Bravo ma non troppo
Sul sito sinistra in rete a questo link (https://www.sinistrainrete.info/teoria/19961-salvatore-bravo-lo-sconfittismo-di-g-la-grassa-funzionale-al-neoliberismo.html) è stato pubblicato un articolo di Salvatore Bravo con il titolo ‘Lo “sconfittismo” di G. La Grassa funzionale al neoliberismo’.
Il titolo è già equivoco. Lo sconfittismo di La Grassa non è funzionale a nulla perché non esiste. Ammettere, come ha fatto il Nostro, che una stagione teorica si sia definitivamente chiusa, anche a causa di una deriva ideologica nella quale il pensiero ha smesso da tempo “di pensare” e di macinare comprensione, è atto di “scienza, coscienza e conoscenza”. La scienza deve continuamente superarsi per cogliere nuovi aspetti della vita che evolve in strutture sempre differenti. Facciamo un esempio caro a Marx o, meglio, a Engels che ne scrive nella prefazione al II libro del Capitale:
“La storia della chimica ci può offrire un utile esempio. Ancora verso la fine del secolo scorso dominava, com’è noto, la teoria flogistica, secondo la quale l’essenza di ogni combustione consisteva nel fatto che dal corpo comburente si separa un altro corpo ipotetico, una materia combustibile assoluta, che veniva designata con il nome di flogisto. Questa teoria riusciva a spiegare la maggior parte dei fenomeni chimici allora conosciuti, se pure, in molti casi, non senza qualche violenza. Ora, nel 1774 Priestley descrisse una specie di aria «che trovò così pura, ossia così immune da flogisto, che l’aria comune al suo confronto appariva già corrotta». Egli la chiamò: aria deflogistizzata. Poco dopo Scheele in Svezia descrisse la stessa specie di aria, e ne dimostrò la presenza nell’atmosfera. Egli trovò pure che essa scompare se si brucia un corpo in essa o nell’aria comune, e la chiamò perciò aria di fuoco. «Da questi risultati trasse quindi la conclusione che la combinazione che nasce dall’unione del flogisto con una delle parti costitutive dell’aria» (dunque dalla combustione) «altro non è che fuoco o calore, che fugge attraverso il vetro». Sia Priestley che Scheele avevano descritto l’ossigeno, ma non sapevano che cosa avessero tra le mani. Essi «rimanevano prigionieri delle categorie “flogistiche” così come le avevano trovate belle e fatte». L’elemento che doveva rovesciare tutta la concezione flogistica e rivoluzionare la chimica, era caduto infruttuosamente nelle loro mani. Ma Priestley subito dopo comunicò la propria scoperta a Lavoisier a Parigi, e Lavoisier, avendo a disposizione questo fatto nuovo, sottopose ad esame l’intera chimica flogistica, e scoperse solo che questa specie di aria era un nuovo elemento chimico, e che nella combustione non si diparte dal corpo comburente il misterioso flogisto, ma che questo nuovo elemento si combina con il corpo; così soltanto egli mise in piedi l’intera chimica, che nella sua forma flogistica se ne stava a testa in giù. E se anche non ha descritto, come più tardi ha preteso, l’ossigeno contemporaneamente agli altri e indipendentemente da essi, tuttavia egli rimane il vero e proprio scopritore dell’ossigeno di fronte a quei due, i quali lo hanno meramente descritto, senza minimamente sospettare che cosa avessero descritto”.
La teoria “flogistica” che pure riusciva a spiegare molti fenomeni si era rivelata sbagliata, occorreva sopravanzarla. Col senno di poi possiamo dire la stessa cosa della teoria di Marx nella parte in cui costui aveva previsto la formazione, nelle viscere medesime del processo produttivo capitalistico, di una nuova classe intermodale portatrice di rapporti sociali avanzati che avrebbero scavalcato quelli capitalistici. Perchè? Perché lo sviluppo delle forze produttive avrebbe rotto l’involucro dei vecchi rapporti di produzione (ormai troppo limitanti le potenzialità delle prime) causando il sovvertimento del modo sociale di produrre.
Marx aveva colto l’importanza dei conflitti come chiave di lettura principale dei fatti sociali (abbiamo il flogisto) ma aveva frainteso la dinamica oggettiva che determinava la reale divaricazione delle soggettività in contrapposizione per la predominanza. Ora possiamo e dobbiamo dirlo, la storia non è storia di lotte di classi ma di classi dominanti (forse abbiamo l’ossigeno). In questa battaglia i ceti subalterni vengono, certamente, trascinati in ogni modo ma non posseggono l’intelligenza del dominio, ovvero la materia strategica per ergersi a classe superiore, figurarsi a classe universale che abolisce la società divisa in classi. Quest’ultimo aspetto era per Marx non una prerogativa della volontà soggettiva (dei buoni proletari in ascesa) ma una necessità oggettiva manifestantesi con gli innovativi rapporti sociali comunistici. Solo nel regno dell’abbondanza “oltrecapitalistico” i conflitti sociali si trasformano, finalmente, da lotta per la sopravvivenza in contraddizioni minori.
Se pur dal grembo del proletariato emerge una qualche avanguardia (che solitamente è molto spuria perché coinvolge gli esclusi dei ceti superiori) questa si strutturerà necessariamente come un ristretto gruppo dominante (pensiamo ai bolscevichi) che governa il popolo. Il popolo non può mai governarsi da sé perché non c’è orchestra che suoni senza il suo direttore. Aver spostato il baricentro della disputa di classe nella sfera economica (anche più largamente intesa, come processo di ri/produzione sociale), quindi al livello del conflitto Capitale/Lavoro, ha portato Marx ancor più fuoristrada. Forse, Pareto aveva colto meglio di lui la questione quando parlava di Storia come cimitero di élite. Non, dunque, liberi contro schiavi, patrizi contro plebei, baroni contro servi della gleba, membri delle corporazioni contro garzoni, oppressori contro oppressi ma oppressori contro oppressori e anche oppressi. In Marx manca pertanto questa dimensione “politica” orizzontale a cui viene preferita una “verticale economica” dei rapporti di forza, dalla quale nasce anche l’internazionalismo contrapposto di capitalisti e operai (mai visto sulla faccia di questa terra, se non in occasioni eccezionali. Per di più i gruppi superiori riescono ad essere più solidali tra loro quando si tratta di colpire i sottoposti). La Grassa si concentra, invece, proprio sulla disputa politica (che declina in maniera originale, come insieme di mosse strategiche per la supremazia, ben oltre la stessa sfera politica, strettamente intesa). Lo evidenzieremo a breve.
A Marx resta il grande merito di aver spiegato per primo che l’eguaglianza formale dei soggetti, scambiantisi le merci (compreso la forza lavorativa) sul mercato, al loro valore, avveniva in assenza di vincoli personali. Questa parità di diritti degli attori economici sul mercato mascherava però la disuguaglianza effettiva nel processo produttivo che discendeva dai differenziali di proprietà e, soprattutto, di potere tra chi detiene i mezzi produttivi e chi no. Chi non ha i mezzi vende liberamente la sua forza lavoro ma una volta inserito nella produzione produce più di quanto gli viene effettivamente pagato (è il plusvalore). Lo scambio delle merci quali equivalenti (in media) nasconde la fondamentale (sottostante) produzione, e appropriazione capitalistica, del plusvalore che è pluslavoro; ancor più decisiva è però la riproduzione del rapporto durante lo svolgimento del processo produttivo, da cui escono il capitalista, arricchito dal profitto (plusvalore), e l’operaio in quanto semplice possessore della sua forza lavoro pronta per essere rivenduta, dando così inizio ad un nuovo ciclo dello stesso processo. Tutto qui, si fa per dire! Però Marx non coglie nel segno allorché prevede l’avvento della società comunistica come parto ormai maturo (quindi da concretarsi in pochi decenni, non secoli) nelle viscere del capitalismo. Bisogna prendere atto che dalla prospettiva di Marx il comunismo è impossibile, inutile girarci intorno. Esso non si è realizzato e non si realizzerà.
Gianfranco La Grassa si “appoggia” a questo primo disvelamento marxiano per costruire un avanzamento teorico. La Grassa fonda il suo disvelamento mettendo al centro dell’analisi:
‘senza più esitazioni, il principio della “razionalità” strategica, applicata al conflitto in quella che è la politica tout court, ovunque venga svolta: nella sfera politica vera e propria, in quella economica, in quella ideologico-culturale. Tale politica si condensa nei vari “macrocorpi” (Stato e apparati politici, imprese, ecc.) che diventano gli “attori” della battaglia nel campo del suo svolgimento, i portatori soggettivi di dinamiche conflittuali oggettive; non colte in sé ma sempre interpretate con ipotesi che nascono dalle teorie formulate all’uopo (e sempre riviste e ri-formulate di epoca in epoca). Il conflitto (strategico), “essenza” della politica, pur essendosi esteso – durante il passaggio al capitalismo, cioè alla sua prima formazione sociale, quella borghese – alla sfera economica, non fa di quest’ultima quella ormai predominante e da cui tutte le altre dipenderebbero (deterministicamente o con “azione di ritorno”, che è un semplice “meccanicismo incrociato”, una mera interazione)’.
Il nostro, prendendo cognizione della falsificazione da parte degli avvenimenti della previsione di Marx sulla rivoluzione proletaria scaturente dall’irriducibile contraddizione Capitale vs Lavoro, l’ha sostituita con quella del conflitto strategico (attivato dal flusso squilibrante della realtà) innervante il complesso societario in tutte le sue sfere e determinante il continuo scontro tra insiemi in competizione (di individui, di drappelli, di formazioni geopolitiche ecc. ecc.) raggruppamenti nei quali risultano inclusi anche i dominati, però con un ruolo non più transmodale rispetto alla società capitalistica e con alterne fortune circa la soddisfazione delle loro legittime istanze, dipendenti dal livello dei rapporti di forza nelle diverse congiunture) per la predominanza, in ogni spazio antropico.
Questo non è sconfittismo ma è analisi teorica della situazione pratica. Tanto più che lo stesso La Grassa parla della sua teoria quale pensiero di fase che necessita di approfondimenti e validazioni.
Quando Bravo scrive: “Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca” contravviene alla stessa lettera di Marx che prediceva il comunismo di lì a breve (non a Preve, il nostro compianto Costanzo, perché sono i filosofi gli unici a potersi permettere di porre domande assolute e di attendere secolari risposte. La Grassa, invece, non è un filosofo, nonostante Bravo lo definisca tale, attirandosi le saette degli dei greci). No, il comunismo nella prospettiva di Marx è ormai impossibile. Non si è formato il General Intellect nell’ambito della formazione sociale capitalistica a matrice inglese, l’unica studiata da Marx. Il capitalismo di oggi è tutt’altra cosa, ammesso che si possa ancora appellare tale. Dirò di più. Il comunismo è possibile solo lasciando stare Marx, per quest’ultimo il comunismo era necessitato in quanto sbocco di determinate contraddizioni sistemiche, rivelatesi non tali. Ognuno può desiderare quel che vuole, anche il comunismo, il suo avvento in qualche luogo o epoca a venire, prescindendo da Marx che pensava allo stato di cose a lui presenti e non alle osterie dell’avvenire. Questa si chiama utopia ma non ha niente a che fare con la teoria sociale, la politica, la vita attiva. E’ fede alla quale si crede. Non si pensa.