BIFO: DAL POTERE OPERAIO ALLA CORTE DEL RE di G.P.
In un’epoca torbida come l’attuale, piena zeppa di ideologie prêt-à-porter, il prodotto revisionistico, più o meno commissionato, continua ad essere molto richiesto e ben retribuito. Se la televisione, e i media in generale, debbono banalizzare corsi e ricorsi storici per poter far presa sul grande pubblico – attraverso uno schematismo concettuale che pretende di armonizzare le contraddizioni sociali all’ambiente emozionale, collettivo e individuale, di questa fase capitalistica – il “ceto dei pensatori” ricorre, invece, alle più disparate teoresi per sostenere il proprio delirio intellettualistico (psicologismo, sociologismo, filosofemi vari, ecc ecc.). Vale a dire, gli intellettuali ricorrono alla dialettica e alla raffinazione filologica per giustificare le proprie allucinazioni mentre i media "popolari" si accontentano di diffondere un più prosaico riduttivismo (la teoria degli opposti estremismi) per segnare l’insopprimibile immutabilità del mondo-così-com’è e come-sempre-sarà, con buona pace di chi pensa ancora alla trasformazione sociale.
L’articolo di Bifo su Lenin, pubblicato su un quotidiano che porta in epigrafe la dicitura comunista, è uno di quei vaneggiamenti finto-colti coi quali gli intellettuali celebrano edonisticamente il loro sentirsi "all’altezza dei tempi" (Lenin avrebbe parlato di eterni utili idioti).
Bifo, si chiede subdolamente, già al principio dell’articolo: vi prego di domandarvi sinceramente, a proposito del 1917: ebbe ragione Lenin a precipitare la crisi russa per realizzare la sua rivoluzione contro Das Kapital, oppure avevano ragione Martov e gli altri menscevichi a respingere il soggettivismo di quella rottura? E se invece di questa preghiera ce ne avesse porta un’altra, del tipo:vi prego di domandarvi, sinceramente, a proposito del 1917: ebbe ragione Lenin a fare la sua rivoluzione per tirare fuori
L’unica voce di buon senso (insieme a pochissime altre) che si levò dalla Russia devastata dalla guerra e dalla miseria sociale fu quella isolata di Lenin. Questi grazie “alla tenacia che riusciva a mettere in qualsiasi sforzo ritenuto necessario" (riutilizzo le stesse parole di Bifo ma in un senso più positivo) garantì alla Russia l’uscita da una macelleria che si faceva ogni giorno più sanguinolenta. Questa tenacia, appunto, aveva condotto il rivoluzionario della lena a salvare il suo popolo dalla distruzione. Lenin si era consumato la salute nei contrasti col suo partito, giungendo più volte a minacciare le dimissioni allorquando questo si lasciava incantare dalle "sirene" della borghesia. Così, per esempio, quando il Comitato Centrale del Partito Bolscevico sceglieva di prendere tempo sulla concessione dell’autorizzazione alla firma degli accordi di pace. Lenin era ben conscio delle condizioni vessatorie che
Eppure, Bifo, vede in Lenin i semi della pazzia (inutile parlare di depressione, si chiamino le cose col loro nome e ci si assuma la responsabilità di portare fino in fondo le proprie prese di posizione): “le (sue) crisi depressive più acute coincidono con le svolte politiche decisive impresse da Lenin al movimento rivoluzionario”, o ancora: “le svolte impresse da Lenin alla rivoluzione e al partito sono frutto di scelte intellettuali che non hanno saputo interpretare l’ossessione volontaristica del maschio di fronte alla depressione”. E’ difficile commentare invasamenti come questi, preferisco che siate voi a giudicare chi tra Lenin e Bifo sia il vero pazzo.
Franco Berardi Bifo (fonte Liberazione)
Vi prego di domandarvi sinceramente, a proposito del 1917: ebbe ragione Lenin a precipitare la crisi russa per realizzare la sua rivoluzione contro Das Kapital, oppure avevano ragione Martov e gli altri menscevichi a respingere il soggettivismo di quella rottura? Dal punto di vista della storia del movimento operaio novecentesco, dal punto di vista dell’autonomia strategica della società dal capitale, sono convinto che il ventesimo secolo sarebbe stato un secolo migliore se Lenin non fosse esistito. Soprattutto migliore sarebbe stata la sua conclusione e la sua eredità.
Dal punto di vista intellettuale e umano, c’è una distanza abissale tra Lenin e il suo successore, ciononostante occorre riconoscere la tragedia totalitaria dell’epoca staliniana è conseguenza lineare del culto paranoico del partito elevato da Lenin a incarnazione del logico destino della Storia.
Lenin ha modellato la storia politica del Novecento (non solo la storia del movimento operaio, ma della forma-Stato in generale). Non avrebbe potuto farlo se la sua visione della politica non avesse interpretato una corrente profonda della psichismo maschile moderno. Il narcisismo maschile si scontra con la potenza infinita del Capitale e ne esce frastornato, umiliato, fino alla depressione. A mio parere la depressione di Lenin è un tema centrale per comprendere la sua parabola esistenziale, ma anche per comprendere il ruolo che ha potuto svolgere nella formazione della politica tardo-moderna. E’ Lenin come uomo, e come maschio, che occorre analizzare se vogliamo ripensare la soggettività comunista novecentesca. Per liberarcene forse, o per rifondarla non so.
Ho letto Lenin, (1998, Fayard, Paris), la biografia scritta da Hélène Carrère D’Encausse, una studiosa di origine georgiana autrice fra l’altro del libro L’empire en miettes che a metà degli anni ’80 anticipò il collasso dell’impero sovietico attribuendone la causa all’insorgenza integralista islamica. Quel che mi ha interessato di questo libro non è tanto la storia dell’azione politica di Lenin, ma la vita personale, il fragile equilibrio psichico, il rapporto affettuoso e intellettuale con le donne della sua vita. La madre, la sorella, e
Il quadro psichico che descrive l’autrice del libro è di tipo depressivo, ma quel che mi interessa sottolineare è il fatto che le crisi depressive più acute coincidono con le svolte politiche decisive impresse da Lenin al movimento rivoluzionario.
Dice Carrère D’Encausse:
" … a più riprese questa caratteristica del suo carattere ebbe però anche degli effetti nefasti. Gli sforzi troppo intensi lo spossavano, logorando un sistema nervoso senza dubbio fragile. La prima crisi risale al 1902…" (ed it. pag. 78)
Sono gli anni della svolta bolscevica, gli anni del "Che fare?".
Una crisi nel 1914, quando matura la rottura internazionale del movimento comunista dalla Seconda internazionale, e Lenin afferma che il proletariato non ha nazione.
La terza crisi nella primavera del 1917, quando
A prescindere dalla qualità politica delle scelte fondamentali compiute da Lenin, alcune delle quali si sono rivelate catastrofiche nella storia del ‘900, mentre quella del 1914 rimane a mio parere una lezione attualissima, quel che mi sembra importante è l’incapacità maschile di accettare la depressione, di elaborare la depressione dall’interno. Qui sta la radice del volontarismo soggettivista rivoluzionario che ha prodotto lo scacco dell’autonomia sociale nel corso del Novecento.
Le scelte intellettuali del leninismo sono state così potenti perché hanno saputo interpretare l’ossessione volontaristica del maschio di fronte alla depressione.
La concezione leninista del partito (che nasce proprio nel corso della prima crisi acuta) contiene un’idea paranoica di purezza, che risente del nucleo filosofico del cristianesimo ortodosso. Lenin non ebbe mai propensioni religiose, ma nell’ambiente dell’intelligentzia di fine ottocento l’influsso dell’ortodossia è importante. In apertura del suo "Che fare?" Lenin cita una lettera di Lassalle in cui si dice che "epurandosi il partito si rafforza".
L’idea dell’epurazione non va banalizzata. Presuppone una purezza da restaurare.
"La classe operaia è in grado di elaborare solo una coscienza sindacale, ma non giunge a considerarsi in alternativa a tutto il sistema, lotta sì contro il capitale ma sentendovisi legata."
Questa impurità della classe operaia va superata, attraverso l’epurazione, perché la società si adegui infine alla sua pura idea. E solo un partito che sia portatore del Verbo, e non aggregato carnale di corpi sociali impuri, può essere il portatore di questo superamento, di questa rivoluzione.
La storia reale dell’autonomia operaia nel corso del Novecento non ha avuto nulla a che fare con questa purezza. E’ stata piuttosto rifiuto e motore dinamico, si è posta fuori dalla logica del capitale senza interrompere il rapporto con l’innovazione che il capitale subisce e agisce. L’autonomia presuppone una elaborazione "morbida" della depressione, la disponibilità ad accettare la propria finitezza, l’impotenza a cambiare demiurgicamente il mondo, la necessità di confrontarsi col capitalismo rifiutando di subirne il dominio, ma sfruttandone la capacità innovativa.
La rifondazione del mondo, l’abolizione dialettica è un falso storico. L’abolizione non si è mai data nella storia. Ci sono stratificazioni, ritorni, risacche, convivenze, estraneità. Ma non abolizioni.
E l’idea di purezza, l’imposizione della volontà sull’intelligenza (depressiva) non può che preparare il collasso.