BERLINGUER, IL “TRAGHETTATORE” COMUNISTA
Enrico Berlinguer, come segretario del Pci dal 1973 al 1984 (anno della morte), ha rappresentato la figura più congeniale, tra tutta la dirigenza comunista, ad una contiguità politica di Togliatti, anche se in totale assenza di una tradizione del marxismo, in una irreversibile subordinazione nazionale nei confronti del paese dominante Usa, siglata dapprima dalla caduta del muro di Berlino (‘89) e poi da “Mani pulite” (‘92) Riflettere su quel periodo storico è alquanto problematico, e di difficile lettura per un ostacolo posto dalla grossa icona berlingueriana, la cui venerazione ha creato un vuoto di analisi storica che, a tutt’oggi, non sembra essere minimamente colmata dai politologi più in auge del politicamente corretto.
Una prima riflessione, comunque, s’impone: anzitutto, la sua nomina a segretario politico fu frutto di una mediazione, tra le due correnti (destra-sinistra) principali del Pci che incarnassero meglio, la continuità politica dell’anima più profonda e popolare del togliattismo; oltre a garantire una sostanziale unità politica difesa ad oltranza dell’inossidabile “Centralismo Democratico;” e poter affrontare così, senza tanti scossoni e cambiamenti, la sua base elettorale, costretta a subire una lunga e impetuosa navigazione attraverso i “marosi” di un profondo cambiamento del Capitalismo italiano; una conseguenza inevitabile di uno snaturamento della politica togliattiana, che sopravvissuta fino alla fine degli anni ’60, aveva garantito, se non altro, le condizioni primarie di sopravvivenza dei lavoratori italiani, grazie e soprattutto ad una lunga fase di sviluppo economico, i cui artefici principali furono l’insieme del politici democristiani con la parte di management delle imprese pubbliche e private sopravvissute al fascismo.
Il primo scritto di Berlinguer sul “Compromesso Storico” del 1973 per un governo con la Dc, all’indomani del Golpe Usa in Cile, dettò l’inizio di quel grande cambiamento della vita politica e sociale italiana in cogestione politica con la dirigenza politica dei governi della Dc, e che si allungò come un’ombra inquietante sulla perdita progressiva di una sovranità statale, presidio quest’ultima, di uno sviluppo industriale più competitivo ed in garanzia delle condizioni di vita dell’intera popolazione. Un compromesso appena nato e già in posizione di stallo per i tanti ostacoli frapposti dalle più importanti strutture capitalistiche italiane ancora in fase di transizione, oltre che dalle basi elettorali della Dc e del Pci oltre che delle basi elettorali della Dc e del Pci, i cui contrasti la dirigenza comunista cercò di rimuovere e superare, onde avviare un nuovo corso politico per un convinto inserimento nei meccanismi della riproduzione capitalistica italiana
L’articolo successivo del 1979, apparso sul settimanale “Rinascita” dal titolo “Il compromesso nella fase attuale,” ricalca e precisa ulteriormente il primo mettendo maggiormente l’accento nell’ aspro scontro frontale tra i “partiti di progresso e forze moderate e conservatrici.” Berlinguer dovette perciò (ri)partire dalla propria base elettorale, ancora in parte, anagraficamente togliattiana, i cui echi politici non si erano del tutto spenti, nei bagliori (ultimi) di una lunga stagione di lotte operaie che si legavano con l’insieme del partito, così da renderlo ad un tempo coeso e disponibile ad ogni vento del cambiamento. Il richiamo forte alle proprie origini si poteva realizzare citando un Togliatti del 1946 (apparso su “Rinascita”), che definì la lotta a De Gasperi (Dc) come fase di un “preciso compromesso tra le grandi ali ( progressista e conservatrice) del fronte antifascista,” un compromesso che poteva essere realizzato come collante sociale per avviare e realizzare una “democratizzazione del paese.” Anche se la “ democratizzazione dei conservatori” era venuta meno “ per la mancata presa di coscienza da parte loro delle condizioni reali della vita economica e della lotta politica in Italia” Ciò li portò a “riproporre e perseguire una politica di liberalismo ad oltranza, del tutto indifferenti alle pericolose conseguenze di essa; del tutto ciechi al processo di putrefazione e di caos, che comincia a manifestarsi nel paese per la chiara insufficienza della loro direzione economica; del tutto incapaci, quindi, di difendere seriamente i loro stessi interessi”
Quel richiamo a Togliatti fu una “chiamata alle armi” rivolta ad una consolidata base ideologica, da cui ripartire trent’anni dopo la fine della “guerra di liberazione;” una rivisitazione della tradizione comunista togliattiana, in un Compromesso tra tutte le forze politiche che avevano combattuto contro il fascismo, con la possibilità di (ri)comporre sotto l’insegna del movimento
operaio una “nobile sintesi politica,” nella cui missione storica era inscritto un governo da dare al paese, in modo da comprendere la difesa degli interessi dei capitalisti conservatori italiani “incapaci di difendere se stessi;” un’evocazione parossistica, in un linguaggio doppio, tra quello più diretto e formale rivolto alle difesa delle “masse,” insieme a quello sostanziale nel porsi come interlocutore nei confronti di un capitalismo italiano in piena trasformazione.
Con il senno del poi, si può rivisitare grossolanamente il periodo storico del Pci, dal dopoguerra ad oggi, suddividendolo in tre momenti distinti: il primo, quello di Togliatti (in vita), il secondo, di Berlinguer segretario politico del Pci (dal ’72 al ’84) ed il terzo, nel dopo “Mani Pulite” con la completa dissoluzione politica del piciismo. L’intero periodo in esame, visto nel suo insieme, rappresentò un tendenziale e progressivo processo di avvicinamento del Pci al grande Capitalismo Italiano (definito nel blog ripensaremarx come GF e ID: GRANDE-FINANZA e INDUSTRIADECOTTA) il cui inizio, si può collocare negli anni Sessanta, nell’amendoliana e dignitosa proposta delle “ alleanze “tra i produttori” (classe operaia + piccole imprese), che siglava nel nuovo corso politico del Pci della “Programmazione Democratica” nella lotta comunista contro i Monopoli privati; e che, “in corso d’opera,” subì una sostanziale modifica programmatica nata da “un’impellente necessità storica,” come compromesso storico della classe operaia con il grande Capitale; una sorta di “democrazia economica da far crescere dal basso,” in un mondo rovesciato dove la classe operaia si doveva far carico della produttività, paragonabile ai tortuosi percorsi ideologici delle politiche socialdemocratiche europee, sempre alla ricerca di accordi con il grande capitale ( si ricorda il “capitalismo diffuso dell’azionariato popolare” di origine anglosassone); tutti prodromi ad una penetrazione del Capitalismo Manageriale Usa ( o dei “funzionari del capitale”) in sostituzione a quello Borghese Ottocentesco, grazie anche al supporto provvidenziale delle politiche di “liberalizzazione dei capitali,”evocate da tutti i governi europei degli anni Settanta.
Del resto, l’operazione politica tanto auspicata, di un Pci al governo ( anni ‘70), avvenne soltanto quando si esaurì la spinta propulsiva di uno sviluppo economico italiano degli anni ’60; un’occasione unica per chiudere una fase di emarginazione politica e realizzare sulla fine di quel ciclo storico (comprendendone in questo anche le strutture organizzative e manageriali tecniche del “Ventennio fascista”) una sostanziale trasformazione, da partito di opposizione a partito di governo; anche se nel contempo, occorreva un forte richiamo ideologico del “Compromesso,” già avviato da Togliatti con la “Svolta di Salerno;” una chiamata patriottica, sotto il segno dell’antifascismo e rivolta a tutte le forze politiche che aderirono alla “resistenza”, con un valore aggiunto di una “democrazia progressiva” (di impronta togliattiana) da estendere in modo progressivo con l’ingresso del Pci nelle istituzioni, senza perdere di vista il Socialismo; un processo democratico, in cui i piciisti diventassero il vero motore di ogni trasformazione sociale (con il Pci definito da Berlinguer “il partito delle mani pulite”) ed in grado perciò di collocarsi al centro della vita politica italiana, non solo per la loro funzione carismatica ed elettiva, quanto nel porsi come gli interlocutori fondamentali per ogni cambiamento politico.
Quello che si può intanto rilevare è che con la politica di Berlinguer si iniziò una presa di distanza politica “concordata,” entro i due modi bipolari (1), per una (ri)collocazione intanto solo ideologica, assecondando le superiori e più forti necessità geopolitiche; a mo’ di esempio, si possono riportare le affermazioni di Berlinguer “sull’esaurirsi della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre” oppure la possibilità di “ un Eurocomunismo,” o infine un inserimento, di fatto, nella Nato (inizio anni ’80); rimane ancora sullo sfondo una inespressa “mossa politica” del suo comizio ai cancelli Fiat che ha siglato una apparente (anche qui concordata?) sconfitta politica, siglata dalla “riscossa della marcia dei 40 mila quadri Fiat,” suggerita e gestita dai soliti Agnelli e Cesare Romiti.
Certo è che Berlinguer non poteva prevedere un crollo così improvviso del “muro di Berlino” con i suoi epiloghi, nell’improvvisa e definitiva chiusura della lunga esperienza piciista, poi gestita in forme sempre più fallimentari e risibili dai “nipotini del Pci” (in testa Occhetto ed a seguire, D’Alema, Veltroni..); si può soltanto suggerire, in attesa di una ricostruzione più compiuta dei quel periodo, l’esistenza di un collegamento “tra le frazioni interne ai due Partiti comunisti (italiano e sovietico). Rimane intanto, il chiaro significato politico della politica berlingueriana volta a “traghettare” il partito comunista verso un riconoscimento politico a pieno titolo, di un Partito di Governo, in quanto interlocutore politico “più affidabile” nei confronti degli interessi Usa, grazie ad una grande illusione storica che fu un patrimonio ideale di tutti i movimenti operai, che una forza ideologica accumulata dalla tradizione socialista del Novecento dovesse o potesse servire a gestire i processi capitalistici dal loro interno.
All’articolo, suindicato del ’79 seguì un dibattito a cui parteciparono vari intellettuali e politici del Pci come Badaloni, Napoleoni, Paggi, Magri.. con interpretazioni tese, per lo più, a nascondere la reale portata della svolta politica in atto; anche se alcune verità, sul significato reale e pratico, del compromesso lanciato, emersero in modo chiaro che, con il senno del poi, si imposero come verità storica, come l’aggancio in corsa, in sostituzione della Dc e del Psi, al carro vincente del capitalismo Usa; e da questo punto di vista non si può negare all’accolita genìa del gruppo dirigente comunista italiano (unico sopravvissuto in Europa al crollo del muro di Berlino ed a “mani pulite”) una grande lungimiranza politica, oltre ad un grande fiuto negli affari.
Un dibattito che si divise tra due convergenze ideologiche, in una sorta di “ breviario del bravo piciista;” da un lato la creazione del consenso attraverso l’ideologia sparsa a piene mani sulle necessità di portare a termine la missione storica; dall’altra, le convenienze politiche che, tale missione a lavoro ultimato, avrebbero arrecato a tutto il movimento operaio.
Il particolare contesto politico di quel dibattito fu del resto, a ridosso dell’uccisione di Moro da parte delle Br, dei movimenti del ’77 e della grave crisi economica-sociale in atto con l’inflazione che viaggiava con due cifre. Ecco perché non fu tanto peregrina la preoccupazione dello storico del Pci Leonardo Paggi circa la tenuta dello sviluppo economico e che sotto la guida del Centro-Sinistra volgeva ad un deterioramento dovuto ad “una nuova fase di Riformismo Borghese (o Neocapitalismo) … e di una minaccia di integrazione (borghese) del movimento operaio come conseguenza dell’evoluzione del capitalismo italiano… occorre che il movimento operaio si inserisca in una dinamica di crescita ormai data, puntando ad introdurre, soprattutto con gli strumenti dell’intervento statali, quegli elementi di razionalità e di equilibrio altrimenti irrealizzabili” in questo nucleo essenziale di analisi, in cui si possono trovare uomini delle varie rappresentanze politiche e finanziarie come Lombardi, La Malfa e Saraceno; Togliatti, secondo Paggi, fu quello che maggiormente liberò il contrasto storico insoluto tra riformismo e massimalismo. “ In primo luogo l’eliminazione di ogni opposizione di principio tra comunismo e riformismo che assume in Togliatti la forma di una revisione sostanziale del giudizio di Gramsci su Giolitti… Il diverso rapporto pratico che a partire dal 1945 si è realizzato tra classe operaia e società nazionale consente dunque di guardare al riformismo borghese non come a un pericolo, a una iattura, ma anzi per certi aspetti come alla condizione più favorevole di lotta. Ecco perché i propositi che si annunciano con il centro sinistra non possono essere per Togliatti quello che era stato per Gramsci il giolittismo … I pericoli per il movimento operaio non nascono quindi dai propositi neogiolittiani delle classi dirigenti; bensì dalla possibilità che l’allargamento dell’area democratica perseguito dalla Democrazia Cristiana si traduca in una nuova tappa della rivoluzione passiva. Non il riformismo borghese, ma il trasformismo e la vera minaccia … sul movimento operaio”
Eppure permasero in quel dibattito delle ragioni di fondo, pienamente sottaciute, che con buona probabilità sono da ricercarsi nelle ragioni geopolitiche impresse dalla maggiore potenza Usa, con la coincidenza dei propri interessi alla maggior affidabilità del Pci, dovuta alle ipotesi di fondo espresse dal “cantiere” del compromesso storico e che furono riassunte, con una certa chiarezza di intenti circa la portata della svolta storica in atto, da Lucio Magri della sinistra-sinistra ingraiana. “La linea del compromesso storico nacque con una base programmatica abbastanza definita, e sulla quale ottenne ampi consensi. Era l’ipotesi di una ripresa dello sviluppo produttivo fondata da un lato sulla lotta alle mille forme di parassitismo cresciute all’ombra del regime democristiano, e dall’altro lato sulla estensione dei consumi collettivi come nuovo elemento trainante (i nuovi pacchetti di domanda). Non era evidentemente, un’ipotesi legata, come lo fu il centro-sinistra, alla fiducia nella capacità auto propulsiva del sistema, ma si reggeva comunque ancora sulla fiducia che esso conservasse una forte potenzialità di espansione, e che anzi vi fosse una convergenza oggettiva di interessi tra classe operaia e grande capitale per realizzare, contro il blocco burocratico -parassitario, una serie di riforme come condizione stessa del nuovo sviluppo.”
(1) Nel 1975, con Breznev segretario del Pcus furono sottoscritti (con Usa e Europa) gli “Accordi di Helsinki,” a conclusione della I° Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa; dopo un breve interregno dei due anziani segretari, Andropov (82-84) e Cernenko (84-85), con la segreteria di Gorbaciov maturò un tentativo di svolta radicale alla guida da una frazione partitica del Pcus: Corbaciov apri le porte a modifiche istituzionali nelle elezioni del Congresso dei soviet (marzo 1989), con candidature “estranee” al Partito Comunista (verosimilmente in combutta con gli Usa per una antesignana “rivoluzione verde o arancione); un periodo di grandi cambiamenti politici con una riforma radicale (glasnost=trasparenza) che minava lo stato di diritto alle sue fondamenta, con forti ripercussioni riguardo ad una caduta improvvisa della sovranità nazionale dell’Urss (ed a cui seguì, di lì a poco, la caduta del muro di Berlino dell’89).
Gianni Duchini agosto ‘09