BREVE PUNTUALIZZAZIONE, di GLG, 18 feb ‘13

gianfranco

 

1. Non la scrivo per gli economisti (e intellettuali in genere) odierni che, in linea generale e salvo le debite eccezioni, non meritano grande stima. Non credo siano stupidi, ma senza dubbio poco dignitosi tanto da acconciarsi a dire banalità, e talvolta menzogne, a pagamento per conto dei “geni” dell’economia industriale e finanziaria dei paesi subdominanti (preclaro esempio quelli italiani), i più volte da me denominati “cotonieri”. Questi fatui personaggi continuano a ripetere le ormai vecchie e risapute barzellette intorno al “libero mercato” con le sue “meravigliose” virtù, che hanno sempre ammazzato i paesi meno forti. Una di queste ci racconta che, dopo il crac del 1929, fu la chiusura a riccio dei vari paesi ad incancrenire la crisi; non fosse così stato, questa si sarebbe dissolta come neve al Sole. Un’altra, tutto sommato la stessa della precedente detta in termini apparentemente più accettabili, è che anche oggi, se il paese più forte (gli Usa) si acconciasse a favorire lo sviluppo di economie altre (mettiamo quella della Russia, ecc.), si uscirebbe prima dalla situazione di impasse che dura da qualche anno; lo sviluppo di ognuno, insomma, favorirebbe (aprendo mercati di sbocco) lo sviluppo di ogni altro.

In poche parole, tutti i dirigenti dei vari paesi che, da che mondo è mondo, si sono fatti guerre (in definitiva, le vere risolutrici delle crisi, non solo economiche) sono fessi o talmente assetati di potere (o magari con psiche malata, quella infantilmente attribuita ad es. a Hitler) da trascinare a fondo tutti; se invece seguissero i consigli di questi chiacchieroni di economisti (e soci vari: storici, politologi e via dicendo) – che non hanno la psiche malata, soltanto rovinata da scuole come Harvard, il MIT, Cambridge, Oxford, ecc., dove studiano in Colleges ben protetti da qualsiasi influsso della realtà esterna – vivremmo nel mondo immaginato dal precettore Pangloss nel Candide.

Le crisi sono divenute “recessioni” nel “campo capitalistico” del mondo bipolare (1945-91), poiché in esso vi era un centro strapotente (gli Usa) cui tutti gli altri hanno assicurato piena obbedienza servile. Quando è crollata l’Urss, a parte l’“anomalia” cinese (che esisteva già prima), i soliti dementi (al primo posto i fu piciisti) hanno pensato che si sarebbe entrati in un’era di completa regolazione e armonia perpetua. Mai avuto un mondo così scombinato e caotico, punteggiato da eventi drammatici e sconvolgenti, non ancora “perfezionatisi” in senso pienamente bellico, che hanno dimostrato il buon senso di Voltaire quando immaginò un perfetto sciocco quale Pangloss (che poi il filosofo francese volesse polemizzare con Leibniz, che proprio sciocco non era, ha oggi poca importanza poiché di un qualche Leibniz non si vede nemmeno il minimo agglomerato di cellule cerebrali).

I momenti di solo relativa e temporanea regolazione (con ammorbidimento delle crisi di tipo economico) si sono appunto avuti nelle fasi di sostanziale monocentrismo (relativo al mondo o ad una sua parte fondamentale), come fu per un periodo non troppo lungo nell’800 con l’Inghilterra in auge (in specie dopo la definitiva sconfitta della Francia napoleonica) o appunto con gli Usa dopo la seconda guerra mondiale nel campo sopra nominato. Negli anni ’30 del ‘900 non si era affatto risolto il multipolarismo e poi policentrismo acutamente conflittuale, venuti progressivamente in evidenza con il declino inglese e il sorgere di Usa, Germania e Giappone negli ultimi decenni del XIX secolo, e perdurati nella metà di quello successivo. Da qui la lunga crisi depressiva 1873-96, da qui l’accelerarsi dei confronti tra i vari poli sfociati infine nelle due guerre mondiali; a cavallo tra le due la “grande crisi” del 1929, che non si sarebbe mai risolta – salvo che per quei novelli Pangloss che sono gli economisti, innamorati di grafici e formule – con la mera apertura dei vari paesi al sedicente “libero commercio”. Negli anni trenta si ebbe invece un discreto sviluppo industriale del Sud America – prima solo dedito, con il “liberismo”, a fornire prodotti agricoli e minerari ai paesi di capitalismo avanzato, secondo il modello ricardiano: all’Inghilterra i manufatti industriali, al Portogallo il vino – proprio grazie alla “chiusura dei mercati”; tanto che quell’industria crebbe non con l’esportazione, ma producendo per il mercato interno.

A scanso di equivoci, non si nega qui l’utilità di grafici e formule. Solo che bisogna tenere a mente una “piccola cosa” di cui gli economisti odierni, allevati come polli in batteria nelle Università di lingua inglese, sono invece totalmente ignari: grafici e formule non sono la realtà, ma la finzione della stessa, una finzione necessaria a poter operare in condizioni di relativa stabilità, approntando nel contempo ipotesi interpretative del passato e previsive del futuro, senza di cui si resta paralizzati o si agisce in base al semplice e rozzo stimolo/risposta (carattere dominante negli altri animali), che fa conseguire talvolta successi di breve momento (tipo il mangiare la preda, che spesso perfino sfugge al più potente e furbo animale aggressore).

L’importante è sapere che le ipotesi non sono la realtà. Gli economisti odierni non riescono a concepire che le loro formulette non siano la realtà; essi sono restati quindi “basiti” quando, dopo aver sostenuto con “tanta sapienza” che le difficoltà insorte nel 2008 erano del tutto passeggere, si sono poi accorti del loro perdurare e peggiorare. Tuttavia, tosti e ritenendosi “gli esperti”, come hanno insegnato loro a credersi nelle Università americane e inglesi (o alla Bocconi e alla Luiss), annunciarono imperterriti che nel 2013 tutto sarebbe finito; adesso rinviano al 2014. Ho la sensazione che, per guarire dalla loro “malattia”, dovrebbero lavorare per almeno un decennio in un supermercato o dedicarsi a zappare la terra.

 

2. Ho appena rilevato la necessità di procedere a finzioni della realtà. Quest’ultima è sempre in incessante, continuo, casuale, movimento. Agire accettando questo contesto è possibile, animalescamente possibile, a patto di rendersi conto (istintivamente come, appunto, gli animali o invece con più meditato pensiero) che non sempre si può conseguire il successo, giacché capita spesso di andare in una direzione diversa da quella seguita dalla realtà in questione. Perfino chi smanetta da mane a sera sui suoi giocattoli elettronici, magari in giochi di “abilità” (di prontezza di riflessi), deve accettare due condizioni: 1) che schematizza sempre, con le sue mosse, l’andamento reale, che lo “rende” in senso cinematico (successione, sia pure sempre più ravvicinata, di punti “discreti”) e non effettivamente dinamico; 2) che la sua prontezza è stimolata da un duello, un confronto, magari perfino con se stesso, ma che si erge sempre quale avversario da “superare”. Bisogna almeno scindersi in Dr. Jekyll e Mr. Hyde; o agire come Frankestein che crea il “suo” mostro (con le sue proprie predisposizioni, pur se considerate nemiche di sé).

Il conflitto non è inscritto, in quanto “naturalmente” prioritario, nel codice genetico degli esseri animati. Esiste tuttavia da sempre in essi; per il semplice motivo che l’essere animato deve muoversi (il che non significa sempre lo spostamento nello spazio) nella suddetta realtà in mutamento costante, continuo, casuale. Quest’ultima tende a travolgerci se non ci muoviamo (e anche lo stilita, l’eremita che si ritira solitario e immobile a meditare, ecc. sono sempre in movimento). Per gli esseri animati, però, il movimento significa nel contempo crearsi un campo di stabilità, con necessarie schematizzazioni della realtà: “costruita” dagli esseri umani, come già detto, con mutamento cinematico e con diversi tempi di ravvicinamento fra loro dei “punti della realtà” fissati (ipotizzati); tempi lunghi o brevi, ecc. a seconda dei fenomeni indagati e delle necessità d’azione. Del resto, anche quando un animale insegue la preda, nel suo movimento apparentemente frenetico e tumultuoso cerca di fatto – con la velocità consentita dalla sua forza muscolare, ecc. – di delimitare il “campo” di caccia e di abbreviare il tempo della stessa, altrimenti si sfianca e ….. resta digiuno (qui l’insuccesso è secco e mette a repentaglio le proprie condizioni di vita).

Bisogna però sempre tenere conto: a) il campo è stabilizzato con la finzione “costruttiva”, ma non è mai stabile in senso proprio, perché non lo è la realtà dalla quale noi lo traiamo, e fissiamo per creare le condizioni indispensabili al nostro agire, schematizzando detta realtà in dati punti successivi; appunto con le formule, ecc.; b) in quel campo esistono altri “soggetti” come noi e che agiscono come noi. Bene, dirà qualcuno del genere Pangloss: allora guardiamoci negli occhi, manifestiamoci sentimenti amichevoli e invitiamoci reciprocamente a cooperare per stabilizzare per sempre quel campo d’azione. Insomma, diventiamo, per favore, Dio (tutti insieme) e creiamo noi, tramite le nostre magiche formulette (magari matematiche), una realtà finalmente ferma, immobile, che la smetta di trascinarci di qua e di là. Bisogna invece guarire i nostri cervelli dalla malattia di credersi capaci di dominare la realtà, creandosela a bella posta.

I campi di stabilità, costruiti mediante ipotesi dai vari “soggetti” in movimento, si intrecciano fra loro ed entrano spesso in contrasto (pur se nelle scienze “naturali” si cerca sempre, mediante confronto e verifica sperimentale, di smussarlo; e si è convinti di riuscirci fino alla prossima controversia sui “fatti” che ingenerano dubbi). Sia quest’urto conflittuale, sia soprattutto il (som)movimento continuo della realtà, squilibrano i “soggetti”, li dislocano su piani e posizioni diversi, li mettono in differenti condizioni di vantaggio o svantaggio, di superiorità o inferiorità, ecc. Ciò crea inevitabilmente la sensazione della presenza di un nemico da combattere, e accentua quindi l’urto, il conflitto, con i vari fenomeni annessi e connessi. Ovviamente, il movimento dispone i “soggetti” nello “spazio” non secondo regolarità e simmetria, ma situandoli invece in una sorta di grappoli a differenti distanze gli uni dagli altri. Tale situazione consente a gruppi di “soggetti” (più vicini) di “allearsi” fra loro per meglio affrontare i più lontani, che ci appaiono quali nemici irriducibili nel creare quello squilibrio che ognuno, tutto teso alla costruzione del suo campo di stabilità per agire, vede come effetto dell’azione degli altri.

Quanto appena detto mi sembra indicare i motivi per cui nelle situazioni di multi e policentrismo – le situazioni più “normali” e “usuali” – i “soggetti” agenti sono dislocati e sparpagliati con più alta dispersione e alcuni di essi hanno forza pressoché eguale nel loro movimento tendenzialmente variabile e caotico. Variabili sono dunque anche le alleanze e i raggruppamenti di grappoli di “soggetti” attorno a quelli d’essi di maggior forza. Tali alleanze si fanno, disfano, rifanno, ecc. perché i “soggetti” incontrano forti difficoltà nello stabilizzare i loro campi d’azione. Poi, alla fine e con la crescita dell’antagonismo e conflitto, si creano due grappoli contrapposti che si scontrano come si trattasse del duello finale in senso assoluto. Uno dei due viene annientato e si entra nelle epoche di relativo monocentrismo, del tutto temporaneo (pur se di durata imprevedibile), poiché l’incessante spinta squilibrante del movimento reale ricrea nuovamente contingenze di scontro tra poli diversi.

Trattandosi di una semplice puntualizzazione, queste poche note sono sufficienti; d’altronde, non è facile seguire questa linea di metodologia dell’indagine, visto che i predominanti attuali, ancora purtroppo negli Usa, impongono assieme ai loro subalterni (i “cotonieri” degli altri paesi capitalisticamente avanzati) una ricerca finalizzata a creare gruppi di finti studiosi, detti “tecnici” ed “esperti”, che cianciano a vuoto su immaginari, e panglossiani, orizzonti di cooperazione internazionale, di “apertura dei mercati”; orizzonti del tutto funzionali appunto a chi sta al vertice. Tuttavia, siamo avviati a nuovi scontri, al momento ancora minori e tuttavia già sconvolgenti, fra qualche tempo infine drammatici, che spazzeranno via i poveri economisti odierni, e cianfrusaglie intellettualoidi annesse, ridando vita a più approfondite valutazioni strategiche (politiche dunque), quelle miranti ad una stabilizzazione dei campi d’operazione adeguata ad affrontare nelle migliori condizioni possibili lo scontro “decisivo” (per una data epoca storica, perché poi si ricomincia sempre da capo).

Attrezziamoci in questo senso, lasciando cianciare questi novelli Pangloss, assai più ottusi dell’originale “voltairiano”.