BREVE RISPOSTA (FINALE!)


Il lupo perde il pelo … ecc. Non ho alcuna intenzione di seguire Preve in un interminabile dibattito, in cui due intellettuali, com’è abitudine di tutti gli intellettuali, continuano a guardarsi l’ombelico credendo che sia il mondo. Mi consento solo poche righe poiché Preve è talmente “antieconomicista” da credere che la gente mangi idee e discussioni sui blocchi sociali.
So meglio di lui – poiché si tratta di analisi compiute trent’anni fa circa dal mio maestro francese (Bettelheim) – che, durante il periodo brezneviano di lunga stagnazione (in cui si verificò perfino una riduzione di 10 anni della vita media), esisteva in URSS un blocco sociale (reazionario) formato dai gruppi di massimi dirigenti del partito-Stato (ivi compresi i vertici alto-manageriali delle grandi imprese statali) e dall’apparato sindacale che controllava gran parte dei ceti lavoratori salariati di più basso livello esecutivo (gli operai); l’alleanza si basava, dalla parte di questi ultimi, sul loro inserimento, fruendo però di bassi salari, in un’organizzazione di fabbrica non retta dalla intensificazione dei ritmi lavorativi (organizzazione che, non a caso, era estremamente carente anche in fatto di innovazioni di processo, con grave arretramento tecnologico dell’industria sovietica e scarso accrescimento della produttività del lavoro; per cui era bassa sia l’intensità che la produttività del lavoro). L’implosione del baraccone fu certo favorita dalla crescita dei cosiddetti ceti medi che, anche in quella società, non necessariamente “stavano in mezzo”; erano gli strati che sentivano di poter avanzare e migliorare le loro condizioni di vita, ma ne erano impediti dall’alleanza di cui sopra. Gorbaciov tentò un compromesso ed Eltsin dette invece ampio margine d’azione a questi strati sociali “medi”, con lo sviluppo (dopo il crollo “socialistico” del 1989 e la dissoluzione dell’URSS del 1991) del “capitalismo selvaggio”, oggi messo sotto controllo da Putin.
Conosco talmente bene questa situazione da aver sostenuto più volte, in specie nel recente passato, che mutatis mutandis esiste anche in Italia una alleanza in qualche modo simile – tra la GFeID (grande finanza e industria decotta, formata cioè da settori della passata stagione industriale) e gli apparati sindacali cooptati nel potere dai subdominanti italiani – pur se non certo in una situazione di bassa intensità e produttività del lavoro (anzi!), ma con altri intenti e altre articolazioni, su cui mi sono diffuso altrove (e qui non mi ripeto). Solo che Preve non capisce affatto, a causa del suo “antieconomicismo idealistico” (in realtà più propriamente “fantasioso”), che non c’è alcuna contraddizione tra l’esistenza di certi blocchi sociali e la conseguente stagnazione delle forze produttive cui tale esistenza dà origine. Sono due lati della stessa medaglia, e si può guardare quella certa realtà sociale da un lato o dall’altro, perché i due punti di vista conducono alle medesime conclusioni. La direzione sovietica, nel periodo brezneviano salvo forse in alcuni (pochi) anni iniziali, ha congelato la struttura sociale e, nel medesimo tempo, impedito lo sviluppo delle forze produttive; e non solo quantitativamente, ma come ammodernamento e progresso tecnico, per cui ne ha risentito quell’aspetto che aveva consentito all’URSS di svolgere un ruolo storicamente abbastanza positivo: non certamente l’immaginaria “costruzione del socialismo”, ma l’essere divenuta una “grande potenza” in grado per decenni di contenere l’egemonia USA, poi espansasi, non a caso, a livello “globale”.
Una prova a contrario dello stesso fenomeno si è avuta con la Cina. Qui, Teng (e la sua linea è in fondo quella ancor oggi seguita dalla dirigenza del partito-Stato) – e non c’entra nulla il preteso “socialismo di mercato”, e tanto meno il comunismo – ha lasciato libero sfogo all’imprenditoria cinese di basso-medio livello (che costituisce una buona quota di quello che viene impropriamente definito “ceto medio”), senza abbandonare, per sfizi “democratici”, l’accentramento del potere, e mettendo in atto una serie di ammortizzatori sociali che – uniti però all’uso della forza per reprimere – ha contenuto il “disagio” (eufemismo) delle campagne nell’opera di intensa industrializzazione in atto, ha impedito il crollo delle circa 3000 grandi imprese statali (sempre comunque fonte di sprechi e di assorbimento di buone quote di reddito, mentre ne producono poco), ha posto in atto un loro gradualissimo smembramento e trasferimento alla “privatizzazione” (senza esagerare come un Eltsin), ecc. Finora il tutto ha retto, e la Cina, con il suo rapido sviluppo (ancora una volta, non semplicemente quantitativo!), sta divenendo uno dei punti di contenimento dell’egemonia USA. Per questo paese manchiamo di adeguate analisi dei blocchi sociali via via formatisi dal 1949 ad oggi, passando soprattutto per la svolta del dopo Mao; manchiamo cioè di analisi come quelle di Bettelheim sull’URSS. Sicuramente però, se si colmasse questo vuoto, si troverebbe il blocco sociale che ha permesso l’intenso sviluppo cinese degli ultimi trent’anni. Questo renderebbe il sottoscritto assai più soddisfatto, nello stesso senso in cui lo sarebbe Preve. Solo che io non metterei mai questa eventuale analisi contro quella dello sviluppo cinese; le vedrei come le solite due facce della stessa medaglia, due modi (linguaggi) per parlare della “stessa cosa”, due “sguardi” che convergono nel medesimo “punto”. Preve no, per lui si mangia e si vive solo con l’idea del blocco sociale; a lui l’ammodernamento tecnico e lo sviluppo sembrano troppo “rozzi”, affetti da “economicismo”. Non la pensano così (per fortuna) i cinesi né gli indiani né i russi e nessuna persona che viva nel mondo reale.
Da tempo avevo colto il degenerare dell’antieconomicismo in autentico “idealismo” (più propriamente: in fantasie che frullano troppo facilmente nella testa di certi intellettuali; ovviamente nei paesi avanzati, in cui tutti i loro bisogni, materiali e non, vengono soddisfatti dall’alto sviluppo, dall’accumulazione pregressa e dall’intenso e sempre più veloce ammodernamento tecnico-scientifico in innumerevoli campi). Per analogia (non perfetta, ma indicativa), si pensi a coloro che protestano di fronte alla spiegazione delle aggressioni statunitensi in Medio Oriente, Afghanistan, ecc. con la sola causa delle fonti di energia. Fin qui, hanno a mio avviso ragione da vendere. Molti però esagerano e sostengono che le fonti di energia non c’entrano per nulla, conta solo il controllo di “spazi geografici”. A questo punto, le loro ragioni si trasformano per me in torto marcio, e il loro antieconomicismo diventa fantasticheria.
Preve poi confonde completamente l’umore con la passione politica, che pervadeva anche gli scritti scientifici dei più grandi dei nostri “maestri”. Se io fossi umorale, e non semplicemente “appassionato”, potrei forse condurre le analisi che sto sviluppando anche nei tempi più recenti sul blog? Mi dedicherei solo agli insulti o a ciance in libertà, non mi “romperei i marroni” nel seguire tutti i vari fatti che riguardano l’economia, la finanza, i “giochi” delle forze politiche, la decodificazione del loro linguaggio artefatto e menzognero, la geopolitica e quant’altro. Francamente, ritengo nettamente più umorali coloro che parlano di “essere umano”, di “ente generico”, e ci elucubrano sopra; oppure quelli che annunciano disastri e perfino, magari, la “fine dell’umanità”: posta dal vecchio Club di Roma nel 2010, negli anni ottanta spostata al 2025, in quelli novanta al 2050 ed oggi al 2070. E’ questa assoluta mancanza di rigore e la volontà di chiacchierare di “cose colte e vuote” a dipendere dall’umore dell’affabulatore di turno.
E con questo basta, altrimenti si diventa vecchi zitelloni dediti ad inutili scambi di idee (muffite!) che piacerebbero solo a qualche rimasuglio dei vecchi “comunisti” ideologizzati; di quelli che Preve mostra di odiare ben più di me. Ma forse è invece per questo che egli sta buttando a mare anche le più pallide vestigia del marxismo per inseguire altre ideologie, che non conosco a sufficienza. E chiariamo il punto, onde non suscitare nuove inutili polemiche. Non mi scandalizza né mi colpisce negativamente l’abbandono del marxismo. Si tratta, secondo me, di una teoria ormai piuttosto invecchiata; mi urtano assai di più quelli che stanno in adorazione della stessa come se contenesse tuttora l’intera verità dell’Universo. Sono molto freddo, e perfino diffidente, di fronte alla sedicente Marx renaissance, autentica imbalsamazione accademica (via filologia) del povero pensatore (e rivoluzionario) di Treviri. Più semplicemente, debbo dire che io mi sono interamente formato attraverso il marxismo (e, ci tengo molto!, il leninismo). Per cui, quando penso all’uscita da questa vecchia impostazione teorica, la penso pur sempre in senso marxista e leninista. Alla mia “tenera età” non vedo l’utilità di mettermi ad approfondire altre impostazioni, che del resto, sia pure ad una veloce “scorsa”, non mi sembrano esaltanti. In ogni caso, “Marx si o Marx no”, resta il fatto che preferisco trattare con rigore questioni in qualche modo fattuali, e di cui si trova qualche riscontro nella realtà (sia pure interpretata teoricamente, e mediante ipotesi, com’è sempre la realtà) piuttosto che affrontare le misteriose “essenze” di certi filosofi.
Me ne dispiace, ma così è ed è dunque inutile proseguire in questa ormai noiosa, e anche un po’ banale, discussione. Io vado avanti con le mie analisi in qualche modo “strutturali”; altri, fra cui Preve, insistano invece nei loro intenti filosofici che sono loro più congeniali. Ognuno per sé e ….“il caso” per tutti (mi auguro che Preve non si incazzi dato che odia, almeno credo, anche il caso oltre ai rimasugli “comunisti”). Comunque, come si conclude fra persone di antica amicizia che hanno in fondo voglia di non prendere tutto sul serio (anzi sul “serioso”): “fraternamente tuo”
glg