ASTRI NASCENTI, STELLE CADENTI, MINE VAGANTI (2a parte)
IL FERVORE DEL BUON PASTORE
Sono vessilli che trovano nella compagine di Cuperlo i campioni più accorati.
Tutti i documenti a sostegno del candidato esaminati, da quelli di Alfredo Reichlin ( http://italianieuropei.it/it/la-rivista/archivio-della-rivista/item/3159-il-partito-democratico-e-il-coraggio-delle-riforme.html , http://www.unita.it/polopoly_fs/1.508015.1372315872!/menu/standard/file/notecongresso19giugno.pdf ) a quello del gruppo di Bersani (http://www.fareilpd.it/fare-il-pd-idee-proposte-verso-il-congresso/ ), a D’Alema (http://italianieuropei.it/it/italianieuropei-7-8-2013/item/3100-la-politica-in-europa-e-leuropa-nella-politica.html), al documento ufficiale di Cuperlo stesso (https://docs.google.com/gview?url=https://s3.amazonaws.com/PDS3/allegati/Documento+congressuale+Cuperlo.pdf&chrome=true ) ne sono impregnati.
Tutti costoro riconoscono che la globalizzazione del mercato ha sancito la rottura dell’equilibrio tra la politica, ridotta alla capacità democratica di redistribuzione della ricchezza e acquisizione di diritti e l’economia, intesa come capacità di drenaggio, produzione e collocazione di risorse. Il dominio dell’economia sulla politica sarebbe legato alla diversa dimensione spaziale della azione rispettiva; la prima mondiale, la seconda ancorata ancora a logiche e ambiti nazionali. Il “grande nodo che sta mettendo nell’angolo perfino il presidente degli Stati Uniti: la debolezza della politica”. L’economia è ridotta, quindi, a “una branca della matematica e una tecnica per l’accumulo di ricchezze in gran parte fittizie”. Una “svolta “mercatista” che ha affidato a una ristretta oligarchia il diritto di manovrare liberamente i capitali e di inondare il mondo di debiti, creando così una colossale rendita finanziaria” manipolando a piacimento i mercati fuori da ogni controllo. D’Alema non vuol essere da meno rispetto a Reichlin “Oggi viviamo il tempo della globalizzazione e i processi di cui Antonio Gramsci aveva intuito la portata hanno ormai dispiegato la loro potenza ben oltre l’egemonia del fordismo e del modello americano. Nel tempo del capitalismo finanziario globale la crisi democratica legata alla perdita di sovranità degli Stati sembra essere giunta a un punto al limite di rottura” Un mondo, quindi, dominato da oligarchie parassitarie fonte di enormi diseguaglianze tra un gruppo sempre più ristretto di privilegiati ed una massa sempre più larga di poveri in grado di attrarre nel baratro settori sempre più larghi di ceti medi.
A voler essere maliziosi, ma paternamente comprensivi, si comprende umanamente da quale profondità di analisi sia scaturito il motivo per il quale questi reduci togliattiani abbiano provveduto a collocare tanta parte della progenie in quegli ambienti perversi e da quelli a loro volta selezionare i propri successori politici. Sarebbe sufficiente esaminare il curriculum di buona parte delle nuove leve, per far risaltare la stridente contraddizione.
Meritano invece decisamente minore tolleranza per le conseguenze nefaste di questa interpretazione dualista sulla fondatezza e completezza delle analisi e sulle scelte politiche che ne derivano ormai da lungo tempo.
Un dualismo dalle prospettive promettenti quando, con Marx, si è cercato di spiegare un aspetto essenziale dei rapporti sociali di produzione e di sfruttamento (estrazione di plusvalore) attraverso il conflitto e la cooperazione tra capitalisti e salariati nel corrispondente modo di produzione; ma che ha visto sbiadire sempre più la connotazione di queste due figure man mano che si pretendeva di spiegare i conflitti e le vicende politiche del mondo sulla base di questo dualismo e di profetizzare che una parte del polo, il capitalista, si sarebbe ridotta a pochi percettori di rendite e l’altra estesa alla quasi totalità della popolazione. Man mano che la complessità delle formazioni sociali e dei rapporti tra di esse cresceva e scalpitava dentro quelle gabbie interpretative, negli ambienti “progressisti” pur di mantenere la comoda visione dualistica, si preferiva sfocare le figure polari, piuttosto che aggiungere e cambiare chiavi di lettura.
Dalla contrapposizione salariati/capitalisti si è passati, via via nei decenni, a quella tra sfruttati e sfruttatori, padroni e lavoratori, redditieri e produttori, poveri e ricchi sino alla riproposizione evangelica, riproposta dall’ultimo Reichlin, tra ultimi e privilegiati, anche se ancora con il fragile paravento di valore rievocativo.
Le implicazioni negative di questa semplificazione sono numerose e sempre più pesanti.
Impediscono di cogliere la natura dei conflitti e delle relazioni tra gli stati, i paesi, le formazioni sociali e i centri strategici all’interno di essi e tendono a rimuovere i retaggi storici, culturali e le strategie politiche che vanno oltre i meri interessi economici. Per costoro, infatti, il campo di azione politico e istituzionale ottimale dovrebbe coincidere con il campo di azione economico, il mercato; essendo questo ormai globale, anche il governo dovrà essere mondiale. D’Alema infatti chiosa “Eppure l’Europa ha rappresentato e rappresenterebbe ancora il tentativo più ambizioso di costruire una unione politica in grado di dare una risposta democratica alla crisi della sovranità degli Stati; in grado cioè di produrre (per riprendere un’espressione gramsciana) l’esperimento più avanzato di “cosmopolitismo della politica” che sino ad oggi sia stato tentato nella storia umana”. L’ambizione diventa, quindi, quella di creare una forza politica mondiale capace di perseguire l’obbiettivo e contrapporsi e regolare questi poteri oligarchici; la conseguenza immediata consiste nell’individuare nelle forze politiche mondialiste del paese dominante, in questo caso il Partito Democratico di Obama, il punto di riferimento e nelle forze politiche e negli stati che cercano di riaffermare la propria sovranità e indipendenza, quantomeno una maggiore autonomia, le componenti inconsapevoli se non retrograde, antistoriche.
Con ciò si evidenziano due limiti interpretativi fondamentali che stanno imprigionando l’attività politica dei progressisti: il mercato, quindi l’economico, come ambito sovradeterminato e prioritario dell’azione degli stati; lo stato come regolatore e garante del bene e delle relazioni pubbliche. Il mercato come campo prioritario e tendenzialmente esclusivo di azione; lo stato come arbitro e giudice. Le conclusioni seguono conseguentemente una precisa direzione; si riduce il conflitto politico tra centri ad esclusiva tendenziale competizione economica, quando è lo stesso ambito economico ad essere sempre più pervaso di competizione politica e strategica; si tende a ridurre ad unico i vari mercati, con regole diverse, che si sovrappongono secondo le congiunture; lo stato passerebbe da allenatore in campo di una squadra a giudice arbitro sovrano su un unico campo; le istituzioni statali passerebbero dallo stato di strutture dotate di logiche ed interessi propri frutto dei conflitti di centri in competizione politica a quelle di organismi neutri sovra determinati in base al consenso democratico. La conclusione probabile di tanta astrazione sarà il ritorno probabile della “fine della politica”. Ci sta arrivando Habermas nelle sue congetture sempre più spinte, lo seguiranno gli scopritori del nuovo mondo man mano che identificheranno sempre più il bene comune con gli interessi del dominante di turno.
La sindrome idolatrica da cui è colto l’intero gruppo dirigente del PD ha infatti raggiunto livelli patologici (http://www.conflittiestrategie.it/gli-idolatri). Un approccio del tutto complementare ai ricorrenti movimenti globalisti impegnati a ingaggiare duelli contro i mulini a vento, spesso con la bonaria comprensione e il sostegno delle varie fondazioni filantropiche.
Ad una interpretazione piatta del contesto internazionale corrisponde un progressivo appiattimento e semplicismo di quella nazionale. Il problema di fondo è la contrapposizione tra il 10% di popolazione ricca ed il 90% di quella povera. Il nodo di fondo diventa quindi la povertà, l’obbiettivo una mera redistribuzione della ricchezza. Siamo lontani ormai dall’alleanza dei produttori e dall’ambizione di costruire una parvenza di società alternativa; siamo alla contrapposizione, nel migliore dei casi, tra ricchi e poveri. Reichlin, forte delle sue reminiscenze togliattiane, tende a riproporre la costruzione di un blocco nazionale, di una identità contrapposta al blocco parassitario dominante sulla falsa riga della via nazionale al socialismo. La ripetizione dello stesso errore commesso a partire dagli anni ’50 dal PCI il quale vedeva nella rendita fondiaria e nella stagnazione l’assillo di un paese che stava avviando invece il miracolo economico sulla base di uno sviluppo industriale complementare e di un allineamento geopolitico scaturito da una sconfitta militare. Altri, privi di quel bagaglio culturale, si limitano a centellinare la distribuzione delle risorse su basi sempre più filantropiche.
Il risultato è, comunque, identico; poiché il bersaglio grosso delle grandi rendite è evanescente o irraggiungibile, alla fine la redistribuzione avviene secondo criteri prevalentemente assistenziali a scapito dei percettori medi di reddito, in particolare di quelli professionali e produttivi;di conseguenza, si alimentano le contrapposizioni e le rivalità tra i vari frammenti della società piuttosto che la costruzione di una prospettiva per il paese. Anche la stratificazione sociale viene definita quasi esclusivamente sulla base del reddito, piuttosto che sulla funzione e sul ruolo. In mancanza di un progetto in grado di definire il ruolo politico del paese, l’organizzazione statale necessaria, i settori necessari a creare le risorse per queste politiche non ci si pone nemmeno il compito di individuare e costruire il blocco sociale su cui costruire l’identità del paese. Da qui l’atavica incapacità di penetrazione in gran parte dei ceti medi professionali. (http://www.conflittiestrategie.it/il-groviglio-dei-ceti-medi-di-giuseppe-g ). Paradossalmente da una parte si contribuisce ad allargare la base della piramide distributiva del reddito, dall’altra si favorisce la difesa corporativa e di ceto degli strati intermedi abbarbicati comunque alla loro funzione e ruolo. In tempi di precarietà e di livellamento al ribasso dei redditi, il mantenimento del proprio status e della propria collocazione professionale, specie tra i lavoratori indipendenti, dipende dai circuiti familiari, dall’adesione a lobby associative piuttosto che dal dinamismo individuale. Nelle stesse grandi aziende, specie di servizio, e nei centri amministrativi, la prevalenza sempre più marcata dell’obbiettivo immediato rispetto alla strategia di lungo termine, determinata dalla composizione proprietaria delle aziende, dalla subalternità strategica, dall’adozione di modelli di gestione aziendali antiquati sta sempre più dissociando la competenza professionale dal riconoscimento economico di esso, tutelando, tutt’al più quegli strati intermedi sempre più ridotti legati all’esercizio del potere e dell’autorità. Sono temi completamente avulsi dal dibattito di un partito sempre più lontano dai nuclei sociali portanti della formazione e per questo destinato, nel migliore dei casi, ad un ruolo di compartecipante.
Nei documenti non mancano certo le affermazioni riguardanti la priorità del lavoro, in particolare di un lavoro stabile e dignitoso; qua e là si riafferma la necessità di una politica industriale. Sono, però, dichiarazioni retoriche, avulse dal contesto. Nel paese occidentale del trionfo del lavoro nero, il problema si riduce alla determinazione giuridica del rapporto di lavoro; pur di non rimettere in discussione la regolazione comunitaria dei mercati, i criteri di utilizzo ed erogazione dei fondi europei, si spacciano per politica industriale semplici e generiche agevolazioni fiscali e incentivazioni, appelli allo sviluppo della ricerca, della scuola e così via. Nessuna parola sulla creazione di grandi piattaforme industriali, sulla salvaguardia delle grandi industrie strategiche in funzione della politica estera, della forza del paese e dei suoi standard di vita, sullo scempio di risorse avvenuto nell’energia solare ed eolica, su una pur minima distinzione seria tra settori strategici, settori complementari vitali alla coesione del paese e allo sviluppo della domanda e delle attività; tutt’al più tristi lai ipocriti ad ogni dipartita annunciata, ma sempre corroborati dalla venerazione delle virtù del mercato.
L’unico metro dichiarato di valutazione è la salvaguardia dell’occupazione delle aziende; un po’ poco per un gruppo dirigente con qualche ambizione per il proprio paese.
In proposito risulta particolarmente illuminante un documento ufficioso scaturito probabilmente dalle file interne di Finmeccanica in quota PD, già commentato tempo fa da Gianni Petrosillo sulla nostra testata.
LE ASPIRAZIONI NASCOSTE DI LISA JEANNE
http://www.nens.it/zone/pagina.php?ID=8&ID_pgn=808&ctg1=Analisi&ctg2=Nessuna
http://www.nens.it/zone/pagina.php?ID=8&ID_pgn=809&ctg1=Analisi&ctg2=Nessuna
http://www.nens.it/zone/pagina.php?ID=8&ID_pgn=810&ctg1=Analisi&ctg2=Nessuna
Non voglio deludere le aspettative e la curiosità dei lettori, ma dietro quel cognome così rievocativo non si celano le grazie di alcuna studiosa di Sciences Po.
Con le chiavi interpretative adatte, delle quali l’estensore non appare per altro dotato, quel documento rivela che le aziende strategiche agiscono in funzione delle strategie e delle potenzialità politiche di un paese e della relativa collocazione gerarchica nel contesto internazionale; che aziende di queste dimensioni, in particolare attive in settori strategici, sono esse stesse veicolo di politica; che all’interno stesso delle aziende assume un ruolo essenziale la gestione politica dei gruppi, dei sistemi operativi e delle relazioni tese al conseguimento anche dei risultati economici; che in particolari forme di subordinazione, essa stessa diventa una particolare forma di finanziamento del paese dominante e di integrazione produttiva subordinata del paese di rango inferiore; che un gruppo manageriale lasciato a se stesso tende altrimenti a ricercare autonomamente il sostegno politico e l’inserimento in determinate strategie, specie del paese dominante (contatti diretti con il Pentagono); in subordine o contestualmente, nel caso riesca a mantenere i legami con i centri strategici originari, specie se di un paese politicamente periferico e subordinato, tende invece a presentare come strategici e meritevoli di sviluppo settori in realtà secondari. È esattamente quello che auspica il “pulzello” di Finmeccanica sotto mentite spoglie, probabilmente per assecondare le proprie ambizioni personali.
Le modalità legate ai settori operativi, agli assetti proprietari e alle dimensioni cambiano, ma le dinamiche purtroppo sono identiche in altre aziende rilevanti, in particolare l’ENI.
L’unica dialettica che investe il partito riguarda la divergenza tra i totalmente indifferenti al regime di controllo delle grandi attività industriali (Renzi) e coloro che vogliono salvaguardare almeno la gestione e il controllo delle reti interne del paese e di settori collaterali emergenti (trasporti, energie alternative e poco altro), rappresentati da esponenti come Fassina, ma pronti a sacrificare anch’essi il resto. Si tratta, comunque, di battaglie difensive, senza alcuna capacità di coagulare attorno a queste realtà un’adesione politica più ampia e di innescare cicli economici positivi, senza la forza per avviare collaborazioni internazionali paritetiche.
Una dialettica, quindi, poco interessante dove la componente più dinamica, quella liberale di Renzi, sembra ben attrezzata a distruggere, ma con poche possibilità di costruzione. Come già avvenuto tra i socialisti francesi e soprattutto nella SPD tedesca, la componente similsocialdemocratica italiana ha perduto larga parte dei legami amministrativi e politici con settori produttivi e gestionali; quegli stessi settori, tra l’altro, sono stati ampiamente ridimensionati e indeboliti dalla colonizzazione della rete distributiva commerciale italiana e dalla collusione con gli avversari politici interni ed esteri di un tempo; ha conservato soprattutto i legami con le strutture associative e assistenziali, dal potere contrattuale quindi largamente indebolito. Da qui il carattere prevalentemente redistributivo ed esortativo, quindi prevalentemente contrattuale e subordinato, del proprio programma. Una caratteristica distante dalla connotazione del sindacato e del militante PCI degli anni ’60 e ’70.
Vedremo gli sviluppi sino a dicembre di questa campagna delle primarie.
La convenzione nazionale del 24 agosto ha intanto evidenziato lo spessore dell’intero gruppo dirigente uscito sconfitto dalle ultime e penultime elezioni politiche; tutti rumorosamente defilati, assenti. Per non danneggiare Cuperlo, la loro priezione, per confidare in un ingresso dalla porta di servizio, dopo qualche mese di logoramento.
Il conflitto più violento e più sordo in realtà si sta svolgendo in maniera apparentemente estemporanea sotto traccia tra Renzi e D’Alema, un personaggio da tempo fuori da ogni incarico ufficiale di partito, ma che detiene ancora, attraverso soprattutto la sua fondazione, le redini fondamentali dei contatti con la socialdemocrazia tedesca e soprattutto con le componenti clintoniane del partito democratico americano; una relazione esclusiva che Renzi è andato a insidiare evidentemente con qualche successo, vista la qualità e l’intensità degli incontri propedeutici da lui ottenuti con altri ambienti democratici americani nelle estati scorse.
Si sa che a tanta confusione, nel nostro paese corrisponde altrettanta possibilità di scelta di opzioni politiche da parte dei nostri supervisori d’oltreatlantico. Il problema è che sono opzioni ancora fragili e provvisorie le quali, purtroppo, lasciano spazio a vere e proprie azioni destabilizzanti nel caso dovessero sorgere forze organizzate autenticamente sovraniste. La frammentazione attuale del paese e delle sue istituzioni, purtroppo, sono un ottimo viatico e offrono un campo aperto a tali iniziative.
Di queste altre opzioni parlerò nella terza parte dell’articolo con un convitato di lusso a cui è stato ormai sottratto, come prevedibile, il posto di riguardo a tavola ma che pare disposto ancora a banchettare nelle sale laterali sempre più prossime all’uscita del retrobottega almeno sino all’epilogo drammatico per lui, assolutamente tragico per il paese.