Bengasi e dintorni (di Giuseppe G.)
Parto da alcune considerazioni su un reportage del Corriere d. Sera sulla situazione a Bengasi per arrivare a un resoconto, sullo stesso giornale, sugli attuali incontri di esponenti governativi russi con gli omologhi tedeschi e della Commissione Europea e a un articolo del Sole 24ore sul nuovo piano quinquennale in Cina. Tre argomenti distanti tra loro, non solo geograficamente, senza nessi causali diretti ma che possono offrire qualche bagliore sulla direzione presa da questo mondo.
A Bengasi, all'euforia e alla sicumera ostentata nei primi giorni di libertà sta subentrando il timore e la cautela. I quindici componenti il comitato provvisorio, buona parte professionisti, esponenti della borghesia cittadina, non rivelano più facilmente la loro identità. Temono l'eventuale rappresaglia delle forze fedeli a Gheddafi; inquieti per le scarse informazioni disponibili sul resto del paese, vittime loro stessi, quindi, della campagna di disinformazione, non conoscono le altre forze a sostegno della rivolta, molto probabilmente ne sospettano la natura. Pare che il primo sostegno militare alla rivolta sia partito da veterani della guerra in Afghanistan; quelli, per intendersi, foraggiati da americani, sauditi e pakistani, rientrati da anni nella Cirenaica e nell'interno del paese e per troppo tempo disoccupati cui via via si stanno aggiungendo una parte delle varie tribù del paese, presso le quali, molto probabilmente, deve essersi svolto un intenso lavorio di intelligence.
La dimostrazione che il pragmatismo di Obama riesce a giostrare meglio tra le contraddizioni del mondo islamico sino a contrapporlo, nelle frange reazionarie, ai movimenti nazionalisti sia pure in decomposizione.
Uno scenario difficile da conciliare con le illusioni democratiche coltivate dai pionieri della rivolta, tanto più che la spallata non è stata risolutiva e lo scontro rischia di impantanarsi. Lo scenario migliore per consentire l'intervento di forze esterne a presidio più che altro dei giacimenti minerari e di idrocarburi e delle vie di comunicazione. Per il resto il paese potrà pure smembrarsi; una ragione in più per presidiarlo. Desta tenerezza la confessione dei giovani promotori della rivoluzione via web i quali sono stupefatti del loro successo, ma non sanno bene come proseguire. Nella migliore delle ipotesi è una conferma che lo spirito naif, la passione senza testa, porta in tutt'altre direzioni e manipolazioni; è il dramma o la pantomima, a seconda dei casi, di questi ceti borghesi, magari bistrattati dal regime, i quali si ribellano senza individuare una precisa loro collocazione nell'interesse nazionale e diventano strumenti di interessi stranieri prima di essere in parte, loro stessi, sacrificati. Tra gli stranieri maramaldi ci sono anche gli amici di Gheddafi di dieci giorni fa; in cambio potranno compartecipare al bottino sul posto, magari lo stesso già acquisito con i contratti precrisi, in cambio di concessioni e cedimenti su qualche altra scacchiera più importante.
Nel frattempo sono iniziati intensi colloqui tra una delegazione russa di alto livello da una parte e la compagine governativa tedesca e i commissari europei dall'altra.
Sornioni, i russi rilevano che a North e South-Stream conclusi, la crisi libica non avrebbe arrecato danni seri all'Europa. Di condanna delle ingerenze in Nord-Africa manco a parlarne. Da alleati e strateghi di un asse energetico algerino-libico-italo-russo a sciacalli profittatori di disgrazie altrui. Interessi di bottega anteposti alla geopolitica con l'aggravante di un offerta a paesi che hanno già scelto, probabilmente, di raccogliere le briciole della torta libica. Per il resto rimane il contenzioso sulla liberalizzazione del mercato energetico interno all'Europa che rischia di escludere Gazprom da un mercato già acquisito, con gli attuali contratti, in compartecipazione con le società di cui la Commissione chiede lo smembramento. A nulla sono valsi i rilievi fondati dei russi sul fatto che la liberalizzazione porterà ad una lievitazione dei prezzi del gas. Stessa impasse sulla richiesta di ingresso dei russi, attualmente unico grande paese escluso, nel WTO, se non a patto di una totale liberalizzazione degli ingressi di merci e capitali. La stessa politica o resa che, in pratica, stava portando al crack la Russia di Boris Eltsin, quando a Cina, Corea, Tigri Asiatiche sono state concesse, invece, ben altre protezioni commerciali a tutela del loro sviluppo industriale complementare agli USA. La Russia resta, quindi, il nemico; mancano ancora, in Europa, solide sponde che possano stabilizzarla come contrappeso agli USA.
Una attenzione particolare merita il prossimo piano di sviluppo quinquennale in Cina. Da economia esclusivamente rivolta alle esportazioni ad una economia dallo sviluppo più diffuso nel paese, con redditi più alti anche degli strati poveri, con un processo di industrializzazione dell'agricoltura, con una lievitazione della spesa pubblica sociale ma soprattutto di investimento. Le conseguenze saranno una rarefazione dei fondi sovrani cinesi disponibili a finanziare l'occidente e, quindi, il potenziale inceppamento di quel ciclo perverso, ampiamente sperimentato con Giappone, paesi arabi petroliferi ed altri che riporta soprattutto negli Stati Uniti quei capitali che in qualche maniera fuoriescono dal centro dell'impero o che vengono valorizzati altrove; ma anche una concentrazione di risorse, probabilmente, per la costruzione di una formazione e di uno stato attrezzato ad una politica di potenza. Si tratta, comunque, di un processo più che decennale che lascia ampi margini agli Stati Uniti per la prosecuzione nel medio periodo della loro politica di potenza egemone, tanto più che la Cina appare invischiata in una visione economicista che la divide tra la attrazione verso la Russia sulle politiche energetiche presenti e quelle future riguardanti l'area artica e quella più potente dei vincoli tecnologici e finanziari che la legano all'Occidente.
Una situazione generale, probabilmente, di debolezza, attendismo ed opportunismo che incentiva il dinamismo americano