più “profondi”), implica spesso scoordinamenti, le crisi appunto, più o meno gravi e lunghe (e anche tale fatto mette sull’avviso circa la necessità di un approfondimento delle loro cause, avviso di solito inascoltato).
L’aspetto più superficiale della crisi, il primo a presentarsi alla “vista”, è logicamente lo sconvolgimento provocato nei mercati degli scambi implicanti il denaro. La crisi cui gli analisti più superficiali prestano attenzione è quindi quella finanziaria; e quelli che sono semplici strumenti usati in tale ambito competitivo – di tipo fondamentalmente monetario nei suoi vari aspetti – vengono invece considerati da simili analisti la principale causa della crisi. E’ invece come un’eruzione cutanea, che a volte presenta aspetti molto evidenti e fortemente fastidiosi, essendo magari segnale di altre malattie più gravi da cui sono affetti organi interni. La cute è tuttavia la più visibile, i suoi difetti sono immediatamente constatabili, il fastidio provocato da una sua irritazione è percepito con maggiore vivezza da chi ne viene colpito. Così tutti si precipitano addosso alla crisi finanziaria, agli strumenti escogitati da “cattivi finanzieri” che l’hanno provocata con le loro mene guidate da spropositati intenti di guadagno (chissà dove mai esiste il limite del guadagno “normale”, da considerarsi “etico”!), ecc. Ormai tutti sappiamo qualcosa di questa solfa, dopo quattro anni di chiacchiere insulse intorno ad una crisi provocata da ben altre cause.
5. Il conflitto tra gruppi dominanti (i decisori “d’ultima istanza”) è a mio avviso l’elemento più mobile e diffuso nella storia delle società. Vanno aggiunte però alcune rilevanti considerazioni. Intanto, tale conflitto si sviluppa all’interno di date aree geografiche e soprattutto sociali per conquistare il predominio e il governo (in senso generale, non quello strettamente istituzionale) di una data società, che è quella da me denominata formazione (sociale) particolare. A partire da un dato periodo – come ben si sa, la data fondamentale indicata nei libri di storia è il 1648, pace di Westfalia – tale conflitto è stato caratterizzato dal confronto tra quelle che si denominano nazioni (o anche genericamente paesi). Oggi, ogni nazione (ogni paese) rappresenta in genere quella che definisco una formazione particolare. Tuttavia, a partire dal periodo in questione è divenuto specialmente incisivo il conflitto tra tali paesi; o, più precisamente, tra i più forti d’essi, le potenze. Quest’ultimo conflitto è in un certo senso la derivazione, con duplicazione, di quello tra dominanti (decisori); e sfocia dunque in eventi bellici, le guerre, di particolare importanza. Le guerre non sono ovviamente un portato degli ultimi secoli, sono sempre esistite; tuttavia, con la formazione delle nazioni, ognuna delle quali rappresentata dall’insieme di apparati detti Stati – con alcuni di questi apparati addetti all’esercizio della violenza, repressiva o aggressiva, rivolta all’interno o all’esterno, ecc. – la guerra acquista i connotati dell’epoca moderna.
Il conflitto tra dominanti per la supremazia – con il suo andamento dalla politica (nel suo senso strategico più proprio) alla guerra (sua continuazione in altre forme) e viceversa – caratterizza in modo prevalente determinate, e lunghe, epoche della formazione sociale con riferimento a quella che indico come generale. Tali formazioni generali sono state definite dal marxismo secondo alcune grandi classificazioni: ad es. schiavista, feudale, capitalistica, ecc. Il conflitto tra dominanti di cui parlo – in atto nell’ambito di formazioni particolari divenute nazioni dotate dei propri Stati, ecc., conflitto che si svolge per il controllo del governo dello Stato e, attraverso questo, della nazione e che si prolunga in quello tra le nazioni (in quanto potenze) per la supremazia mondiale, conflitto politico punteggiato dall’esplosione delle guerre moderne – riguarda la formazione sociale generale di tipologia capitalistica, anch’essa probabilmente necessitante di ulteriori divisioni e periodizzazioni, che qui tralascio di indagare e fissare (non sarà del resto un compito troppo facile con i ritardi accumulati in proposito).
Il marxismo ha ritenuto preminente il conflitto tra quei dominanti e dominati, i cui ruoli sono stabiliti prevalentemente nella sfera economica (infatti si parla di rapporti sociali di produzione), pur se poi vengono combattuti nelle altre sfere (politica e ideologica) per la presa del potere nella società tutta, nella formazione sociale generale, sia che si tratti di quella schiavista o feudale o capitalistica, ecc. Quella capitalistica sarebbe dovuta essere (secondo Marx) l’ultima delle formazioni sociali divise in classi antagoniste; tralascio di considerare la questione, e gli errori insiti nello svolgimento marxiano (errori soltanto aggravati poi dai marxisti), poiché l’ho già fatto mille volte negli ultimi due decenni. Marx, in base alla presunta estensione a tutto il mondo di una forma generale capitalistica pressoché unica – le cui caratteristiche furono analizzate in base agli studi sulla nascita e affermazione del capitalismo in Inghilterra all’epoca della prima rivoluzione industriale – pensò all’unione di tutti gli “sfruttati” in detta società, la “classe operaia”, con formazione di quello spirito unitario (l’“internazionalismo proletario”) che, sia pure attraverso successivi passi della rivoluzione nei vari paesi del mondo, avrebbe infine transitato l’intera formazione sociale (generale) verso il socialismo (primo stadio) e comunismo.
In realtà, né nello spazio (mondiale) né nel tempo (lo sviluppo ultrasecolare del capitalismo con le sue varie trasformazioni), si è andati verso la generale omologazione delle formazioni sociali particolari. Sono rimaste le nazioni, quindi un conflitto (con la sua prosecuzione in guerra) che vede i gruppi dominanti lottare fra loro all’interno di ogni paese per il suo governo (sempre non nel senso meramente istituzionale, lo si tenga a mente); mentre poi tale conflitto non può non prolungarsi sul piano esterno (internazionale) pena la perdita di controllo del governo anche all’interno. Nel conflitto all’esterno si vengono formando filiere di preminenza in base alla formazione di “storicamente determinate” configurazioni dei rapporti di forza tra potenze (e subpotenze, ecc.). E’ in tale contesto che assume rilevanza anche il secondo tipo di conflitto (con il suo eventuale prolungamento nelle guerre) detto “coloniale” o, meglio ancora, per le sfere d’influenza.
Per lunghi periodi assume generalmente rilevanza una delle configurazioni dei rapporti di forza, che vede al primo posto – in una determinata estensione spaziale (al limite tutto il mondo) – una delle formazioni particolari (nazione, paese, potenza). La turbolenza in quella determinata estensione geografico-sociale – turbolenza che è economica (crisi finanziarie e produttive) o politica (con alcuni confronti bellici tra nazioni) – è relativamente contenuta. Il periodo storico è considerato sostanzialmente “di pace”; si diffondono ideologie di cooperazione generale e la convinzione che l’umanità si stia infine indirizzando verso la comprensione del comune interesse di ogni componente della formazione sociale mondiale. In realtà, questa “pace” non ha mai riguardato l’intero mondo; ed è stata dovuta (occasionalmente nella storia) alla presenza – in una certa estensione geografico-sociale a volte molto estesa: si pensi al campo capitalistico “occidentale” tra il 1945 e il 1989-91 o al campo mondiale, esclusi comparti dell’importanza della Cina e pochi altri, tra il 1991 e i primi anni di questo secolo – di un’articolazione sia economica che politica (e ideologica come rinforzo, nulla più che questo malgrado le favole raccontate dagli intellettuali, sempre fastidiosamente presuntuosi) caratterizzata dalla presenza di gruppi predominanti e subdominanti, disposti a strati in verticale (quanto a forza nell’ambito della politica, cioè dei conflitti strategici), nelle diverse nazioni (paesi) che fanno parte di quell’area relativamente (co)ordinata e regolata.
Tale situazione può storicamente durare per periodi variabili e non prevedibili se non con larghissima approssimazione. Tuttavia, è certa la predizione della loro fine e dell’inizio del multipolarismo e poi policentrismo con acutizzazione del conflitto e necessità di una resa dei conti finale; dove per finale si deve intendere un affrontamento teso a stabilire una nuova fase di solo relativo monocentrismo legata alla già rilevata articolazione dei pre e subdominanti nei diversi paesi di una determinata sfera d’influenza. Il policentrismo è appunto ciò che, a cavallo tra XIX e XX secolo, fu detto imperialismo. Questa è la condizione più “normale” del “mondo reale”, da noi conosciuto secondo modalità sulle quali pure mi sono più volte espresso in altre sedi. Tale mondo è sempre scosso dallo squilibrio incessante, il quale rompe ogni ordine e coordinamento, fa sì che ogni gruppo dominante, ogni nazione o potenza (e anche i subdominanti e le subpotenze nelle loro diverse stratificazioni), veda nell’azione degli altri un attentato ai propri interessi fondamentali.
Ogni lesione di questi interessi è considerata un’aggressione, cosicché si diffondono odî e prevenzioni che assumono generalmente un rivestimento ideologico. Ogni gruppo subdominante in fase di crescente consolidamento, ogni subpotenza in rafforzamento – che implica necessariamente l’estensione di una propria minore sfera d’influenza, per un certo periodo interna a quella della potenza centrale – sono vissuti dai predominanti e da detta potenza cardine dell’intera area come un attentato alle proprie condizioni di vita, fin troppo sovente “tradotto” nel linguaggio dell’aggressione ad una “superiore” civiltà, garanzia del “luminoso” progresso dell’intera umanità (ogni gruppo dominante, ogni nazione predominante, sempre credono in simili travestimenti ideologici). E se ne traggono le debite conclusioni e conseguenze. Inizia così l’acutizzazione del conflitto che sfocia poi nel policentrismo, fase che si conclude generalmente con il regolamento dei conti fra potenze.
6. Una delle più scialbe e inconsistenti tesi, sostenute negli ultimi anni dai meschini intellettuali dei gruppi subdominanti “occidentali” (in specie in Italia e Francia, dove il ceto intellettuale è il più degenerato di questa zona), è quella che predica la fine degli Stati nazionali e l’affermazione di una classe dirigente transnazionale, unita dalla lingua inglese e da comuni orientamenti culturali e di esperienza professionale. Come sempre, questa ideologia si presenta in almeno due versioni contrapposte: una di “destra” e una di “sinistra”, una apologetica e l’altra critica (blandamente o più radicalmente) rispetto al capitalismo. Da una parte, si sostiene la globalizzazione del mercato (da lasciare “libero”, senza intralci), nel cui ambito si sviluppa la competizione “virtuosa” tra i “produttori di merci”, tra le imprese, ecc.; una competizione basata – secondo tale mitologia – solo sul principio del “minimo mezzo”, quindi con costi e prezzi sempre migliori che favoriscono i “fiabeschi” consumatori delle teorie liberal-liberiste. Dall’altra, si sostiene l’esistenza di imprese transnazionali, i cui gruppi dirigenti sarebbero gli autentici nemici delle più grandi masse popolari, che sarebbero perciò spontaneamente spinte ad unirsi per resistere a questi loro sfruttatori.
Con lo sviluppo dell’ultima crisi (dal 2008), tale seconda tesi si è arricchita dell’idiosincrasia nei confronti della finanza. Le transnazionali sono divenute soprattutto massonerie internazionali che manovrano il denaro, sottraendosi al controllo degli Stati (creduti ormai arrivati al lumicino, semplici controfigure di quanto rappresentavano un tempo) e scatenando a piacimento le punte della crisi ora di qua ora di là. C’è chi pensa sufficiente il controllo di questi centri di potere, magari colpendone qualcuno e riformulando con maggiore rigore la regolamentazione dei mercati finanziari, con condimento di un rivolgimento morale che riponga al centro dell’attenzione l’acquisizione di una conduzione degli affari guidata dall’etica. Altri invece invocano la lotta ad oltranza contro i banchieri, contro l’intero mondo finanziario, identificando questa lotta con quella anticapitalistica per l’oltrepassamento dell’ormai “antiquata” forma di società, che continua invece imperterrita il suo cammino.
Ovviamente, vi sono poi appendici e corollari di tipo svariato; uno dei preferiti dagli pseudo-anticapitalisti in questione è quello dei limiti dello sviluppo, della decrescita, del rispetto della natura, ecc. Personalmente non ho alcuna particolare simpatia preconcetta per il progresso tecnico, ritengo ben lontani i miti dell’illuminismo e soprattutto del positivismo ottocentesco. Resto anzi sempre attento a non contrappormi semplicemente agli ipocriti della decrescita (o addirittura di una vita agreste e possibilmente medievale) con l’orgoglio delle grandi innovazioni degli ultimi decenni. Semplicemente, sono pienamente convinto che le scelte decisive sono sempre quelle delle strategie del conflitto, cioè della politica nel suo senso più proprio. In quest’ultima sono in contrasto gruppi dominanti con interessi divergenti, quasi sempre rivestiti di opportune ideologie. Ogni conflitto richiede alleanze; e non vi è dubbio che in queste sono presenti gruppi dominanti appartenenti a diverse formazioni particolari (paesi, nazioni, ecc.). Tuttavia, in esse vi sono i pre e i subdominanti, cioè una specifica configurazione del rapporto tra tali gruppi che non prescinde mai dalla formazione di una filiera di potere intercorrente tra i vari paesi delle alleanze stesse.
Inoltre, i gruppi dominanti del paese predominante nell’alleanza – e uno di questi gruppi, di fase in fase, prende il sopravvento e sembra rappresentare gli interessi generali di quel paese – non lottano “a mani nude”, né tanto meno con la sola forza dell’ideologia e cultura di cui sono portatori i loro ideologi (e che riveste i loro interessi). I gruppi in questione utilizzano invece pienamente apparati “materiali” sempre pronti e attrezzati, ove occorra, ad impiegare la violenza. Tali apparati, nell’epoca attuale, sono quelli degli Stati, non quelli della semplice attività economica e imprenditoriale (magari rivestita dell’ideologia della transnazionalità, la più ottusa e beota che ci sia in circolazione), tanto meno quelli delle manovre finanziarie; apparati, questi ultimi, già posti in condizioni di inferiorità laddove non siano sostenuti, sia pure nella sola sfera economica, dall’imprenditorialità industriale. La finanza, essendo caratterizzata dal flessibile e pronto uso della “liquidità”, appare per prima sul “palcoscenico”, è lo sconvolgimento di superficie, il terremoto, che in specifiche contingenze può certo pesantemente incidere sulla vita delle “comparse”, cioè della stragrande maggioranza della popolazione di una data società. “Dietro” o “sotto” (usate la metafora che più vi piace) sta l’attività dei “produttori di merci”, che non sono tutte eguali fra loro, poiché alcune hanno un carattere più “strategico” (pur anche soltanto economico) di altre. E “dietro” o “sotto” a tutto sta il vero esercizio di potere, quello degli effettivi predominanti, che lo sono per merito del controllo degli apparati della violenza (potenziale, da rendere attuale solo quando ciò diventi necessario).
Altro che fine della funzione degli Stati (nazionali, dei vari paesi o formazioni particolari)! Semplicemente, alcuni Stati appaiono più attivi di altri perché sono quelli più potenti in quelle date “alleanze”; in realtà, queste sono costituite da insiemi di paesi, i cui gruppi subdominanti all’interno sono subalterni a quelli predominanti del paese al centro e guida di ogni alleanza. Quando si ha effettiva (o quasi) equivalenza di potere fra i gruppi dominanti di più paesi, siamo allora entrati nell’effettivo policentrismo acutamente conflittuale. Le alleanze si fanno e disfano rapidamente, i cambiamenti di campo sono sempre più frequenti; la coagulazione in due schieramenti contrapposti si verifica solo alla fine, quando si rende inevitabile una resa dei conti (la guerra come continuazione della politica). Al termine di quest’ultima, l’alleanza uscita vincitrice non vede più una (quasi) equivalenza di forza fra i paesi che la formano; uno sarà predominante. Se così non fosse, si renderebbe assai presto necessaria una nuova resa dei conti (si analizzino bene le condizioni della prima e poi seconda guerra mondiale con gli eventi intermedi fra le due).
Liberato il campo dalle volgari menzogne di un ceto intellettuale sempre più infimo e inconsistente (vero cancro della nostra infelice epoca), riconsiderata realisticamente la funzione degli Stati con il loro differenziale di forza, soprattutto nella relazione tra gli uni e gli altri – funzione esclusivamente strumentale però, non in quanto Soggetti Supremi, rappresentanti la totalità astratta di una data società nazionale, bensì apparati utilizzati nella lotta tra gruppi e raggruppamenti in cui ogni formazione particolare è segmentata e stratificata, lotta di cui gli Stati sono sedimentazione pur dotata di permanenza più o meno lunga – procediamo oltre verso l’indagine del terzo tipo di conflitto, su cui l’ideologia si è particolarmente esercitata nella sua specifica funzione di opacizzazione e deformazione della realtà. Ricordando, tuttavia, che l’ideologia è mezzo ineliminabile del combattimento, è fondamentale nella formazione di blocchi sociali e sistemi di alleanze e per l’individuazione del nemico (in specie quello principale). Nessuna strategia (la politica) può illudersi di aggirare le ideologie e di abbeverarsi direttamente alla fonte del mondo vibrante e tumultuoso in cui siamo calati e svolgiamo le nostre attività; sempre scompaginate dal suo moto ondoso, dalle sue oscillazioni più o meno intense e più o meno ravvicinate o distanziate nelle loro punte alte e basse.