QUARTO POTERE, di GLG

E’ piuttosto lungo, ma non richiede alcuna preparazione “specialistica”. Non parlo certamente da vero critico cinematografico (non me ne intendo troppo di tali problemi), ma cerco di afferrare il significato del film dal punto di vista di quella che è la vita in generale. Ho ovviamente una mia visione specifica, che tuttavia è del tutto comprensibile anche da parte di chi può divergerne su più punti. Un paio d’anni fa (o forse più) avevo pubblicato queste considerazioni. Qui sono però state riviste e abbastanza consistentemente ampliate.

DISCUTENDO DI QUARTO POTERE

“Quarto potere” (“Citizen Kane”) di Orson Welles è uno dei tre film da me preferiti, assieme a “La corazzata Potemkin” (il capolavoro di Eisenstein, gustosamente definito da Villaggio-Fantozzi “una boiata pazzesca”) e “La grande illusione” di Renoir. Certamente, giudico appena staccati di un’incollatura altre decine e decine di capolavori o comunque di gran bei film (del muto come del sonoro, in bianco e nero o a colori), che non elenco per l’impossibilità di ricordarli tutti; nemmeno la metà e ancora meno di così.
Parlerò qui appunto di “Quarto potere”, film assolutamente grandioso del 1941 interpretato dallo stesso regista (notevolissimo pure nella recitazione) e da una folta schiera di altri più che ottimi attori, fra i quali ricordo: Joseph Cotten, Everett Sloane, Dorothy Comingore, Agnes Moorehead, Paul Stewart, Ray Collins, George Coulouris, Ruth Warrick. Tutti inghiottiti dalla “Notte Eterna” e che pochi lettori, temo, ricorderanno ancora.
Come al solito, in youtube non si trova quasi nulla di questo giustamente famoso classico. E tanto meno il film intero. Ho recuperato una recensione non male, almeno secondo la mia opinione:

L’ho riportata soprattutto perché illustra alcuni aspetti tecnici che non saprei nemmeno ripetere dopo averli ascoltati attentamente. Non sono un intenditore in grado di espormi in simili disquisizioni. Capisco che vi è “dietro” quest’opera la lezione dell’espressionismo tedesco, mi rendo certamente conto della sua enorme potenza espressiva, ma mi soffermo esclusivamente sul suo significato generale o su quello di determinate scene.
Prendiamo, ad es., la sequenza in cui la bibliotecaria accompagna il giornalista, incaricato di indagare sulla vita di Kane, in un’amplissima stanza e gli porta tutto l’incartamento riguardante le notizie relative al magnate. L’immagine è scarna ma desta una forte impressione. Tuttavia, essa soprattutto evidenzia l’irrealizzabilità del compito, che schiaccia chi vi si accinge. Impossibile sceverare un’intera esistenza nel suo effettivo svolgersi, pur tramite una gran massa di documenti da consultare in un tot di tempo ben stabilito. L’epilogo, il giornalista che ringrazia e se ne va, sottolinea come tutta la lettura, di alcune ore, abbia appena scalfito il senso di quella vita.
Poi il giornalista si reca a trovare, via via, le persone che più erano state vicine a Kane e, progressivamente, capiamo quanto illusorio fosse il tentativo di riuscire a inquadrare la complessità, contraddittorietà, perfino incoerenza, della sua personalità. E non perché costui sia un mentitore; anzi è nell’insieme sincero nel suo percorso destinato al successo e alla grandiosità della magione che si è costruita su una altura isolata, giusto a sottolineare l’elevatezza e la perfetta solitudine del magnate. E’ proprio il vivere – implicante complicate relazioni con altri intrise di amicizia e malevolenza, di colpi bassi e adorazioni fin troppo prive di dubbi – a impedire che di quest’individuo si sappia chi realmente è stato. Nemmeno lui riesce a capirsi. Del resto, nessuno apprende gran che di se stesso poiché siamo tutti presi dall’agire, dal provare sentimenti contrastanti, dal calcolare razionalmente i risultati di certe azioni, dal perseguire dati obiettivi che spesso mutano di posizione (spazio-temporale) e inducono contraddittorie convinzioni; ecc. ecc.
Nella scena iniziale come alla fine compare l’immagine di quella sorta di Castello e, in primo piano, il cancello con la scritta “no trespassing” (non oltrepassare, vietato l’accesso). Se non ricordo male, nella recensione la s’interpreta quale definitiva sottolineatura di quanto sia preclusa agli altri una non effimera conoscenza di un qualsiasi essere umano. Non si è in grado di oltrepassare determinati limiti nell’approfondire i caratteri di una personalità, perfino della più semplice; figuriamoci quella di “citizen Kane”. Eppure, non credo che quella scritta si limiti a porre l’accento su tale aspetto. Sullo sfondo vi è la cupa, scura (perché notturna), presenza del “mausoleo” fattosi edificare dal protagonista, presenza tesa secondo me a segnalare qualcos’altro di ancora più rilevante. La potenza e ricchezza di un individuo sono intrise di solitudine e distanza dagli altri; con la giovialità e il dialogo intenso e amichevole, con l’apertura a reali incontri e vicinanze, non si giunge ai risultati voluti e acquisiti da Kane. Non vi è alcuna prospettiva di oltrepassare il recinto che il potente, perfino quasi inconsapevolmente, dispone attorno a sé, separandosi così dai possibili stretti interlocutori. Resta solo la (magra) consolazione, quando gli va bene, d’avere seguaci, ammiratori, fedeli credenti nelle sue virtù di fatto inesistenti. Nessuno oltrepassa il cancello che divide gli altri dall’uomo che è o si pensa “superiore”. Ne riparleremo alla fine.
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Veniamo all’idea forse più rilevante del film, al suo significato più profondo. Proprio nei primi minuti della vicenda, poi raccontata in una sorta di lungo flash-back, il protagonista muore e, nel mentre dalla sua mano cade un pallina di vetro con dentro un volteggio di fiocchi di neve, pronuncia la parola “rosebud” (mi rifiuto anch’io, come il recensore, alla traduzione italiana con rosabella). La parola viene incidentalmente udita da chi entra nella stanza e diventa il tormentone del film. Vi è anche un’altra fondamentale scena quando Kane ormai vecchio resta solo e in un accesso di rabbia distrugge mobilio e oggetti vari in alcune stanze del suo “mausoleo”; ad un certo punto gli capita tra le mani la solita pallina di vetro e immediatamente la sua ira scema e fa luogo ad una triste, perfino cupa, calma nel mentre anche in quella contingenza pronuncia “rosebud” nel mentre arriva, al rumore dello sfracello da lui fatto, l’intera servitù con il maggiordomo in testa, che evidentemente coglie il suono di quella espressione per lui incomprensibile.
Da qui, dall’intento di scoprirne il significato, si sviluppa in fondo tutta la vicenda filmica in una serie di ricerche giornalistiche e di interviste a coloro che gli erano stati più vicini, tutte tese ad approfondire e portare a conoscenza del pubblico la reale personalità del magnate deceduto. Si crede che appurando chi è o che cos’è “rosebud”, si riuscirà a metterla a nudo almeno in buona parte. Nessuno fra i conoscenti e amici di Kane aiuta a chiarire il mistero, che si svela invece allo spettatore del film poiché una delle scene finali mostra come vengano buttati nel fuoco molti degli innumerevoli oggetti da lui raccolti durante la vita; quasi mai ordinati, semmai affastellati in grandi mucchi. Ed ecco apparire una slitta, di quando Kane era bambino, sul cui fianco è incisa la scritta “rosebud”:

Essa brucia per tutti quelli che stanno rovistando nella vita del magnate, ma non prima di essere vista da chi assiste alla proiezione del film. Ed è fatto di estrema incisività, e vi ritorneremo, la progressiva scomparsa di quella parola, dissolta dalle fiamme, su cui insiste un primo piano sufficientemente lungo da far capire che lì si annida un evento decisivo e condizionante la sua vita. Il discorso qui si complica. Inserisco un’altra scena del film, del tutto cruciale per il suo “messaggio”, indispensabile all’inizio di una ricostruzione, sia pure per sommi capi, della vita di Kane:

E’ in inglese; grosso modo ricordo quel che vi si dice ma ammetto che, se non avessi visto il film in italiano, non capirei gran che dell’intera discussione. Credo però che il suo senso si colga per sommi capi. Il ragazzo ha una madre estremamente determinata mentre il padre è un debole, che alla fine si adegua ai voleri della moglie. Questa desidera un gran futuro per suo figlio e, avendo ricevuto un’eredità, ne cede la gestione ad una società guidata dall’uomo che sarà sempre in contrasto con Kane. Il ragazzo dovrà abbandonare la sua residenza di montagna, quasi isolata, e andare in un Collegio dove lo istruiranno a diventare qualcuno di molto diverso e soprattutto lontano dal “cattivo esempio” paterno. La madre firma il contratto – e con parole secche rivolte al marito che tenta all’inizio una debolissima resistenza – e poi chiama il figlio tutto intento ai suoi giochi con la slitta sulla neve che ricopre, assai profonda, l’intero ambiente cicostante.
In modo asciutto, che non annulla la sensazione dell’affetto da essa nutrito, gli annuncia il termine della sua infanzia; egli dovrà allontanarsi da lei e seguire “quell’uomo”, che tenta anche di rendersi simpatico al fanciullo. Niente da fare, si osservi lo sguardo duro e nemico di quest’ultimo contro l’intruso nella sua vita spensierata, arrivato proprio mentre giocava nella neve, nell’ambiente in cui è nato e cresciuto fino allora. Egli chiede alla madre se lo seguirà; la risposta è negativa e il suo odio verso quell’uomo cresce. Così gli si avventa contro e lo respinge, proprio usando la sua slitta. Alla fine viene neutralizzato, la slitta gli sfugge di mano e il suo destino si compie. L’ultima immagine è quella slitta da sola ferma nella neve, ormai abbandonata anche se sarà evidentemente poi recuperata e messa tra gli oggetti che Kane conserva e che verranno bruciati alla sua morte.
L’interpretazione più semplice dell’ultima parola – “rosebud” – pronunciata dal magnate nel supremo momento del trapasso è che egli ricordi quel momento cruciale della sua vita, in cui ha dovuto abbandonare la spensieratezza dell’adolescente e si è compiuta la rottura verso la sua futura, ma solitaria, grandezza. Il recensore prende il fatto come ulteriore dimostrazione che una parola non può servire a spiegare la vita di un uomo, il suo reale destino. Vero, ma limitato. Una persona a me molto cara, il mio Maestro (un mio secondo padre), durante l’ultimo dolorosissimo attacco al cuore che lo portò alla morte in pochi minuti, invocava con quel che gli restava di fiato sua madre, a quanto mi si disse. Quel grido strozzato non illustra la vita dell’uomo, ma non è certo senza significato (e di che rilevanza); ci rivela quale legame (molto comune fra gli umani) fosse principalmente impresso nella memoria del morente. E anche per Kane, la slitta gli ricorda intanto proprio la madre e il momento supremo della separazione definitiva da lei. L’ultimo pensiero, prima dell’addio alla vita, fu per la neve di quel giorno fatale e per la slitta con cui giocava e poi si difendeva dal destino arrivato, sotto forma di un individuo del tutto sconosciuto e subitamente odiato, per separarlo dalla persona a cui lo legava l’affetto di gran lunga più importante nutrito durante tutta la sua esistenza.
In definitiva, un solo ricordo non spiega la vita, ma ci fa conoscere il sentimento più profondo e costante che alberga in Kane e che irrompe imperioso quand’è alla fine. Evidentemente, chi era alla ricerca di notizie del tutto superficiali, e magari segrete, sulla sua esistenza d’uomo spesso presente nelle cronache dei giornali e notiziari, bramava soltanto scoprire qualche retroscena piccante. Ed è allora evidente che “rosebud”, anche se si fosse appreso che cos’era, non avrebbe spiegato alcunché; avrebbe anzi deluso al massimo grado i chiacchieroni interessati al pettegolezzo e alla notizia da cinegiornale. La parolina ci rivela tuttavia che la spinta emotiva in lui dominante non era l’arraffare potere e denaro, come poteva sembrare ad una superficiale considerazione delle sue motivazioni; questo scopo fu in definitiva realizzato, forse non coscientemente, per non deludere la madre, da lui separatasi pur di evitargli una misera sorte simile a quella dell’imbelle padre.
Tale pensiero penetra la sua mente – o forse soltanto galleggia in una sorta di nebbia – nel momento in cui la sua vita si compie, si perfeziona con l’ultimo atto. Qualcosa di non consapevole per lui è però raffigurato, simboleggiato, in quella slitta; ed è più importante ancora del sentimento che lo pervade nell’attimo finale della sua esistenza cosciente. Guardate bene la scena del ragazzo che respinge con violenza l’uomo venuto a prelevarlo, spingendogli la slitta contro la pancia e facendolo cadere a terra. Non vuole andare con lui; e lo strumento dei suoi giochi ancora infantili gli serve per fargli male e allontanarlo. Quello strumento finisce sperduto nella neve; evidentemente è stato recuperato, ma quale oggetto da ammucchiare in una montagna d’altri poiché Kane adulto raccoglie un po’ di tutto quasi maniacalmente.
La slitta, lo strumento usato nel rifiuto, viene posta in primo piano solitaria e abbandonata nell’ultima immagine di quella scena cruciale. Secondo me, il regista vuole farci capire che il carattere del fanciullo, già potenzialmente pronto a ciò che poi diventerà, è andato (non consapevolmente) oltre la ripulsa e la ribellione insorte per il triste evento della separazione dalla madre. Non c’è volontà né strumento in grado di opporsi ad un destino segnato dalla sua superiore capacità di emergere e dominare rispetto a tutti quelli che poi lo attornieranno nella vita, quelli visitati dal giornalista. Dal loro interrogatorio, per quanta simpatia o antipatia possiamo provare per simili personaggi, ci rendiamo ben conto del loro essere soltanto di contorno, delle comparse nella vita d’un grande, condannato da questa sua superiorità alla solitudine e ad essere colto, alla fine, da un ultimo momento di nostalgia che lo riconduce alla madre e al dolore della divisione da lei.
Direi che tutto il film ha scene eccezionali, ma certamente una delle più dense è quella finale che dura due minuti e mezzo. Vi è questa immane raccolta di oggetti durata evidentemente per tutta la vita di potente di Kane (quand’era ragazzo di sicuro non raccoglieva nulla). Sembra quasi che lo facesse per rendersi sicuro di ciò che stava vivendo e facendo. E il fatto che questo autentico “patrimonio di vita” venga messo al rogo ha un significato; malgrado non sia esplicitato e anzi nemmeno voluto, consapevolmente, da chi lo ordina. E’ come se si intendesse distruggere ciò che invece resterà comunque; e per il tempo dovuto, nulla più di quanto la memoria umana è capace di rammemorare. Il ricordo del “grand’uomo” non dipende affatto da quegli oggetti; e quando esso sarà completamente sbiadito, anzi cancellato progressivamente, esattamente come la scritta “rosebud” dalle fiamme, nessun essere umano delle future generazioni, anche se avesse potuto vedere l’immensa raccolta rimasta intatta, sarebbe stato in grado di riandare dalla distesa di oggetti, ormai muti, all’uomo che li aveva raccolti e custoditi. E lo stesso accade con tutti i documenti e le foto, ecc. che un qualsiasi vivente accumula nella sua vita. Non diranno alla fine nulla di lui, ma hanno una qualche importanza per la storia, in quanto sono segno di certi tempi ormai ignorati nella loro più complessa ed eccitante vivezza, quella che spinge appunto gran parte di noi a raccoglierli e conservarli.

Egualmente intensi sono gli ultimi 45 secondi. Riappare, come all’inizio, l’immenso palazzo, simile quasi ad un castello, visto dal sotto in su sulla cima dell’altura e con il camino che fuma nero intenso, il segno di quel dare alle fiamme che sembrerebbe voler dire che quell’uomo, se fosse vissuto in altra epoca, avrebbe forse meritato il rogo per la sua presunzione e il non mai cedere all’umiltà richiesta imperiosamente dalla religione (pur se spesso ignorata dai suoi massimi cultori e “amministratori”). E tuttavia, anche l’immagine di quella grande e cupamente tetra dimora sancisce in modo vivido e a mo’ d’incubo la solitudine del suo abitatore, potente ma deluso nelle sue mai godute gioie e sincere amicizie, nei suoi amori che disperde per incuria e congenita incapacità di alimentarli; esattamente come la gelida madre, da lui tanto amata e da lei altrettanto ricambiato, ma con modalità molto ben rappresentate da quei giochi solitari nella neve ghiacciata dove solo la slitta fatale gli consentiva di muoversi agilmente.

Ed infine la scritta, anch’essa evidenziata in modo molto espressivo all’inizio, con quel “no trespassing”, che è per certi versi la chiave del film. Banalmente, la scritta rappresenta la decisione di una persona di non voler essere disturbata e la minaccia verso chiunque venga con l’eventuale intenzione di furto o altra molestia poco gradita. In realtà, il suo senso è ben più profondo: l’assoluta impossibilità di penetrare la vita di un simile personaggio destinato – per sua fortuna o invece sciagura? – al successo, alla ricchezza, al comando. Deve essere solo lui a decidere quando vorrà essere in contatto con un qualsiasi altro; nessuno deve immaginarsi di entrare con lui in relazione, amichevole o anche di semplice conoscenza, se non dietro suo espresso desiderio o consenso. Anche l’amore è di sua esclusiva scelta. In ogni caso, bisognerà sempre chiedergli il permesso di “entrare”, mai prendere l’iniziativa di un qualche passo nella sua “proprietà”; poiché tutto, compresa la sua stessa personalità, è sottomesso al suo imperio e pervasivo controllo. Questo esclude una reale amicizia o amore, che implica intreccio e reciproco aprirsi all’altro. No, “no trespassing”, ogni avvicinamento avverrà solo quando, dopo opportuno “bussare del visitatore”, il “padrone del Castello” (della propria vita) vorrà “aprirgli il cancello” avendo modo di controllare, sospettoso, i suoi passi. E così, non ci sarà mai vera amicizia, vero amore. Tali sentimenti saranno sempre custoditi, intangibili e senza remore, a favore della madre; che pur essa, tuttavia, è in fondo il sogno di una felicità solitaria nella neve con la sua inseparabile slitta. E’ questa a rappresentare l’autentico mezzo per giungere alle vette di godimento da lui autenticamente desiderate. Ed è da essa che viene in realtà brutalmente separato; e la slitta resta “laggiù” solitaria come solitaria sarà ormai la sua vita. Non importa che la recuperi nell’enorme raccolta di oggetti cui si dedica con massima superficialità e senza distinzione fra di essi. Allora la slitta diventa solo un oggetto fra gli altri, salvo che nel momento supremo del “trapasso”, in cui essa sembra ridiventare simbolo della separazione dalla madre amata. Nemmeno questo è completamente vero. Si tratta in buona parte della separazione, brusca e rovinosa, dalla felice solitudine dei giochi nel freddo della neve, che lui, fanciullo, pensava sarebbe stato l’eterno stato della sua vita; senza la presenza inquinatrice degli altri, solo causa di turbamenti e difficoltà del “sopravvivere in società”, pur giungendo ai massimi gradini del potere.

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Cerchiamo allora di concludere. La nostra vita, almeno per quanto ne sappiamo, è la vicenda più complicata che si svolga nell’intero Universo. Si potrà discorrerne all’infinito, ma non c’è modo alcuno di spiegare in tutti i suoi risvolti la personalità di un qualsiasi essere umano; e mai si giungerà ad elencare tutti gli eventi che attraversano l’esistenza di ognuno di noi. Ed infatti al giornalista, e a chi lo ha incaricato di condurre l’inchiesta su Kane, non interessa un bel nulla conoscere come costui ha realmente vissuto; l’unico desiderio è di carpire qualche suo segreto, magari eccitante, oltre a quello ormai scoperto da tempo e che ha già fatto scandalo.
“Rosebud” rivela semplicemente, allo spettatore del film, il sentimento prevalente nel protagonista, il centro del suo interesse più vitale. Ci fa inoltre comprendere come questo sentimento – e l’oggetto da lui usato per respingere l’intruso, venuto a separarlo dalla sua felicemente solitaria infanzia – non potesse impedire l’affermazione della sua intelligenza e della forte personalità. Va allora ribadito che la slitta isolata, abbandonata, apparente simbolo della sconfitta del ragazzo, assume in realtà un significato opposto. Il suo sguardo d’odio, di rivolta, di promessa d’un antagonismo irriducibile verso chi viene a prelevarlo contro la sua volontà, pone in risalto un’energia incomprimibile ormai pronta ad esplodere. Di conseguenza, quella slitta scivolata e immobile nel freddo mucchio di neve ci comunica una diversa verità: la fanciullezza è finita e la vita del ragazzo compie una svolta e si avvia verso il suo destino di potenza e solitudine.
Sapere chi o che cos’era “rosebud” non serve quindi a nulla se si pretende che ci illumini in merito a Kane e alla sua vita. Quella parola ci consente soltanto di sapere qual è stato il suo ultimo pensiero, svelandoci così il suo più vitale interesse. Come probabilmente accade ad ogni essere umano nel momento estremo della fine. Quanto egli pronunzia assume duplice valenza. Da una parte, c’è la manifestazione esplicita e cosciente di un sentimento, il più prepotente da lui nutrito da sempre. Dall’altra, viene in evidenza ciò di cui lo stesso individuo nemmeno ha precisa consapevolezza: il suo carattere, la tempra della sua personalità, a quale destino è stato consegnato durante la sua esistenza (logicamente nelle sue linee generali, non certo nei particolari affidati alla casualità del vivere).
Ed è sintomatico che Kane, durante la sua vita, sia doppiamente sincero per quanto in piena contraddizione. Lo è all’inizio della sua carriera, quando sembra quasi idealista e perfino favorevole ai più deboli e diseredati, ai lavoratori. Lo è quando stila il manifesto programmatico per il suo giornale, che immagina diverso e in contrasto con tutti gli altri poiché è una promessa di verità e non inganno; un manifesto che il suo più grande amico, il quale poi si allontanerà appunto da lui deluso, prende per oro colato, conservandolo infine quasi come una reliquia. Quest’amico, buono e piuttosto limitato, non capisce che il potente, proprio quando si avvia al successo e alla scalata della notorietà e ricchezza, deve cambiare registro e dinamica pena la sconfitta e l’oblio. Kane, dunque, è altrettanto sincero quando muta ritmo e direzione di marcia rispetto all’inizio del suo cammino verso l’alto. Il suo percorso assomiglia a quello del politico; anzi, è proprio quello di ogni politico di spessore, di ogni autentico stratega del suo successo, che trascina a quest’ultimo schiere di altri, assai più limitati di lui e quindi suoi semplici seguaci e “adoratori” (finché resta vincente, per poi abiurarlo e farlo a pezzi se viene sconfitto). Tuttavia, Kane commette un errore di superbia e di non accettazione di una sconfitta ormai inevitabile. Basta un solo errore e si gioca buona parte del suo successo, pur rimanendo ricco e noto al pubblico, ma non più come prima. E soprattutto irrimediabilmente solo per tutti gli anni del prolungato esaurirsi della sua linfa vitale.
Per terminare, un grande film e una grande lezione di comportamento umano e di psicologia del successo. Oltre alla qualità filmica, pressoché unanimemente valutata al massimo e non mai superato livello; soltanto eguagliato da alcuni altri “supercapolavori”.

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Fine d’epoca

GLOBALIZZAZIONE E LIBERALISMO SONO SULL’ORLO DEL COLLASSO – MA DOPO CHI E COSA VERRÀ

In un articolo di ieri, intitolato de-globalizzazione, G. La Grassa ha messo in evidenza come, con la fine dell’unipolarismo americano, anche le impalcature ideologiche a supporto di detta visione del mondo inizino a venir meno. La Grassa commenta così la situazione:” è sintomatico che la sedicente globalizzazione (presa come fenomeno semplicemente economico e riconoscimento della “bontà e bellezza” del mercato, inteso nel semplicistico senso di Adam Smith) fosse aumentata di colpo con l’improvviso e velocissimo crollo del sistema bipolare per la “crisi finale” del polo detto “socialista”. Oggi la globalizzazione tende a tramutarsi nel suo contrario – così come si verificò negli ultimi decenni dell’800 e per gran parte del ‘900 – a causa del multipolarismo crescente con incapacità degli USA di assicurare un coordinamento generale; così come appunto accadde alla fine del XIX secolo con il declino della predominanza “globale” inglese, primo paese a “completare” la rivoluzione industriale basata sul passaggio dagli strumenti della manifattura alla piena diffusione delle macchine”.
La ripresa del conflitto tra agenti strategici di formazioni nazionali, spesso raggruppati in aree d’influenza concorrenti, in una fase di multipolarismo sempre più accentuato, rimette in discussione il clima di finta cooperazione (a trazione egemonica statunitense, con sub-dominazione elargita ai paesi della sua orbita, propagandata quale collaborazione paritaria, nonché assoluta discrezionalità di intervento contro eventuali Stati non allineati o revisionisti), che aveva caratterizzato la fase precedente.
Si apre così la nuova epoca foriera di immani trasformazioni che evidenzieranno conflittualità crescenti sulla scacchiera geopolitica, mentre forze politiche e intellettuali, senza più punti di riferimento, avvelenano i pozzi della società con battaglie umanistiche di massima de-civilizzazione. Occorre spazzarle via per iniziare a dialogare con l’epoca in corso.

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La de-globalizzazione, di G. La Grassa

Verso un calo del commercio mondiale e il “globalizzometro”.

è sintomatico che la sedicente globalizzazione (presa come fenomeno semplicemente economico e riconoscimento della “bontà e bellezza” del mercato, inteso nel semplicistico senso di Adam Smith) fosse aumentata di colpo con l’improvviso e velocissimo crollo del sistema bipolare per la “crisi finale” del polo detto “socialista”. Oggi la globalizzazione tende a tramutarsi nel suo contrario – così come si verificò negli ultimi decenni dell’800 e per gran parte del ‘900 – a causa del multipolarismo crescente con incapacità degli USA di assicurare un coordinamento generale; così come appunto accadde alla fine del XIX secolo con il declino della predominanza “globale” inglese, primo paese a “completare” la rivoluzione industriale basata sul passaggio dagli strumenti della manifattura alla piena diffusione delle macchine. Come già allora, anche nell’epoca odierna, il processo in corso conoscerà andamento sinusoidale e ci saranno sempre i soliti limitati economisti che grideranno alla fine della “crisi” e alla rinascita del mercato globale. Non sarà così nel medio-lungo periodo. E arriveremo, in tempi non prevedibili con estrema precisione ma credo di almeno un paio di decenni e anche un po’ di più, al policentrismo conflittuale acuto, dove si vedranno “cose” ben diverse e ben più drammatiche della solita solfa sulla “globalizzazione” o “deglobalizzazione”. Il disordine diverrà infine tale da rendere nemici vasti gruppi di paesi, portando ad alleanze per risolvere tramite scontro “definitivo” il problema della “predominanza ri-coordinatrice” del sedicente “mercato”; in realtà delle sfere d’influenza tra paesi, in cui occorrerà la ricostituzione, per una data epoca storica, della predominanza di uno d’essi in una vasta area mondiale, quella maggiormente sviluppata industrialmente; così come accadde alla fine della seconda guerra mondiale nel “polo capitalistico”. Ci sarà una nuova epoca di relativa “pace” – con conflitti minori e accompagnati probabilmente da sconvolgimenti sociali pur essi non prevedibili oggi nel loro effettivo andamento – e poi si ripartirà per un nuovo ciclo di “lungo periodo”. E così “per sempre”. E con i soliti predicatori di pace eterna e di fratellanza tra uomini; pochi in buona fede, per lo più invece per garantire la formazione e durata di date organizzazioni basate sulla sudditanza dei più a piccoli gruppi di “potenti”.

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La sinistra e i comunisti…di O. Schena

                                                                                       

La sinistra e i comunisti tra buon senso e senso comune,

tra Manzoni e Gramsci

«(…) Sinistra è una parola che non amo, si è usurata» (…) «Comunista.Saremo vintage, ma qui all’ex-Opg ci definiamo così (…)».

Questa è una risposta di Viola Carofalo, portavoce di PAP, in un’intervista all’Espresso del 22/8/18. Ma sarà questa la risposta del«buon senso» o del «senso comune»?

Sergio Cararo, sul giornale comunista online Contropiano del 28/10/18, osserva che Viola Carofalo, «con quel suo dirsi “comunista e non di sinistra, ha (fatto) saltare molti sulla sedia (…)».

S. Cararo potrebbe aver visto giusto, anche se non è stato lì a spiegare, al colto e all’inclita, neppure uno dei possibili perché di quei “salti”, quasi si trattasse di salti evidenti per se medesimi, cioè uno di quei “dati empirici con il carattere di intuitiva evidenza lockiana. S. Cararo ha rivelato se, per caso, sulla sedia non sia saltato anch’egli. Quei saltipotrebbero anche dipendere dal fatto che l’affermazione: «comunista, enon di sinistra» verrebbe a palesarsi, almeno secondo il «senso comune»,come una grossa, grassa bestemmia, una gigantesca contraddizione in termini, perché il male, si sa, è sempre dall’altra parte.

Quali che siano le cause di quei “salti”, quali che siano le ragioni, palesi o misteriose, giuste o sbagliate, che potrebbero avere spinto Viola Carofaloa quell’affermazione, la portavoce di PAP, di sicuro ha avuto coraggio. Per andare contro il «senso comune», infatti, pare ci voglia coraggio, perché il«senso comune» fa paura, parola di Alessandro Manzoni, e  … e pure del P.d.R. Mattarella.

Antonio Gramsci nei Quaderni dedica numerose pagine al sintagma «buon senso», a volte per contrapporlo al sintagma «senso comune», che consiste nel credere che quel che esiste oggi sia sempre esistito, credenza che ha per Gramsci una connotazione prevalentemente negativa, e, in ogni caso, provvisoria.

Ma chi non ha fatto “salti” alle parole di Viola Carofalo sarà comunista o no?

 

Nel Quaderno 8 (XXVIII) § (19) Gramsci annota:

Senso comune. Il Manzoni fa distinzione tra senso comune e buon senso (Cfr. Promessi Sposi, Cap. XXXII sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c’era pur qualcuno che non credeva agli untori ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa, aggiunge: «Si vede che c’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».

Il «buon senso» conteso

Arriva il 19 luglio 2018 e il Presidente Mattarella, durante la cerimonia del Ventaglio al Quirinale, impugna un fatto di cronaca per farsiminaccioso aruspice d’una barbarie ormai dietro l’angolo. E per lanciare,illuminato dal buon senso manzoniano, un severo monito agli italiani (vistianche i risultati del 4/3/2018):

 

«L’Italia non può somigliare a un Far West dove un tale compra un fucile e spara dal balcone (…).Questa è barbarie e deve suscitare indignazione. L’Italia non diventerà, non può diventare preda di quel che con grande efficacia descrive Manzoni nei Promessi sposi a proposito degli untori della peste: ‘il buonsenso c’era ma stava nascosto per paura del senso comune’». (ANSA 26/7/18)

Non è dato sapere se sia stato il fascino del «buon senso», o il timore del«senso comune», a spingere il Presidente Mattarella tra le pagine dei Promessi Sposi. I tre “non messi in fila in poche righe hanno il compito di rifiutare-contestare l’esistenza nella realtà dell’incombente «barbarie», e dicono molto di più d’un semplice scongiuro.

In ogni caso, per vincere l’ansia della tenaglia manzoniana, si può fare una visita a Gramsci:

Il tipo generale si può dire appartenga alla sfera del «senso comune» o «buon senso», perché il suo fine è di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, sbeffeggiando, correggendo, svecchiando, e, in definitiva introducendo «nuovi luoghi comuni» (…)

Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» e il suo «buon senso», che sono in fondo la concezione della vita dell’uomo più diffusa. (…)

Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate nel costume. [QUADERNO 24 (XXVII) § (4). (p.2270-71)]

Insomma, i luoghi comuni / il «senso comune», il «buon senso», vanno vengono /ogni tanto si fermano, / sono comeLe nuvole di De Andrè. Non bisogna, però, lasciarsi vincere dall’angoscia, il lavoro del disvelamento dev’essere costante, anche perché tutto si trasforma in continuazione, linguaggio compreso.

L’eco manzoniana nelle vibranti parole del Presidente Mattarella appare un esorcismo simile a quei gargarismi rituali sulla “libertà”, offerti in saldo dalle massime autorità dello Stato, nelle ricorrenze ufficiali, ad un popolo ignaro o smemorato. O potrebbe significare semplicemente: giù le mani dal Manzoni”. Ma qui è forse il caso di fare un processo alle intenzioni? Chi può dire che il riferimento della pubblicità leghista sia al Manzoni, e non invece a Gramsci?

Non si può neppure escludere che il monito presidenziale, con l’invocazione del manzoniano «buon senso», voglia rappresentare la dura risposta all’on. Matteo Salvini per quell’invito agli italiani a votarlo il 4/3/18 – per la Rivoluzione del «buon senso». Sempre Manzoni dunque (o Gramsci?), e ancora il «buon senso», in questo nostro Paese un tempo di “eroi, di santi di poeti, di navigatori”, e ora anche di aspiranti manzoniani in aspra, ma democratica (?) contesa per il «buon senso».

È opinione di molti, e forse fondata, che sia stato proprio il predicatore leghista del «buon senso», peraltro in buona compagnia, a realizzare, con il suo manifesto elettorale 2018, grazie a parole e concetti opportunamente destoricizzati, destrutturati e smemorizzati, la perdita di senso delle notazioni manzoniane sul «buon senso».

La missione della classe politica, intanto, riesce ancora una volta. Ma questo significa forse che il popolo, un giorno dopo l’altro, ha  imparato a vivere nell’insensatezza dove gli sembra di trovarsi a proprio agio, mentre il manzoniano «buon senso» continuerà a restarsene nascosto incurante del monito mattarelliano?

Di certo non dev’essere semplice fare il Presidente d.R. d’un Paese in cui il 1 maggio 1947 la strage di Portella della Ginestra (ovvero della prima Strage di Stato) inaugura la modernizzazione coloniale offerta dai liberatori-vincitori. Ovvero da quegli autentici barbari a stelle e strisce, sempre in giro per il mondo con la “pazza idea missionaria, nell’era postatomica, di esportare le loro miracolose pozioni di democrazia al veleno, umanitario s’intende, nelle  varianti al napalm, all’uranio, all’Orange, al fosforo bianco, eccetera.

Un compito difficile, oggettivamente servile e, dunque, pocoentusiasmante, meno che mai per un Presidente della Repubblica, il qualesi ritrova sotto i piedi un territorio nato e cresciuto in stato di palmareservitù politico-economica, per di più seminato da mezzi e truppe colonizzatrici e da ordigni nucleari, senza neppure la simulazione d’una sia pur pallida procedura parlamentare.

Ed è così che dal sacrificio delle libertà e delle dignità nazionali, sacrificio dopo sacrificio, si è potuto giungere a spacciare per scelta di «buon senso» persino il sacrificio di Aldo Moro, e a trasmutare, senza troppa fatica, un fagotto rattrappito e impiastricciato di sangue in un rassicurante,folgorante sintagma di «buon senso» e insieme di «senso comune», che recita così: «… la repubblica è salva!».

Ai fini di questa trasmutazione risultano fondamentali i suggerimenti, ai confini tra la sciatteria e il cinismo, che, sul caso Moro giungono daivertici politici e istituzionali del Paese: «Non è lui», «inautenticità sostanziale», e poi ancora «Moro per noi è morto» (E. Berlinguer al generale A.F. Cornacchia).

Intanto i media, giorno dopo giorno, divorano la vittima e consumano pure i terroristi. Il cibo buono per i media si sa, anzi il migliore, è il pastocruento.              

I terroristi avranno mai avuto il tempo di leggere un po’ di Marx, un po’ di Gramsci?

 

Caro Francesco (Cossiga)

(…) Soprattutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. i più affettuosi saluti (firmato) Aldo Moro

Nico Perrone “De Gasperi e l’America” – Sellerio 1995 – (p. 247-48):

(…) Questo dovette fargli mantenere un interesse vitale del paese, resistendo all’offensiva che veniva dagli Stati Uniti. Il problema petrolifero allora poteva apparire di non grande sviluppo, dunque egli si sentì incoraggiato nella sua politica di difesa. In prospettiva esso si rivelerà di primo piano per l’ascesa dell’Italia a potenza economica, e quella difesa attuata da De Gasperi varrà a bilanciare, in parte, una politica che si era sviluppata «sotto un dominio pieno e incontrollato» 79 dell’America.

Nota 79: Questa espressione tremenda matura tre decenni dopo, in un contesto non scevro, forse, di manovre straniere: Moro, [Al ministro dell’interno F. Cossiga (lettera databile tra il 17 e 29.III.1978, durante la prigionia delle BR]

 

Arriva San Silvestro 2018

E qui, forse dimentico del suo stesso monito manzoniano, vuoi per sfiducia nel «buon senso», vuoi per andare incontro, con sagacia, al «senso comune», il Presidente Mattarella infila 7 volte nel suo breve discorso diSan Silvestro la parola «sicurezza». Si vede che il «decreto sicurezza» haproprio lasciato il segno. Un segno tale da guadagnarsi addirittura l’intestazione del discorso presidenziale, un segno nascosto, un po’ come il«buon senso», ma qui da una negazione linguistica:

«Non dobbiamo aver timore dei buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società» (www.quirinale.it)

Chissà, però, se basta una firma presidenziale per coprire l’inconfondibile tanfo securitario del «decreto sicurezza» (peraltro in linea con i precedenti storico-politici), e per rendere migliore questa nostra società, che, invece, potrebbe anche soccombere al timore dei buoni sentimenti, come sembra temere lo stesso Presidente di tutti gli italiani nella sua accorata esortazione.

Pare che in giro vi siano fin troppi untori, e troppe pecorelle. E gli “sfoghi segreti della verità si saranno di sicuro intasati e, comunque potrebberoben poco, almeno oggi, contro l’opinione volgare diffusa.

Al Presidente d. R. e al Ministro degli Interni, supposti fedeli discepoli del cattolicissimo e moderatamente conservatore A. Manzoni, l’arduo compito di riuscire a coniugare, tra un Ave Maria e un requiem (“prima gli italiani, però,  ça va sans dire), il «buon senso» con una politicasecuritaria, sulla scia del loro illustre mentore.

In merito ecco due pillole di storia di Sebastiano Timpanaro su fatti di appena 3 secoli addietro, ma pur sempre attuali:

 

In fatto poi di carestie (con conseguente aumento di prezzi dei generi alimentari di prima necessità) e di disoccupazione,  l’“economia classica” aveva come tutti sappiamo, idee chiare: si tratta degli effetti di dolorose ma ineluttabili leggi economiche, e ribellarvisi è non solo condannabile perché sconvolge la gerarchia sociale, ma, prima ancora, stupido, perché sarebbe come ribellarsi a un terremoto o ad un’eruzione vulcanica.  

Il Manzoni, nei famosi capitoli dei Promessi Sposi sulla carestia e sui tumulti popolari, aveva dato a questi principi economico sociali quella più ampia diffusione e forza di persuasione che veniva loro dall’essere inseriti in una grande opera narrativa e fatti oggetto non solo di enunciazione dottrinaria, ma di rappresentazione artistica: aveva definito il rincaro «doloroso» ma «salutevole», aveva ironizzato sull’inefficacia dei calmieri (con ragione, ma con una perentorietà che ne escludeva anche qualsiasi utilizzazione transitoria) e non aveva nemmeno preso in considerazione l’ipotesi del razionamento;aveva, in quei capitoli, dimenticato quasi il suo cristianesimo, per far sua una dura etica borghese, «scientifica», «laica», ma in senso antipopolare.

(daNuovi studi sul nostro Ottocento” – Nistri-Lischi 1995 – p. 79-80)

 

Com’è noto, alle parole d’un Presidente d.R. è garantita la più ampia diffusione mediatica. Forse non saranno una grande opera narrativa, né una rappresentazione artistica, ma la loro forza di persuasione èaccresciuta dall’essere un solenne pronunciamento rituale. Il Presidente d.R. sostiene che l’appuntamento del discorso: «non è un rito formale», formula sin troppo simile al famoso: «non è mia madre» di Freud. All’ampia diffusione del discorso si aggiungono il crisma e il carismapropri della più alta carica dello Stato e “le jeu est terminé.

Il P.d.R. proclama di voler «andare incontro ai problemi con parole di verità» e fa scivolare, in una contiguità da brividi, l’ammissione del «la mancanza di lavoro che si mantiene a livelli intollerabili», insieme alla verità del «l’alto debito pubblico che penalizza lo stato e i cittadini e pone una pesante ipoteca sul futuro dei giovani».

Il Debito Pubblico è un totem. Metterlo in dubbio è un grave peccato. Negarlo è un gravissimo delitto: è «tabù». Esso difende, con una cortinafumogena, re, regine, presidenti, ministri insieme al codazzo di quasi tutti i sacerdoti e dei tanti chierichetti del culto dell’economia.

I totem, ai quali si giura fedeltà per tutta la vita, sono purtroppo tanti.

A tutela delle gerarchie sociali e contro le dissacrazioni totemiche chepossono minarle, anche il pessimismo manzoniano costruisce la sua digaanti estremismo, che s’incurva fin quasi a spezzarsi, come nell’elenco delle cose che Renzo, nota «testa calda», dichiara d’aver imparato dalle sue traversie: «ho imparato a non mettermi nei tumulti», «a non predicare in piazza», «a guardare con chi parlo». Più che una filosofia del «buon senso» queste, però, sembrano tre pillole della filosofia di don Abbondio, che, se alfine risulterà vittoriosa, lo sarà grazie al provvidenziale (!) flagello della peste, per ammissione dello stesso Don Abbondio.  

Ora, mischiare le verità, come fa il P.d.R. Mattarella, quelle secondo l’etimo greco di aleteia, con verità parziali e con verità indimostrabili(cioè di fede nei totem e nelle parole di economisti, più o meno titolati, pochi o tanti), può rivelarsi un’operazione rischiosa, non fosse perché chiascolta può finire col perdere il senso della verità… che, perché no, potrebbe anche essere quello della parabola dei pani e dei pesci raccontata nei Vangeli. Ovvero: se si distribuiscono con giustizia i beni disponibili ce n’è per tutti e nessuno resta senza. Questa sarebbe la “verità”, o almeno, la verità secondo il “miracolo” del Nazareno, che di certo sarebbe condivisa dal Manzoni e dal P.d.R., se non fosse per lo sconvolgimentoche essa provocherebbe nelle gerarchie sociali, la qualcosa non sarebbesemplicemente tumultuosa, ma assai biasimevole e prima ancora stupida,perché sarebbe come ribellarsi a un terremoto.

Ma poi, se davvero la mancanza di lavoro fosse oggi a livelli intollerabili, il Massimo Garante della Costituzione dovrebbe aver già dato fiato alle trombe e chiamato i cittadini alla ribellione, o starebbe per farlo. Perché il lavoro è il primo fondamento della Repubblica, e se questo fondamento crolla, addio Repubblica! Ma qui, in assenza di squilli urbi et orbi e di antifrasi nell’art. 1Cost., si preferisce supporre che il Presidented.R. si sia clamorosamente sbagliato, o abbia scherzosamente esagerato, può capitare anche a un Presidente d. R.. Oppure la capacità di resistenza del popolo italiano è invece in grado di tollerare l’intollerabile e il Presidente lo sa, ma non lo dice.

Resta da brividi, invece, il silenzio nel discorso presidenziale sui dati statistici degli infortuni sul lavoro (Nel 2018 sono stati denunciati 641.241infortuni di cui 1.133 mortali, 104 in più dell’anno precedente, più 10,1%).

Si dirà che le statistiche vanno e vengono, che sono come le nuvole … intanto i morti restano e crescono uno sull’altro, anno dopo anno, esarebbe inutile ribellarsi, e prima ancora stupido, perché quei morti sono come quelli d’una eruzione vulcanica, sono una svergognata fatalità.

Sono fuori dal computo, come sempre, tutti quanti i morti per reati ambientali, che sono proprio tanti, come sono tanti i marinai morti d’amianto sulle navi e i sommergibili della nostra Marina militare. È sicuramente vero che è un peccato sciupare l’euforia di S. Silvestro solo perché alcuni pezzi della nostra classe imprenditoriale risultano non soloesperti in paradisi fiscali e nell’uso-abuso delle banche, ma pure nell’ammazzare almeno tre lavoratori ogni 24 ore, mentre dimostrano di sapere ben poco di strategie d’impresa rispettose delle leggi (ahinoi, c’è la crisi!), mentre tutti se ne sbattono degli artt. 41 e 43 Cost., già disusati, ma ancora fior di conio.

Ricordo che qualcuno ha scritto da qualche parte che è: «compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua». Se quel qualcuno, stavolta, avesse indovinato, mi sa tanto che dovremmo rassegnarci … o sperare nella Provvidenza, e che stavolta, almeno stia ben attenta a non portarci la peste! Così pure tutti (o quasi) dovremmo ricordare che A. Einstein, il più grande scienziato del XX secolo, ha accumulato una quantità enorme di errori, di predizioni sbagliate, di cambiamenti d’opinione … vorrà pur dire qualcosa o no?

 

Le reazioni del «senso comune»

Adesso, però, è tempo di ritornare da Viola Carofalo, per provare a capire, se possibile, il perché la parola “Sinistra si sia usurata e perché all’ex-Opg, incuranti del “rischio vintage”, abbiano preferito definirsi “comunisti.

Sempre Gramsci affronta la questione del deterioramento d’un termine:

(…) Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta di una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il «senso comune» è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere. [Quaderno 8 (XXVIII) §(28)p.958]

Chi decide di rivisitare le vicende del 1914, del voto SPD a favore dei crediti di guerra (il più grande crimine della socialdemocrazia, che regalerà così al mondo la madre di tutte le guerre), potrà scoprire i corpi franchi (poi Sturmabteilung) assoldati, dal ministro dell’Interno socialdemocratico Gustav Noske, per attaccare gli spartachisti, assassinare Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e centinaia di altri rivoluzionari. Ed allora la degenerazione, la marcescenza della socialdemocrazia europea, il suo tradimento, potrebbero spiegare ben più d’una semplice «usura» della parola “sinistra”.

In quei giorni del 1914, infatti, va in frantumi una pagina fondamentale della storia ottocentesca, la pagina della fratellanza operaia internazionale in nome del socialismo. Con la conseguenza che l’Internazionale socialista si sfascia e i lavoratori socialisti, di ciascun paese, vengono resi nemici dei lavoratori degli altri paesi, secondo le linee di frattura del conflitto politico-militare voluto dalle classi borghesi. Da allora la Sinistra resta vittima della coazione a ripetere il tradimento, ovvero, come scrive G. La Grassa, «la Sinistra è quella cosa che ha sempre tradito» (C&S), o, per dirla alla Gramsci, la sinistra ha finito con l’assorbire in toto la forza degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere.

Senza dimenticare che fino al tradimento dell’Internazionale Socialista del ’14, anche rivoluzionari come Lenin e Rosa Luxemburg si autodefiniscono socialdemocratici.

Per la “Sinistra, dunque, anziché di usura,  sarebbe più sensato parlare di tradimento, un tradimento antico e tuttora in corso, sui temi della guerra e dei diritti sociali. Un tradimento non già per un passaggio da posizionirivoluzionarie a riformiste, ma per scelte repressive (es. la legge Reale) e di aperto, impudente appoggio al capitalismo e alle sue leggi. Come esempio del livello di subordinazione, innanzitutto culturale, ai potenti, al modo di produzione capitalistico e ai suoi dogmi, raggiunto dalla Sinistrain Italia, si consiglia la lettura dell’intervista a Luciano Lama, a cura di Eugenio Scalfari, pubblicata da la Repubblica il 24 gennaio 1978:

«Sì, si tratta proprio di questo: il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali».

Ovvero, per i lavoratori gli anni ’70 saranno stati un tempo d’oro! L’indecenza della Camusso, viene dunque da lontano, ha vecchie e bensalde radici, che fanno bella mostra di sé anche nella CGIL di Landini,con l’esibizione impudica del depotenziamento del Contratto Collettivo Nazionale e la maggiore rilevanza assegnata agli accordi al livello d’impresa. È questo l’ennesimo sfregio, dopo il Jobs Act, ai diritti deilavoratori. Perché, allora, confindustriali e confederali, dopo la passeggiata unitaria del 9 febbraio scorso, non mettono in calendario un’unica organizzazione, con un’unica tessera e con sedi unificate?

E vai a capire se dirsi comunisti, quantunque oggetti di culto, sia oggi una cosa di «buon senso» e quale sia il «senso comune» in merito.

Dovrebbe essere noto come Marx non abbia mai avuto la passione di «mettersi a prescrivere ricette (comtiane?) per l’osteria dell’avvenire», così come i socialismi, cosiddetti reali, siano stati tutto fuorché socialismi (nel senso marxiano). Il travisamento sarà stato tutta colpa delle bandiere rosse, della falce e martello, e del sogno d’un assalto al cielo, che hanno abbuiato la vista e la mente? Sia come sia, oggi, di nostalgici del comunismo, di militanti identitari e creduloni in giro per il mondo, qualcuno per autentica passione, qualcun altro a caccia di poltrone, non pare ne siano rimasti in tanti a dirsi comunisti come Viola Carofalo e quelli dell’ex-Opg.

Ma il problema non sembra tanto quello della nostalgia, quanto piuttosto, per tirar giù la testa dalle nuvole e restare con i piedi ben saldi per terra,quello della mancata elaborazione del lutto per la classe rivoluzionaria mai nata, ovvero per quel lavoratore collettivo cooperativo” (dal dirigente della produzione fino all’ultimo dei semplici esecutori), di cui sino ad oggi non si è vista e non si vede traccia all’orizzonte, ma a cui Marx aveva legato la possibile nascita reale del socialismo. Anche gli scienziati, però,possono sbagliare previsioni.

La “Critica al programma di Gotha” è in buona parte venuta giù per colpa di F. Lassalle. Nella “Critica” Marx delinea due fasi per il passaggio al comunismo ma, nonostante i buoni propositi intorno alle osterie dell’avvenire, il Moro stavolta gioca d’azzardo e sparge, in giro per il mondo, alcune dosi di metafisica consolatoria. Tanto che si può trovare più capacità veritativa nel Manzoni della straordinaria Storia della Colonna Infame” e nella sua visione della “natura umana”, che non nel Marx di “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” .

Manzoni sembra descrivere in quella Storia, forse per puro caso, ma con buona approssimazione, fatti e misfatti a venire dei Paesi del  socialismo reale e non solo:

«Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o, accusarla.» (A. Manzoni – “Storia della Colonna Infame” – Feltrinelli 2011 p.7)

Manzoni non è tormentato soltanto dal pozzo nero dell’universo umano, ma anche da unimprovvida Provvidenza che lo spinge sull’orlo dell’eresia.

Avesse infilato un “nonprima di “son due deliri”, quella sua osservazione sulla natura umana l’avrebbe sottoscritta persino Paul Thiry d’Holbach, che mai si stancò di «contrapporre le idee naturali alle idee soprannaturali»  (“il buon sensoGarzanti). Ma d’Holbach l’ha letto Leopardi e non Manzoni, e si vede!

Il socialismo reale è stato un sogno affannoso e perverso, talvolta addirittura un incubo con una scissione totale tra l’essere e il fare. Un incubo dal quale molti comunisti non sono riusciti a riscuotersi, mentre altri non se ne sono neppure accorti.

Di certo se ne saranno accorti Guido Picelli, Emilio  Guarnaschelli, Camillo Berneri, S. M. Ėjzenštejn, e Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Albert Camus eccetera.

Domenico Losurdo in “Marx e il bilancio storico del Novecento p. 189 – 2009 Diotima, la mette giù così:

«La rivoluzione d’Ottobre, se per un verso è una pagina grande dell’efficacia antitotalitaria svolta dalla teoria di Marx, per un altro verso ha aperto un nuovo capitolo della storia del totalitarismo»

 

Il sogno di una cosa

È il 26 gennaio del 1962 e Pasolini resta folgorato dalla citazione di Fortini: “Il sogno di una cosa”, tanto da chiedergli la pagina di Marx da cui è stata tratta.:

« () Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede [nel senso di custodisce, ha in sé] il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente».

(dalla terza lettera da Kreuznach di Marx a Ruge settembre del 1843. La frase diventerà il titolo del romanzo di Pasolini Il sogno di una cosa”.)

Dopo Marx e dopo Lenin, il pensiero di alcuni comunisti sul socialismo reale, «cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, si è trovato, con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie che sono due deliri», bestemmie e deliri secondo la dottrina ossificatasi religiosamente nei diversi partiti comunisti: negare il comunismo, o, accusarlo.

E tra la negazione e l’accusa il grande mare della confusione. C’è stato chi, per non negare la possibilità del comunismo, ha pensato di sognare.

Ad Ernest Bloch (come al giovane Marx) son sempre piaciuti i sogni, i sogni ad occhi aperti, i sogni possibili, e quindi non i sogni mandati da dio, o dal demonio, né quelli mandati dal mal di stomaco (S. Agostino):

 

« (…) L’oggettivamente possibile, a cui il sogno deve attenersi se vuol servire a qualcosa, trattiene in maniera preordinata anch’esso. Il sogno ad occhi aperti d’una vita piena, sogno oggettivamente mediato e proprio perciò non rinunciatario, supera la sua propensione all’autoinganno né più né meno che la mancanza di sogni.

Quest’ultima, legata ad un tenersi a se stessi o ad un realismo, che sembra ancora non essere altro che rassegnazione, è senz’altro la condizione preponderante di molti uomini che pensano, sì, ma poco conoscono, in una società povera di prospettive (e ricca d’imprecisione). Tutti costoro hanno una certa avversione per l’andare in avanti, e per il guardare in avanti, anche se in misure diverse e con diverse intensità di timore». (E. BlochK. Marx” – p. 50Ed. Punto Rosso)

Intanto, per tornare all’oggi, avanzi di comunisti, da tempo sull’orlo del disfacimento totale, si vanno preparando per le elezioni europee e sognanosogni, non si sa bene se mandati da dio o dal demonio, nei quali i comunisti tornano a sedersi sulle lucrose poltrone delle istituzioni europee.Per questo motivo pare si raccoglieranno sotto le insegne del prodecondottiero Luigi De Magistris, un bacia teche al pari di Di Maio, che non ha però in programma affinità elettive con i comunisti. Una notizia, insomma, che dovrebbe far saltare sulla sedia tutti quanti i comunisti rimasti!

                 

È pur vero che Ernest Bloch ha scritto che non bisogna nutrirsi di sola speranza, che bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare, che l’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà, e che la sua utopia «non èfuga nell’irreale, ma scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione».

Saprà, dunque, la coppia De Magistris + San Gennaro rappresentare la blochiana utopia concreta «per andare in avanti» e «guardare in avanti»?Ma sì, forse la liquefazione del sangue sarà un po’ troppo oltre l’orizzonte della realtà, ma sotto la loro guida i comunisti riusciranno di nuovo a trovare qualcosa da cucinare: “primum vivere.  

Con queste notizie del «buon senso» finito in cucina può succedere di andare a letto e di sognare un grande cartello, proprio come quei “VIETATO FUMARE” nelle sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie, solo che qui c’è scritto: “SI PREGA DI CHIUDERE GLI OCCHI (Freud). Chiuderli solo per il tempo necessario a non vedere, nella vigilia elettoraledel maggio 2019, un macabro bacio al sangue. Di certo questo sogno non è un desiderio, ma è interpretabile. Sarà il sogno del «buon senso» che vorrebbe liquefare fanatismi e superstizioni e, gramscianamente, provare a diventare «senso comune»? O sarà, invece,  soltanto il sogno di uno che credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro? (Qualcuno era comunista – Gaber – Luporini)

https://www.youtube.com/watch?v=G24bmNtcoVU

CLAUDIO LOLLI “Quello lì (Compagno Gramsci)”

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