BREVI ANNOTAZIONI SUL PROTEZIONISMO

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In un articolo pubblicato nel 2006 su una rivista, La Grassa – riferendosi a tematiche più volte sviluppate nei suoi libri – così scriveva:

<<Nella prima metà dell’800, l’Inghilterra propagandò in lungo e in largo la teoria del commercio internazionale (detta dei costi comparati) del suo grande economista Ricardo, poiché questi “dimostrava” (da buon ideologo!) la convenienza di tutti i paesi a lasciare la produzione di manufatti agli inglesi (che così avrebbero dominato indisturbati il mondo per un altro secolo almeno), specializzandosi in prodotti minerari e dell’agricoltura, che sarebbero mirabilmente serviti all’industria e al proletariato industriale inglese. L’economista tedesco List, certo meno grande di Ricardo, influenzò invece il cosiddetto “nazionalismo economico” con le tesi della “industria nascente”, e sostenne la necessità di mettere dazi all’importazione dei manufatti industriali inglesi; cioè su quelli più avanzati dell’epoca, non certo su prodotti agricoli di paesi più arretrati (ben netta quindi la differenza con le tesi odierne della Lega e di Tremonti, che vogliono imporre dazi sui prodotti cinesi del tipo della maglieria e simili). In realtà, il neoliberismo e il neokeynesismo –correnti solidalmente antitetico-polari– si fondano entrambe sulla convinzione che la crisi di stagnazione si risolva dal lato della domanda. Il neoliberismo punta alla riduzione delle imposte su cittadini e imprese, con la puerile convinzione che il maggior reddito a disposizione si traduca in crescenti consumi e investimenti, processo proprio per nulla automatico e che richiede molte altre condizioni aggiuntive, di sicurezza e fiducia nel futuro e di realmente superiori possibilità competitive nell’ambito del sistema complessivo. Gli economisti, sociologi, politologi, di una cultura ormai sfatta (e ideologica nel senso della mistificazione e della menzogna pura e semplice) ci ammanniscono sermoni su come competere meglio in un mercato, che sia “libero e globale”, a base di efficienza produttiva, di miglioramento dei costi e dunque dei prezzi. L’efficienza, la produttività, i costi, sono solo un aspetto del problema; e di fatto nemmeno il più importante (importante anch’esso, sia chiaro, ma non il più rilevante). Non c’è solo il problema della lotta per le quote di mercato. Fondamentale è la capacità di penetrare le varie aree mondiali con i propri investimenti; e tali investimenti debbono procurare a dati sistemi economici una posizione di forza. Questi investimenti seguono il formarsi di determinate sfere di influenza, per mantenere e accrescere le quali è necessaria una potenza politica e una capacità di egemonia culturale. Gli investimenti, dunque, non debbono essere solo quelli finanziari, non solo quelli in innovazioni tecniche e di prodotto, eccetera; debbono dirigersi anche, e in modo decisivo, verso le attività di potenziamento della sfera dell’influenza politica e culturale.>>

Forse l’autore modificherebbe oggi qualcosa, nell’esposizione sopra riportata riguardo alle problematiche da lui trattate, ma mi pare che l’impostazione generale sia fondamentalmente ancora quella. Il discorso di La Grassa spiega come il tanto vituperato protezionismo rappresenti in determinate condizioni una scelta di politica economica internazionale del tutto legittima. E’ pure necessario ricordare che esso non si limita a prevedere l’applicazione di dazi protettivi ai prodotti importati o alle materie prime esportate (protezionismo doganale), perché può anche comportare l’erogazione di contributi e tassi agevolati ai produttori nazionali esportatori, o ancora il controllo del mercato nazionale e internazionale dei cambi e delle monete e del movimento dei capitali (protezionismo non doganale). Nel campo finanziario possono essere anche realizzati provvedimenti finalizzati a influenzare il funzionamento dei mercati per rendere i titoli finanziari emessi da operatori interni più attraenti (in termini di rischio-rendimento) rispetto ai titoli stranieri, e questo viene realizzato in genere tramite lo strumento dei controlli sui movimenti di capitale, vale a dire mediante un insieme di norme che rende problematico ai residenti l’acquisto di attività finanziarie emesse da operatori di altri paesi attraverso la messa in opera da parte dello Stato di opportuni interventi normativi di politica fiscale e monetaria. Su queste tematiche è intervenuto anche Fabrizio Galimberti in un articolo sul Sole 24 ore (12.02.2017); secondo l’economista gli americani avrebbero votato Trump perché, anche se il paese in questi ultimi anni è tornato a crescere, le diseguaglianze sono aumentate e i nuovi posti di lavoro che sono stati creati risultano, nella maggior parte dei casi, essere caratterizzati da una minore “qualità” e da  condizioni e retribuzioni peggiori. Galimberti , infatti, scrive :

<< Quando le statistiche mensili sulla creazione di posti di lavoro in America dicono che questi ultimi sono aumentati, diciamo, di 200mila nel mese, questo 200mila è normalmente la differenza fra, per esempio, 3 milioni di posti di lavoro creati nel mese, e 2.800mila distrutti. Perchè vi sia malessere nel mercato del lavoro bisogna guardare ai flussi lordi. Se i primi aumentano, a parità di flussi netti, vuol dire che c’è più gente che perde il posto, e perdere il posto è sempre un evento traumatico.>>

La manifattura Usa, secondo Trump, sarebbe stata danneggiata dalla concorrenza di paesi, come la Cina, con un basso costo del lavoro il quale avrebbe comportato per i dipendenti delle imprese americane una perdita in termini di occupazione e di retribuzione. A sua volta l’economista afferma che si deve, però, considerare l’influenza positiva determinata dalla corrispondente possibilità di accesso a beni di consumo a basso prezzo relativamente al potere d’acquisto di quegli stessi strati sociali medio-bassi. Il liberale “moderato” Galimberti ha il pregio di esprimersi con un linguaggio semplice e divulgativo a tal punto, però, da dare spesso l’impressione di scadere nell’ovvietà e nella banalità. Ed è così, per esempio, quando trova la soluzione di tutte queste faccende in un adeguato sistema di “sicurezza sociale” e in una organizzazione economica “aperta e flessibile”:

<<Guardiamo ora ad altre due variabili. La prima ha a che fare con la rete di sicurezza sociale. Se questa è solida, cioè a dire se ci sono misure di sostegno ai lavoratori, passive (sussidi di disoccupazione) e attive (programmi pubblici e privati di formazione e addestramento a nuovi lavori), la perdita del posto di lavoro è meno traumatica. La seconda ha a che fare con la struttura dell’economia: se il sistema economico è aperto e flessibile, se non ci sono ostacoli all’innovazione, se la mobilità – da regione a regione e da settore a settore – è parte del modo di operare dell’economia, allora i posti di lavoro, distrutti da una parte, vengono ricreati in altre parti.>>

E ritornando alla questione del protezionismo come problema centrale egli aggiunge ancora:

<<La lezione della storia è proprio questa. Gli scambi fanno bene alla crescita, come si vede dai dati che ripercorrono l’evoluzione di due grandezze: il Pil e gli scambi nel mondo. Dal 1870 il Pil è aumentato di 60 volte, trainato dagli scambi che sono aumentati molto di più. Allo stesso tempo, gli scambi sono molto sensibili alle crisi, come si vede dall’episodio della Grande recessione, nel 2009. Ha ragione Trump a voler mettere i bastoni fra le ruote degli scambi? No, perché […] se un Paese mette ostacoli anche gli altri faranno lo stesso e si apre una guerra commerciale devastante. Anche se un Paese, pur colpito dai dazi degli altri, non dovesse ripagare con la stessa moneta […] le ritorsioni sono l’esito più probabile.>>

Ma come hanno innumerevoli volte ribadito La Grassa e i collaboratori di questo blog la dinamica “reale” è inversa rispetto a quella che ci propinano gli economisti: la crisi è prima di tutto politica, è una crisi che deriva dall’acutizzarsi di una lotta per l’accrescimento di potenza e per la supremazia. La dinamica ciclica del conflitto a livello delle formazioni sociali particolari e di quella globale implica delle fasi in cui nessuna “potenza” è in grado di garantire l’”ordine”; dal disordine nascono le crisi, crescono le contrapposizioni e si sviluppa il multipolarismo che culmina nella “resa dei conti” come fenomeno caratteristico della fase policentrica. Nella conclusione del suo articolo Galimberti, seppure in maniera semplificata, inserisce due osservazioni pertinenti ma incomplete e non del tutto corrette. Scrivendo che

<<nella misura in cui ci sono perdite nette di posti di lavoro, queste sono dovute più alla tecnologia (che fa risparmiare lavoro) che agli scambi (si possono mettere dazi ma non si possono mettere museruole alla tecnologia). E i posti si ricreano in altri settori, dato che i bisogni umani sono “infiniti”>>

egli dovrebbe, infatti, considerare l’importanza dell’ampiezza dell’arco temporale in cui le nuove innovazioni di prodotto e la loro diffusione riusciranno a compensare il risparmio di lavoro che le innovazioni tecnico-organizzative hanno precedentemente comportato. Ed, infine, quando conclude che per aiutare i lavoratori

<<non bisogna ostacolare gli scambi (un rimedio peggiore del male) ma rafforzare la rete di sicurezza sociale, con misure attive e passive>>

l’economista non tiene sufficientemente conto dei problemi riguardanti le politiche fiscali (e monetarie) in cui vengono a manifestarsi scontri di potere decisivi e in cui i rapporti di forza tra gruppi in conflitto determinano le condizioni – riguardo a quelli aspetti importanti che sono le  “risorse” e la “ricchezza” – mediante le quali le dinamiche nazionali e globali, ormai multipolari, possono essere indirizzate.

Mauro Tozzato           05.04.2017