BASTA CON L’ECONOMICISMO, CONSAPEVOLE SCELTA REAZIONARIA (di GLG)

gianfranco

Si ha la netta sensazione, a mio avviso del tutto esatta, che si confonda continuamente la giusta e irrinunciabile polemica contro l’economicismo con la critica – consapevolmente rifiutata da chi difende quest’“ordine costituito” – di ogni tipo di analisi che abbia un carattere strutturale, analisi che è stata invece l’elemento di forza di teorie del tipo di quella di Marx.

L’economicismo prende sovente la forma che Marx definì <<feticismo delle merci>>, con la sostituzione dei rapporti tra cose (nel capitalismo le merci) ai rapporti tra uomini. In senso lato, si può secondo me parlare di economicismo quando tali rapporti interumani vengono nascosti da quantità definite economiche quali prezzi, profitti, quote di mercato, transazioni finanziarie, saggi di interesse e via dicendo. Un ragionamento fra i più banali in tal senso è, ad esempio, il seguente (usato perfino da certi pseudo critici del capitalismo): <<nell’anno 0 l’x% della popolazione possedeva l’y% del reddito nazionale (o magari del patrimonio nazionale, ecc.); nell’anno 0+t lo stesso x% ne possedeva l’y+z%>>. Se ne trae allora la conclusione di una evidente iniquità del tipo di società che consente una simile maldistribuzione della ricchezza, di un altrettanto evidente sfruttamento dei “miseri” da parte dei più “ricchi”, con il corollario (di un tempo ormai lontano) che si avvicinerebbe l’ora della ribellione dei primi.

E’ meglio poi non diffondersi sull’attuale mito delle quotazioni di Borsa, vista come “Dio” benefico (tutti avrebbero l’opportunità di arricchirsi) o come dominio del “Maligno” (si approssima una crisi spaventosa con grandi sofferenze per intere popolazioni). Oggi è assai di moda lo spread o ci si inchina ai giudizi di sedicenti società di rating (due americane e una inglese), veri organi di manovra politica da parte dei predominanti, attuata con la falsa obiettività delle cifre ottenute mediante calcoli ben adattati alle esigenze dell’inganno da perpetrare a danno di coloro che accettano la subordinazione ai prepotenti. Si tratta di rozzezze e grossolanità dal punto di vista di un corretto atteggiamento sia teorico che pratico; tuttavia, i loro propalatori si servono di media asserviti appunto alle esigenze di precisi paesi e gruppi dominanti. E altri gruppi di subordinati, che accettano per interesse questa loro condizione di dipendenza, si fanno essi pure diffusori di simili menzogne, avendo a disposizione tutti i mezzi per far accadere gli eventi drammatici profetizzati.

In realtà, simili considerazioni hanno la valenza e profondità di quelle di un individuo che viva sempre chiuso in una stanza e pensi all’intero mondo come ad una superficie piatta del tutto simile al pavimento della stessa. Ben diverso è il caso quando uno studioso serio dei rapporti tra uomini in una data società non si limita a trattarli alla stregua di interazioni tra individui prive di una qualsiasi strutturazione dell’insieme. Ad es., il concetto marxiano di modo di produzione definisce una intelaiatura, una mappa, di rapporti sociali, sia pure a grana grossa, che tende a mettere in luce alcune determinazioni decisive di date società (detto ancor meglio: di date forme di società o formazioni sociali).Detta intelaiatura, a mio avviso, non è la “riproduzione” (una sorta di fotografia) dei rapporti sociali secondo la loro presunta struttura “reale” in dati periodi storici, bensì una costruzione teorica che tende a mettere ordine nel caos delle innumerevoli interrelazioni tra i soggetti componenti la società in diverse epoche (e fasi di un’epoca) storiche. La teoria tenta di decifrare inoltre quali di simili interrelazioni sembrano essere le più decisive, le più influenti sulle dinamiche di quella data società; e si cerca di formulare qualche ipotesi circa la direzione di movimento e trasformazione della stessa.

Nessuna ipotesi teorica che metta ordine può tuttavia essere definita se non si parte dal riconoscimento che, nella interazione reciproca tra i molti soggetti componenti la società, si sono andati formando quelli che vengono definiti “ruoli” (le caselline della struttura pensata appunto come la più idonea a “mettere ordine”). E’ inoltre indispensabile trascegliere quelle che si suppongonoessere le principali funzioni svolte dai vari ruoli (e quindi dai soggetti che li occupano). Da questo punto di vista, il costrutto marxiano di modo di produzione trasmette le seguenti informazioni: a) l’esistenza di una struttura di ruoli e di relazioni tra ruoli, occupando i quali gli agenti formano delle classi (grossi raggruppamenti) sociali; b) la conseguente esistenza di funzioni cui sono adibiti tali agenti delle diverse classi, di alcune delle quali si può predicare l’essere dominanti e di altre l’essere dominate (eventualmente con l’indicazione di una serie di gradini intermedi) in relazione alle decisioni riguardanti sia gli assetti(economici, politici, ideologici, ecc.) di quella data formazione sociale sia le dinamiche di riproduzione o trasformazione degli stessi.

In mancanza di uno “schema d’ordine” – e il concetto di modo di produzione tale voleva essere – tutti i discorsi sulla società si fanno generici, confusi, rinviano ad erratici (casuali) flussi di potere o ad una sorta di psicologia degli agenti o ad una loro formazione ideologico-culturale di incerta derivazione senza “base” alcuna; ci si limita ad una serie di riflessioni di tipo sociologistico e/o politicistico, non certo ininteressanti, ma che senza dubbio risentono troppo fortemente delle preferenze e predisposizioni dei loro autori. Per questi motivi, sono contrario a ritenere ogni discorso (eminentemente teorico) intorno alle strutture (di ruoli e funzioni) come puramente affetto da un appesantimento d’ordine economicistico o, in altri casi, definito spregiativamente scientista. L’essere scientificamente rigorosi è un pregio, non un orpello fastidioso e da gettarsi alle spalle. So che è molto impegnativo e difficile – e bisogna perderci molto tempo, è necessaria la “lenta” riflessione e non la “meccanica” prontezza di riflessi, che spinge spesso all’improvvisazione – ma è l’unico modo per giungere più a fondo nella critica ai gruppi sociali, di vario ordine e grado, che si ergono a difesa dell’attuale struttura di rapporti tra dominanti e dominati. Anche la semplice lotta culturale – che da sola non è comunque sufficiente a rovesciare quel sistema di rapporti di potere – viene in ogni caso rafforzata da una rigorosa analisi dei sistemi sociali (di ruoli e funzioni).

E’ bene tuttavia ricordare che nell’attuale fase storica, di intenso sviluppo soprattutto tecnologico, si arriva spesso ad una deformazione parossistica del significato della scienza. Quest’ultima si fonda su ipotesi – nate appunto dall’esigenza di semplificare la realtà e di renderla idonea allo sviluppo di un agire nel mondo perseguendo determinate finalità – che non devono affatto essere fatte passare come una autentica e ormai esaustiva rappresentazione del complessivo mondo nel cui flusso siamo immersi. Le ipotesi sono e devono essere sempre così ritenutesemplici schemi d’ordine che, in un certo senso, fissano la realtà, la sua struttura e la sua dinamica, che sono invece eminentemente mutevoli, cangianti. Lo dobbiamo fare per agire, altrimenti ci perdiamo nel flusso degli eventi e siamo semplicemente travolti dal loro susseguirsi, di cui non siamo in grado di cogliere le infinite sfumature. Guai però se il presunto scienziato dichiara che quella data ipotesi è una certezza (“matematica”). Costui non ha nulla a che vedere con la scienza, ma solo con la prepotenza ideologica di una classe dominante (o di sue varianti interne) in crisi, in pericolo di perdita del potere. Gli “scienziati” diventano allora i moderni sostituti delle caste sacerdotali di tempi assai antichi, in cui erano il supporto dei gruppi dominanti; e spesso tendevano anche a sostituirsi a questi nei momenti di particolare crisi di quella formazione sociale. Questo tipo di scienza va disprezzato e combattuto e i suoi “alfieri” messi alla gogna, trattati da semplici ciarlatani.

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Venendo al dunque e a più modeste e attuali questioni, quando manifesto idiosincrasia per la “sinistra”, si fraintende spesso il mio discorso, prendendolo per umorale. Se si leggesse attentamente quanto scrivo in tema di ipotesi relative alle diverse frazioni di dominanti e alle loro funzioni riproduttive dell’odierno, terrificante, (dis)ordine sociale, ci si renderebbe conto di quanto la mia idiosincrasia per questa miserabile e meschina “marmaglia” politica sia tributaria di un’analisi del tutto realistica degli spregevoli servizi che essa rende alle frazioni dominanti in paesi asserviti ad una potenza predominante. La “sinistra” è un vero cancro o, se preferite, un’infezione che, lasciata agire, porterà alla dissoluzione dell’intera nostra società. Contro simile catastrofico pericolo non si è ancora in grado di far sorgere una forza politicacapace di espellerla dal consesso civile, di eliminarla da ogni possibile intervento nelle decisioni di paesi che intendano riconquistare una loro autonomia. Ci sono alcuni movimenti politici, ormai intossicati da una sedicente democrazia basata sul “mercato elettorale”, che credono di batterla appunto con il voto. Così essa continua ad esistere e a spargere i suoi veleni dissolutori. Occorrerebbe invece asportare del tutto le cellule cancerogene, usare un disinfettante di potenza risolutiva, in grado di cancellare questa “malattia”. La mia, dunque, non è idiosincrasia, è consapevolezza del pericolo di totale distruzione del nostro modo di vita, delle nostre tradizioni e cultura, ad opera di agenti che sembrano agire alla guisa di Sansone: se moriamo noi, facciamo crepare anche gli altri, distruggiamo l’intero consesso sociale.

Ancora molto tempo fa, alla fine degli anni ’60 del secolo scorso – nel mio periodo ancora pre-althusseriano e pre-bettelheimiano – scrissi due articoli (in “Ideologie” e nel “Che fare”, rivista diretta da Francesco Leonetti), in cui delineavo la progressione futura del Pci in quanto organizzazione in progressiva (e certo lenta data la “base operaia” del partito”)rappresentanza e “servizio” di quella che designavo allora ancora come “borghesia monopolistica”. Al di là della rozzezza di un’argomentazione ancorata alla tradizione (si tratta del resto diquasi mezzo secolo fa), feci una previsione molto in anticipo sui tempi, ma potei formularla in base ad un’analisi, pur ancora rudimentale, che non esito a definire fondamentalmente scientifica, anche se certo con i termini e l’intelaiatura teorica (marxista) di quei tempi. Qualsiasi analisi di superficie, culturalistica e quasi psicologistica, conduceva gli altri critici del capitalismo a parlare, al massimo, di “deviazione” piccolo-borghese del Pci e cose del genere. Aggiungo che subito dopo il mio ritorno dalla Francia (andai appunto a seguire Bettelheim e la scuola althusseriana frequentando l’EPHE a Parigi nel 1970-71), mi accadde un fatto ebbi un contatto ben rilevante per un “viaggio”, che poi mi rifiutai di intraprendere perché lo pensavo più pericoloso di quanto poi capii essere in realtà – che mi lasciò molto “pensoso” e un po’ sbalordito. Solo pian piano, negli anni successivi, riuscii da quell’evento ad afferrare che dovevano essere in atto alcuni contatti di un “certo tipo” per favorire, in modo coperto e prudente, il passaggio di campo del Pci verso l’atlantismo, processo che conobbe un momento “più scoperto” nel ’78 con il viaggio di un suo notevole esponente negli Stati Uniti, in concomitanza con la “faccenda” Moro (in possesso, ne sono convinto, di documenti, finiti chissà dove, comprovanti gli intendimenti di “nuove alleanze internazionali” di quella direzione del Pci).

Non intendo tediare oltre il lettore. Invito però tutti quelli che leggeranno queste poche pagine a meditare sull’uso a volte pretestuoso che viene fatto di polemiche contro l’economicismo, lo scientismo, ecc. Bisogna seguire attentamente l’evolversi dei fatti “reali”, ma non l’interpreteremo mai nel suo, almeno realistico (non proprio REALE), andamento e nel suo significato effettivo se non si è intenzionati ad assumersi la fatica e anche il tedio della “fredda” scienza. La si smetta di rincoglionirsi solo con internet, con i telefonini e altre novità tecnologiche, in evoluzione sempre più veloce in modo da far perdere a chi la segue ossessivamente ogni capacità di mettere per alcune ore il culo sulla sedia, leggendo vari documenti, ma essendosi preparati a capirli e inquadrarli nel loro significato per nulla affatto trasparente come sembra a prima vista. Si tenga inoltre presente che nelle scienze sociali non vi sono laboratori con provette e reagenti o acceleratori di particele o telescopi giganti, ecc. Lo scienziato sociale nemmeno può fare la verifica delle sue teorie mediante impegno diretto e immediato in tutte le situazioni (nei vari periodi storici e nei vari luoghi geografico-sociali) di cui ipotizza le strutture e dinamiche evolutive.

E’ ora di smetterla con l’ossessiva alimentazione della sola prontezza di riflessi. E’ ormai sempre più necessario riprendere ad allenarsi con la lenta riflessione, con il montare e smontare diverse ipotesi, senza innamorarsi di una soltanto d’esse per la noia di pensare. E anche quando si è divenuti molto convinti di una, se ne devono cogliere le sempre non poche sfaccettature e angolazioni dei punti di vista che esse consentono e anzi spesso impongono. E ricordiamoci pure che nel lottare per una causa non c’è sempre bisogno di mettere bombe e commettere atti molto spesso più che altro negativi. E’ anche utile far funzionare il cervello che ha la straordinaria capacità di immaginare strutture “architettoniche” in grado di mappare, di ordinare semplificando, il “territorio” (sociale non meno di quello naturale) in cui siamo costretti a muoverci, cercando di accrescere l’efficacia delle nostre azioni. E’ un discorso che non termina certamente qui.