BASTA CON LE “CASTE” ( 31 ag. ’11)

 

 

1. Sia chiaro che il termine casta non mi piace per nulla, lo uso per adeguarmi, solo “scherzosamente”, all’abitudine degli appartenenti ad ognuna d’esse di sputare fiele su quelli delle altre. Per un periodo è stata sotto tiro la casta dei politici e, in subordine, quella dei sindacalisti (più o meno la stessa cosa). Di quella dei giornalisti che cosa si dovrebbe però dire? Per un periodo sono stati ai (dis)onori della cronaca quelli etichettati “di sinistra”; adesso particolarmente fastidiosi sono quelli che vengono situati (e si credono anche loro del resto) “a destra”.

Da giorni e giorni insistono che la media europea del pensionamento è molto più alta che in Italia; e sparano che si deve andare in pensione (come in Europa) a 65 anni; altri dicono a 67, qualche forsennato azzarda 70. Come ho citato in un recente articolo, Libero ha riportato (a fianco del pezzo di uno di questi scrittorucoli) la tabella dell’età media di andata in pensione (per uomini e donne) in Italia, Inghilterra, Francia, Germania, Belgio e Olanda. Le medie che ho letto erano lontanissime dai 65; e l’Italia non era nemmeno al livello più basso, superata dalla Francia e di un pelo al di sotto della Germania. Dicono, però, questi mentitori: adesso tutti hanno accettato i 65 anni (a parte che nel pezzo già citato si parlava di media europea sui 67). Di grazia, invece di discorsi generici riportate per favore i dati precisi per i vari paesi (una caterva) della UE; e indicateci le categorie dei diversi lavori con a fianco le età di pensionamento stabilite per legge. E dite anche dell’innalzamento dell’età pensionabile in Italia per le donne nella Pubblica Amministrazione. Altrimenti, tacete, chiacchieroni che non siete altro.

Dove la voglia di mandarli al diavolo cresce a dismisura è però quando avanzano un altro ragionamento, fra i più squallidi che si possano immaginare: se si va in pensione così “presto”, i poveri giovani sono costretti a pagare le pensioni dei loro padri. Dementi o bugiardi. Solo un balordo non si rende conto che questa crisi sarà lunga e tormentosa, e di occasioni di lavoro non ce ne saranno molte, data anche la necessità, in periodi simili, di accrescere la produttività del lavoro con innovazioni e altro. Se i già anziani devono restare al lavoro ancora altri anni, dove andranno a trovare occupazione i giovani? E sarebbero loro a pagare la pensione ai padri? Imbroglioni, sapete bene che aumenteranno i “bamboccioni”, che i padri dovranno tenersi in casa ed aiutare i figli per altri anni in più. E sarà un obbligo “morale” cogente, visto che tolgono loro il posto di lavoro ritardando l’entrata in pensione.

L’unica misura sacrosanta è quella di finirla con i contributi puramente figurativi versati dagli istituti previdenziali per sindacalisti e politici. Questo, sì, è intollerabile. Non so il risparmio che si otterrebbe, ma è misura di normale giustizia, perfino indipendente dall’esigenza di “far quadrare i conti”. Probabilmente, è pure corretto un regime fiscale per le cooperative assai più simile a quello delle normali imprese quali esse di solito sono; salvo le cooperative di assistenza sociale o quelle che effettivamente hanno come clienti i soli soci o quasi, ecc. Si valuteranno adeguatamente i vari casi, ma è ora di smettere la finzione che si tratti di cooperative quando si è invece in presenza di comuni, e spesso grandi, imprese.

Vi pare invece normale che si volessero togliere dal calcolo degli anni di lavoro i 4 o 5 anni di Università, quando uno li ha già ampiamente riscattati pagando bei soldini? Comunque, non insisto perché la misura, si assicura, è stata tolta. Tuttavia, ancora non si sa se vogliano o meno reintrodurre le imposte, mascherate da contributi di solidarietà, o il punto in più dell’Iva o chissà quale altra pensata che ormai fa solo ridere o incazzare. Siamo in presenza di gente allo sbando, inetta, incapace di intendere (ma non di volere, anzi vogliono, fermissimamente vogliono, ridurci “in mutande”); e i giornalisti tengono loro bordone. Quelli di “destra”, si dirà; sì, perché il Governo è di quello schieramento, altrimenti saremmo semplicemente a parti invertite.

Francamente, comincio a pensare che vogliano rosolare per benino il Cavaliere, facendolo apparire una banderuola al “vento” dei suoi demenziali ministri e “correligionari”. Il tapino, agendo così da pirla, nemmeno salverà le sue aziende come credo gli abbiano promesso per ridurlo in uno stato così comatoso. Lo stanno facendo fesso. In effetti, tanto lento di comprendonio, o forse tanto “incastrato” e impotente, non ce lo facevo.

 

2. E’ del tutto evidente che, in ogni caso, non vi è alcuna capacità di intervento detto “strutturale”. Perché quando “lorsignori” usano tale termine, pensano solo a misure che aumentano (molto) le entrate o riducono (poco) le spese, ma senza che venga corretta l’effettiva “struttura” del paese e della società italiana. I mutamenti realmente strutturali esigerebbero interventi in due direzioni fondamentali. Intanto, è necessario modificare la composizione sociale del lavoro che – a causa del “compromesso storico”, della “concertazione”, mai messi in causa da un Cavaliere pieno di paure e abituato alla costruzione della sua immagine, ma solo di questa – è profondamente distorta nel senso del sovraccarico di più lavoratori laddove ne basterebbe uno. E tale sovraccarico è correlativo ai sussidi dati ad imprese aduse all’intrallazzo con i politicanti e non certo a produrre e innovare. Per facilitarsi il compito, si sono pure moltiplicate le aree di “sottosviluppo”, dove le imprese (quelle di buone dimensioni) hanno potuto installarsi con grandi facilitazioni (sussidi e sgravi fiscali) al fine di “prendere i soldi e scappare”; e se non scappavano, era per spremere altri sussidi a fondo perduto (ma perduto sul serio).

Ancora più decisiva appare l’incapacità di sviluppare una politica strategica per alcune nostre grandi imprese di punta. Resta anzi un mistero – data l’odierna manifestazione della totale inconsistenza d’autorità dell’ometto di Arcore – come si sia per alcuni anni assistito ad un qualche revival delle poche aziende che avevano resistito al “vento liquidatore” sotto forma di svendite denominate privatizzazioni, in seguito al colpo di mano (quasi di Stato) ormai ben noto (“mani pulite”) e i cui motivi e mandanti sono altrettanto ben conosciuti dai nostri lettori. In effetti, sono veramente da ricostruire tale resistenza, una qualche (apparente o reale?) rimonta tra il 2003 e il 2009 e poi la nuova impasse, che si sta ora tramutando in aperta rotta in concomitanza con la svolta impressa alla strategia statunitense nel suo disegno “globale” (anch’esso, a dire il vero, chiaro solo per certi pezzi del puzzle complessivo). Alcune linee di quest’ultimo appaiono (e talvolta poi scompaiono), ma l’insieme non direi che è da noi ancora colto a dovere.

Si comprende tuttavia bene che l’Italia ha perso ogni bussola ed è in preda al solito tradimento di stile “Savoia-Badoglio”; siamo ormai alla “fuga a Brindisi”, anzi già “a Salerno” e, almeno “visivamente”, alla “luogotenenza del Principe Umberto”. Adesso, approfittando della correità di Berlusconi, ridotto ad una marionetta che si fa dondolare in qua e in là con effetti di sempre maggiore disaffezione dei suoi fan, si sta tentando una “svolta di Salerno” con un finto governo di “unità nazionale”. Si sancirebbe così il completo trasferimento del “protettorato Italia” agli “Alleati”; oggi, come del resto ieri, semplicemente i “liberatori” statunitensi, nostri duri padroni, privi di scrupoli e pronti ad usare, come allora in Sicilia, tutte le mafie esistenti sul suolo nazionale per ridurci alla più completa obbedienza. A quel tempo non ci poté essere alcuna reale resistenza ad un’operazione avallata, per opportunità internazionale, dall’Urss. Adesso, nemmeno esiste più un’Urss; ci sono soltanto ancor troppo deboli potenze che aspirano a crescere, caratterizzate da un opportunismo ben superiore a quello sovietico.

Alla fine della guerra, il Pci era diviso in due anime. Da una parte i “secchiani”, che pensavano alla rivoluzione sociale. Dall’altra, i vincitori netti, Togliatti e la stragrande maggioranza del partito, che si avviarono verso il democraticismo, assai opportunistico, sfociato più tardi, negli anni ’70, nella preparazione del cambiamento di campo con tutti i processi da noi posti in luce più volte e conclusi dalla “svolta” (del piffero) della Bolognina e dal tradimento, per ondate successive, di tutti i cialtroni che “radicaleggiavano” a ciance. Mi dispiace per i nostalgici e i “vecchi babbioni”, rimasti a ripetere le giaculatorie dei “tempi di Marco Cacco”, ma l’unica via è puntare oggi ad una effettiva indipendenza nazionale. Già questa è assai problematica, perché si scontra con l’abitudine di quasi settant’anni a considerare i “cow-boys” i nostri liberatori e salvatori; per cui sempre ci domano. Bisogna armarsi dell’orgoglio del toro contro gli infami toreri. La lotta è impari perché vili picadores e banderilleros lo dissanguano già prima dello scontro finale indebolendolo; talvolta, però, riesce a infilzare il torero e perfino ad ucciderlo con sommo gaudio di chi odia i soprusi e le angherie.

Non abbiamo altre vie: o continuare a recitare la parte di coloro che appoggiano gli “oppressi e sfruttati”; e il risultato è ormai definitivo dopo le innumerevoli prove fornite dalla storia, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato dove alcuni “folli” sopravvissuti credono ancora esistano le “masse lavoratrici” che abbattono il capitale. Oppure ripiegare – perché per me è comunque un ripiego – su un minimo di difesa dei nostri interessi. In effetti, sia chiaro che non si tratta di semplice orgoglio da “toro perseguitato”. Abbiamo più volte mostrato – con gli esempi del conflitto tra i “ricardiani” e i “listiani” nell’800 – come si abbia a che fare con reali interessi in gioco. Senza autonomia, pochi farabutti, denominati “poteri forti” (da me invece GFeID, grande finanza e industria decotta), si avvantaggiano in piena combutta con i predominanti centrali; il resto della popolazione fa da “coretto”, lavora per questi ultimi e per i loro referenti nel paese dominato. E, logicamente, politicanti, giornalisti, intellettuali, sono gli autentici “vermi nel formaggio grasso” (prodotto dalla maggioranza); essi vivono e prosperano essendo soltanto maggiordomi, lacchè, servi di cucina o delle stalle (e soprattutto porcilaie) degli appena nominati.

Questi i nostri nemici. Li combattiamo con la consapevolezza della disparità delle forze. Ma se mai si comincia….. E si comincia dalla ricerca della nostra indipendenza per difendere gli interessi della maggioranza della nostra popolazione, in gran parte sempre inconsapevole e prona.