BANCHE E FINANZA (terza parte)
L’elezione di Draghi a Governatore della Banca d’Italia con accordi politici “bipartisan”, veniva celebrata da un paginone del Foglio del 2/1/06 con un titolo ironico “ Diventare un paese di draghi”. Si alludeva alle non brillanti performances del paese Italia che grazie alla guida di un “Drago” così illustre poteva uscire dalle secche economiche in cui si era cacciato. La sua elezione ha rotto la tradizione della Banca d’Italia durata cento anni dalla sua nascita, quella di non avere mai avuto un banchiere d’affari; un preciso segnale di un paese in vendita come ebbe modo di dichiarare Cirino Pomicino al momento dell’elezione.
Draghi “sherpa” di Ciampi, insieme a Tommaso Padoa Schioppa, furono protagonisti di tutti i passaggi fondamentali della moneta italiana nell’ultimo decennio: il rientro nel ’96 nel mercato monetario europeo (Sme) dopo l’avvenuta espulsione della lira a seguito della traumatica svalutazione del ’92 e otto anni dopo alla negoziazione del passaggio della Lira nel mercato dell’Euro con un cambio risultato, con il senno del poi, troppo penalizzante se non addirittura catastrofico per l’Italia. Draghi, un cittadino del mondo, cosmopolita tra Londra e New-York, grande assertore che l’Europa non dovesse avere confini nazionali, ma diventare un espressione geografica nell’economia come nella finanza: implicita una dipendenza europea entro i confini americani. Intanto, la prima grande apertura agli investimenti fu sperimentata in Italia nel decennio degli anni Novanta con Draghi Direttore del Ministero del Tesoro già consulente della banca d’affari americana Goldmann-Sachs.
Draghi fu il regista della grande operazione dello smantellamento dello Stato imprenditore rappresentato dall’IRI, al punto che il settimanale finanziario “Business Week” arrivava a definirlo “l’uomo più potente d’Italia”. Le grandi privatizzazioni ebbero inizio nelle svendita di alcuni pezzi forti dell’ industria di stato a seguito della svalutazione della lira del governo Amato del ’92. Quest’ultima rese facile la negoziazione delle banche d’affari americane che acquisirono pezzi importanti dell’economia di Stato italiano con prezzi meno costosi del 35% circa, quanto corrispondeva la svalutazione della lira; e qui più di un dubbio si dovrebbe porre sul contesto politico dell’inizio di mani pulite nell’intreccio perverso tra finanza e politica. Le grandi agenzie internazionali di rating provvidero a comunicare in modo tempestivo la declassazione del nostro paese, favorendo la svendita dell’azienda Italia con un particolare interesse verso le banche.
I retroscena politici-finanziari italiani non finiscono mai di sorprendere: l’accordo sulle privatizzazioni si realizzò in acque internazionali, al riparo dei clamori mass-mediatici ed in ambiente soft, durante la crociera del panfilo inglese “Britannia” in un convegno economico promosso da Assolombarda nel ‘92: tra Draghi e Prodi Presidente dell’Iri ci fù questo accordo e, quest’ultimo, concordò di cedere e privatizzare anche le banche di interesse nazionale; da qui nacque la sua carriera politica. Draghi al Tesoro contribuì a produrre un profondo cambiamento nell’economia italiana: sia l’introduzione dell’azionariato diffuso per lo sviluppo di un capitalismo di tipo manageriale, d’accordo con D’Alema allora Presidente della Bicamerale, che le privatizzazioni effettuate durante tutto il decennio del suo mandato, produssero cambiamenti così profondi nell’economia italiana da poter affermare che, dopo l’Inghilterra, l’Italia fu il paese in Europa in cui si privatizzò di più.
Le privatizzazioni furono imponenti e realizzate per un valore di 180 mila miliardi di lire, tenendo completamente fuori il “salotto buono” dell’unica banca d’affari italiana cioè Mediobanca. Il ricavato delle dismissioni permise la riduzione del debito pubblico italiano dal 125 per cento del Pil al 110, cioè nei parametri di Maastricht con la possibilità di entrare nella zona euro. Draghi, uomo giusto al posto giusto e dagli interessi inconfessabili, coronò i successi nella privatizzazione delle banche – la ciliegina sulla torta – coadiuvato alla fine del governatorato Ciampi ed all’inizio di quello di Fazio, dal Testo Unico Bancario (T.U.B) del ’93 che legiferava, e dirimeva gli accordi tra gruppi di potere per il controllo delle banche.
In particolare la disposizione della Banca d’Italia (B.I), faceva riferimento all’autorizzazione “ a entrare nel Capitale Bancario con quote superiori al 5% di qualunque soggetto, vigilare
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sull’intreccio banco-industriale, definire caso per caso i limiti delle concessioni di affidamenti e intrecci azionari ai fini di preservare la stabilità del sistema”. Come si può dedurre, la norma rappresentava una salvaguardia di sistema per una “stabilità transitoria o di tregua armata” all’interno dei gruppi di potere che si configuravano in rappresentanze di quote di partecipazioni azionarie nella forma del Capitale Bancario, in osservanza ad una triangolazione tra Banca d’Italia, Banca Centrale Europea in dipendenza delle più forti Banche d’affari americane
Il Governatore Draghi, succeduto a Fazio, nella sua prima relazione del giugno 2006, dà piena conferma alla norma del T.U.B. del ’93, per i successi ottenuti nelle acquisizioni e fusioni bancarie e negli ingressi dei soci che contano con quote superiori al 5%; da ultima e più recente (fine gennaio 2007), l’autorizzazione della B.I. all’ingresso dell’importante socio polacco Zalesky in IntesaSanpaolo con una quota bancaria di partecipazione del 7,69% in appoggio al gruppo di controllo dominante di Bazoli.
E’ di un certo interesse la relazione del Governatore Draghi che accentua il valore della stabilità finanziaria, condizione necessaria per lo sviluppo degli indirizzi di politica economica nazionale al fine della compatibilità dei processi di internazionalizzazione dei capitali. La relazione sottende una finanziarizzazione di fondo dell’economia internazionale, diventata nel tempo un vincolo imprescindibile dell’economia italiana nelle scelte di indirizzo di politica economica della B.I., in ottemperanza ai paletti finanziari imperiali americani posti come vincoli insuperabili per la stessa economia nazionale, una sorta di “Colonne d’Ercole”.
Le azioni per il rilancio dell’economia italiana sono tutte interne a questi vincoli di compatibilità. In particolare, viene messo in evidenza che “gli accordi tra le parti sociali che demandavano la distribuzione dei guadagni di produttività al livello di contrattazione decentrata; ..gli schemi retributivi esplicitamente legati alla produttività aziendale è però ancora scarsa e concentrata nelle grandi imprese industriali…un livello eccessivo del cuneo fiscale e previdenziale distorce l’allocazione delle risorse, frena lo sviluppo… Margini di flessibilità sono stati recuperati in questi anni con la diffusione dei contratti atipici…”
Come si può dedurre dalla relazione, il costo del lavoro assume le caratteristiche di un parametro di riferimento economico con alta valenza sociale. Abbandonate le funzioni principali della B.I. nei processi di aggiustamenti monetari relativi agli equilibri finanziari di una economia in sviluppo, con un certo trend di crescita prima di mani pulite, si concentra l’attenzione finanziaria sugli interventi da eseguire nelle ” parti molli” del sistema economico cioè nel costo del lavoro.
Nel mentre avanza la finanziarizzazione del capitale, la relazione tra costo del lavoro e produttività aziendale, diventa sempre più stretta; quest’ultima viene sostituita sempre più dal costo del lavoro. Una produttività, ormai statica per mancanza di sviluppo della competizione, riduce sempre più i margini di profitto, mentre da parte politico-sindacale si rivolge l’attenzione al costo del lavoro con un animosità spasmodica.
Più che una relazione, quella del Governatore mi sembra un proclama di totale fallimento della politica economica, quando afferma che la retribuzione non si può ormai legare alla produttività ormai scarsa, direi anzi nulla. Quello che si continua a non capire è perchè il Governo Prodi-Padoa Schioppa si sia appiattito su una Relazione del genere in modo così miserabile da trasformarla di pari passo in azione di Governo: forse una comune provenienza del Governatore con alcuni membri del governo, tutti consulenti delle banche d’affari americane o in qualche modo collegati, fa coincidere complicità ed interessi nelle prospettive comuni. L’ economia nazionale è dentro un giogo finanziario internazionale e, quando si parla di stabilità finanziaria, è semplicemente un vincolo posto in un sistema internazionale di riferimento entro cui è costretta a muoversi.
Mi permetto sinteticamente ed in modo artigianale di fare riferimento a questo sistema internazionale occidentale costituito approssimativamente da un grande Centro ed una Periferia. Una Periferia collegata con un Centro abbastanza compatto in grado a sua volta di coordinare con impulsi decisivi di comando: una organizzazione finanziaria Centrale che va dall’America all’Europa, una specie di “feed-back”, una retroazione, un ritorno sempre circolare verso il centro del sistema che rielabora continuamente la comunicazione in periferia, con nuovi impulsi decisivi secondo le necessità del centro (del sistema).
In questa fase, Il grande Centro finanziario d’oltre atlantico coordina e guida con correzioni ed aggiustamenti la grande massa di liquidità finanziaria nella zona euro, attraverso uno strumento di imposizione e di controllo imperiale: un “continuum” di aggiustamento quotidiano dello strumento più facile da usare: il mantenimento del cambio del dollaro più basso nei confronti dell’euro. Il risultato è quello di una grande finanziarizzazione nella zona euro, tenuta in vita dalla continua sotto-stima del dollaro nei confronti dell’euro che spunta continuamente le armi per una ripresa della competizione europea nei confronti dell’America.
La leva finanziaria americana opera in modo possente nell’economia europea perchè agisce su più piani ed anche in modo indiretto. Depotenzia, anzitutto, la possibilità di apertura di un conflitto strategico. Il finanziario svolge un importante ruolo di potenziamento del Capitale Industriale quando, nell’aspetto Circolatorio, il Capitale Finanziario è mera rappresentazione fenomenica di quest’ultimo; di converso, quando si assiste ad una finanziarizzazione dell’economia nell’aspetto Circolatorio, il Finanziario che sostituisce l’Industriale è forma e sostanza al tempo stesso, la forma perde la sua rappresentazione fenomenica perché la sostanza diventa forma, si annulla l’oggettività di valore.
Altro effetto perverso nei confronti della moneta europea è prodotto in modo indiretto nei collegamenti internazionali dell’euro con l’area asiatica, della Cina soprattutto. In un recente convegno economico europeo fatto a Francoforte nel Novembre ’06, il governatore della Banca Centrale Cinese, un certo Zhou… ha affermato che la Cina diversificherà i propri 1.000 miliardi di dollari investiti in valute estere e cercherà di differenziare tale massa monetaria in differenti valute e strumenti di investimenti guardando anche ai paesi emergenti.
L’effetto di questa semplice dichiarazione d’intenti è stata quella di una spinta speculativa verso un massimo storico del cambio sull’euro; ciò a dimostrazione delle interdipendenze sempre più strette delle varie economie a livello internazionale, rappresentate dalla massa finanziaria circolante nel mondo in quanto sommatoria di quelle relative a queste diverse economie. Del resto, il cambio dell’euro continua ad essere un sorvegliato speciale da parte della solita Goldmann-Sachs che emette continui comunicati ufficiali di previsioni circa il tasso di sconto praticato dalla Banca Europea, che ha raggiunto un massimo storico con il 3,75% e viaggia verso il 4%.
In concomitanza ai controlli ed alle pressioni d’oltre atlantico nei confronti dell’economia europea, c’è un altro importante sorvegliato speciale, “lo Yuan”. La Cina è sottoposta a pressioni da parte degli Usa affinché rivaluti la propria moneta, mantenuta artificialmente verso il basso per favorire le esportazioni di merci cinesi. Il governatore Zhou…ha spiegato in quel convegno che il suo paese ha un approccio graduale alle riforme del sistema dei cambi, per minimizzare i rischi sociali dovuti alla possibilità di forti perdite di lavoro in Cina. In questo caso i poteri d’interdizione americani sparano con fucili a salve per l’impossibilità di agire nei confronti di un paese che ha raggiunto un consistente autonomia industriale. Anche se sussiste una sostanziale differenza di spiegazione nella tenuta al ribasso delle due monete: con quella della moneta cinese si difende il livello d’occupazione raggiunto, con quella americana un livello alto dei consumi.