Buonisti al macello
Uno dei miei romanzi preferiti, per gli spunti di riflessione che offre, è lo spassosissimo “ll più grande uomo scimmia del Pleistocene” del giornalista inglese Roy Lewis. Ebbi modo di parlarne già in passato per mettere alla berlina chi si mostrava preoccupato dell’avanzata degli Ogm, appellandosi ad un romantico concetto di natura, quella che prima o poi finirà per ribellarsi per limitare la tracotanza umana (ma lo fa già costantemente perché essa dell’uomo se ne impipa avendo una sua propria “volontà” e mi si lasci passare il metafisico concetto schopenhaueriano) che con l’evoluzione sociale della nostra specie c’entra come i cavoli a merenda, in quanto “l’artificiale è entrato nella vita subumana già con gli utensili di pietra”. Questa affermazione rimanda anche un po’ all’incipit del magnifico film di Kubrik, “2001 Odiessea nell spazio”, in particolare alla mitica scena della scimmia antropomorfa che lancia un osso animale, utilizzato prima come clava contro i suoi simili occupanti un posto privilegiato vicino ad una fonte di acqua e che si volevano scalzare, nel cielo fino a quando questo si trasforma in navicella spaziale, con tutta la storia umana fotografata così in pochi istanti. Oggi mi permetto di sottoporvi un ulteriore passo, ugualmente indicativo della nostra maniera di amare il prossimo e di confrontarci con le scoperte che ci fanno grandi e al tempo stesso criminali impenitenti. Sembra proprio che l’uso di dette aggettivazioni, solo apparentemente contradditorie, sia inscindibile quando si tratti di noi. Per questo provo un disprezzo ancestrale per i buonisti che cavalcano certi fenomeni, come l’immigrazione o il rispetto di minoranze sempre più strambe. Sono migliaia di anni che pratichiamo i cazzi nostri ma ora all’improvviso dovremmo immischiarci in ogni evento sfortunato, perché non si può lasciare morire in mare nessuno ma lo si può bombardare a casa sua per altri interessi. Questa di chiama ipocrisia e non umanità. La verità è che ammazzeremmo anche nostro padre per evitare quelli che consideriamo rischi maggiori. Intelligenti pauca. Non appesantisco lo scritto con altri commenti perché poi mi si accusa di essere prolisso (in verità mi sembra di scrivere anche poco), ma mi auguro di lasciarvi con quell’amaro in blocca che mette in dubbio le convinzioni buoniste, dure a morire, tipiche non solo di certi pagliacci progressisti aventi in mano i media e i soldi dei filantropi stranieri ma soprattutto di quei filosofi dell’Uomo (con la U maiuscola mi raccomando), che ancora vivono della carogna della Grecia Antica, li dove la filosofia ebbe inizio ma con tutt’altra intenzione rispetto alle loro ubbie odierne.
Buona lettura…
Ancora una volta, papà ci aveva giocato; e non ci potevamo far nulla. La caccia era eccellente, e quanto alle caverne non si poteva desiderare di meglio: ne prendemmo un’intera fila, in alto, tutte molto luminose anche se esposte a settentrione. Ma era motivo di bruciante irritazione vedere i nostri vicini, poco fa mera canaglia, accender fuochi dappertutto, e capitare tutti i momenti per chiederci la ricetta della còte d’antilope à la manière du chef, o per invitarci a qualche barbecue da loro. Papà asseriva trattarsi di bravissima gente; e quando, com’era inevitabile, bruciarono inavvertitamente una buona metà dei loro pascoli, commentò spensierato: «Cose che capitano nelle migliori famiglie» e insisté per fargli grazioso omaggio di una licenza annuale di caccia nel nostro territorio. Non aveva mai avuto la minima idea di come deve comportarsi gente del nostro rango per mantenere un certo prestigio.
Su questo punto, Griselda era estremamente aspra.
Si convinse che l’accoglienza ricevuta al nostro arrivo era stata nient’altro che una sceneggiata.
«Oh, lo conosco bene, tuo padre! Lo so come è capace di aggiustare le cose a suo piacimento» ripeteva cupa; e ricordando quello che era successo a Elsie non stentavo a crederle. Poi aggiungeva che, anche se un qualche pericolo c’era stato, papà aveva scelto il modo sbagliato di aggirarlo. «Dovevamo fargli vedere che maghi eravamo, con il fuoco,» diceva «e non avrebbero avuto il coraggio di attaccarci, quei miserabili selvaggi. Dovevamo stabilire la nostra supremazia morale – il che, fra l’altro, avrebbe risolto anche il problema della servitù. Non dovrei far io tutti i mestieri, in questa benedetta caverna, se quelle loro ragazzotte fossero obbligate a venire da me tutte le volte che hanno voglia di assaggiare l’arrosto». Di continuo mi ammoniva a stare attento a quello che combinava papà. «Lo rifarà» ripeteva. «Dammi retta… il vecchio sta diventando un vero pericolo per l’orda».
Io pensavo che esagerasse, ma alla fine fui obbligato ad ammettere che aveva ragione lei.
Non molto tempo dopo che ci fummo sistemati nelle nuove abitazioni, papà riprese i suoi esperimenti.
Per un bel po’ non ne sortì nulla, né lui ci raccontava le sue mire. Ma, intanto, altri sviluppi appassionanti monopolizzavano la nostra attenzione.
Wilbur mise su una fabbrica di utensili paleolitici su vasta scala: aveva alle sue dipendenze dozzine di lavoranti specializzati, ma le sue asce ovoidali erano così richieste, da tutta l’Africa, che non riusciva lo stesso a star dietro agli ordini. Anche Alexander perfezionò mirabilmente la sua attività di decoratore di interni con tutta una gamma di nuovi colori a base di ocra. Secondo me i suoi dipinti murali erano anche più efficaci, per la caccia, delle nuove bolas con cui ora facevamo inciampare i quadrupedi, e delle nuove lance con la punta di corno che usavamo per trafiggere le prede cadute. Solo William non otteneva alcun successo nei suoi tentativi di selezionare il cane da caccia; ma i suoi fallimenti, almeno, rendevano più vivaci le nostre giornate.
«Sarà il cane o niente» ripeteva ostinato, mentre gli fasciavamo le gambe sanguinanti con foglie balsamiche di aro. «E la via è questa: gentilezza più fermezza. Non può essere altrimenti».
Nessuno riusciva a convincerlo che era una chimera! Più pratica si rivelò l’invenzione di mia madre, che con una pelle di zebra si fece una borsa. Una certa animazione scaturiva anche dall’abitudine che avevano preso le donne di indossare le pellicce degli animali; si facevano visita solo per potersi scambiare commenti del tipo: «Guarda, cara! È l’ultimo grido!» o lamenti come: «Il mio bel leopardo è diventato rigido come un pezzo di legno! E guarda come perde il pelo questa scimmia. Che ne dici, tesoro, si potrà rimediare?».
Griselda era la campionessa mondiale di questo sciocchezzaio, che io e Oswald deploravamo vivamente; inutile dire che la nostra opinione non aveva il benché minimo peso. «Non fare lo zio Vania» mi rimbeccava invariabilmente Griselda, quando azzardavo una rimostranza. Il fatto è che noi vedevamo benissimo fin da allora dove ci avrebbero portato tali frivolezze decadenti. E oggi, figuriamoci!, nessun giovane damerino vuol muovere un passo senza la sua ridicola foglia di fico.
Così il tempo passava; finché, un bel giorno, papà venne a dirmi: «Ho qualcosa da farti vedere, ragazzo mio».
Capii subito, dal tono di malcelato trionfo della sua voce, che si avvicinavano guai grossi.
Lo seguii addentrandomi con lui nella foresta, e dopo una lunga camminata sbucammo in una radura.
«Ecco il mio piccolo laboratorio» e mi indicò con orgoglio tante cataste ordinate di bastoni tagliati a lunghezza variabile tra un metro e un metro e mezzo, tutti scrupolosamente etichettati con le foglie dell’albero da cui provenivano e disposti in file diritte. «È stato un lavoro lunghissimo» spiegò papà.
«Ho cominciato, come vedi, con il sommacco, poi ho continuato con olivo, podocarpo, acajou, mangrovia, sandalo, jacaranda, afrormosia e ngulu. Ho provato perfino con ebano, mogano e tek.»
«Avevo tentato, ovviamente, con il bambù; ma, a parte l’avermi suggerito l’idea, si è rivelato inservibile. Potrà magari avere un futuro nelle costruzioni, ma io proprio lo detesto. Ho provato il fico, il tamarindo, il jimbo e perfino l’acacia: ma solo quando sono giunto al legno di tasso mi è parso di avere in mano un’essenza davvero promettente. Allora mi sono concentrato su questo: tutti i bastoni che vedi lì sono di tasso. Se è troppo verde non ha elasticità, se è secco si spezza: è indispensabile tagliarlo al momento giusto, e poi con la stagionatura migliora ma sono ancora agli inizi dei miei esperimenti. Quanto alla corda, ho provato tutte le soluzioni possibili e immaginabili, e mi risulta che la migliore si ottiene impiegando tendini di elefante – quelli degli arti, beninteso. Abbastanza buona anche quella che si ottiene con i viticci della salsapariglia. Per i dardi va bene qualunque buon legno diritto e leggero, come il sandalo, ad esempio. Evita le essenze pesanti, che danno maggiore penetrazione ma riducono indebitamente la gittata».
«Ma di che diavolo stai parlando?» gli domandai, dopo un bel po’ che andava avanti.
«Del tiro con l’arco» rispose lui, con semplicità.
«So che è un po’ prematuro, in realtà, ma non ho resistito alla tentazione di provarci subito. Wilbur vi ha dato un bell’aiuto, con le bolas, e sono convinto che Oswald finirà con l’imbattersi nel principio del boomerang, quando gli saranno venute le vene varicose come a me. Tuttavia, non c’è dubbio che l’arma definitiva è questa. Vuoi vedere?».
E così dicendo, papà impugnò il primo arco mai costruito al mondo. Badate, era un aggeggio rudimentale, non più lungo di un metro e venti, più curvo da una parte che dall’altra, qua e là ancora coperto di corteccia non raschiata, con una corda fin troppo lasca: ma funzionava! Papà incoccò un prototipo di freccia, tese e scoccò. Il proiettile schizzò via per andare a cadere una trentina di metri più in là. «So fare anche meglio di così» disse papà, gongolando del mio sbigottimento. «La corda si è un po’ allentata. Adesso prova tu».
Dopo parecchi tentativi a vuoto, riuscii a lanciare una freccia a venticinque metri.
«Be’, che ne pensi?» mi chiese papà. «Ricordati che è soltanto un prototipo abborracciato».
«Le potenzialità sono fantastiche, papà» commentai tristemente, mentre guardavo il vecchio con malinconia: questa era la ine. Proprio la fine.
«Bisogna celebrarlo con una gran festa» disse papà.
«Sì, certo, la faremo» mormorai annuendo con gravità.
«Pensavo di farlo vedere prima a Oswald,» proseguì lui con entusiasmo «giacché rientra più nelle sue competenze che nelle tue; ma oggi, come sai, è andato a caccia, e non resistevo alla voglia di mostrarlo a qualcuno».
«Lo dirò io, a Oswald» promisi. E lo feci. Lo dissi anche a Griselda.
Ciò che bisognava fare era chiarissimo. Non ci volle più di una dimostrazione pratica per convincere mio fratello Oswald. Era senza dubbio il miglior cacciatore della zona: correva più forte e lanciava più lontano di chiunque nel raggio di chilometri e chilometri.
«Quando ce l’avranno tutti,» bastò dirgli «come cacciatore e come arciere sarai uno dei tanti: né migliore né peggiore degli altri. Forza e abilità non conteranno più nulla».
«Sarà la fine della vera destrezza e di qualunque spirito sportivo; con l’arco e una faretra piena di frecce, ogni cialtrone da due soldi potrà andare a caccia grossa» commentò Oswald. «Che cosa diavolo gli è saltato in mente, a papà? E noi come ci regoliamo?».
«Temo che in ogni caso sia necessario agire in fretta» dissi io. «Ti ricordi com’è andata la storia con il fuoco?».
«Santo megaterio! È terribile! Devi farti venir subito un’idea, Ernest».
«Ce l’ho già» dissi io.
«Di che si tratta?».
«Al prossimo esperimento di tiro» dissi «dovrà capitare un incidente».
Oswald si sbiancò in volto: «Non dirai sul serio!».
«Hai qualche idea migliore?».
«Ma…».
«Lo so» dissi. «Lo so. Ma ormai è vecchio. Non avrebbe molto da vivere lo stesso. Dovrebbe essere in pensione da un pezzo, ma sai anche tu come è fatto. Eppure, Oswald, penso che in questa maniera per lui sia meglio. Così sarà più felice, nei celesti terreni di caccia. Lì potrà giocare con arco e frecce! E chissà che faccia faranno, là… Certo non perderà molto… per quei pochi anni che gli restano da vivere, in questo mondo. Ha le vene varicose… dolori terribili…».
«Conosco le tue teorie» fece Oswald, lentamente.
«Noi non moriamo. Noi passiamo a miglior vita. Ciò senza dubbio è di conforto, in questo… penoso dovere. Non mi piace affatto, ma temo che tu abbia ragione. Bisogna difendere la nostra gente».
«Ben detto, Oswald» approvai con calore. Mio fratello stava venendo su bene, via via che gli anni lo dotavano di responsabilità e di esperienza.
«Penserò io a tutto» soggiunsi.
«E poi potremo distruggere quest’indecenza» disse annuendo Oswald.
«Diciamo piuttosto… tenerla segreta» replicai con disinvoltura.
Oswald apportò qualche lieve miglioramento all’arma… Ho dimenticato di che cosa si trattasse esattamente penne in coda al proiettile, mi sembra.
Papà ne fu entusiasta. «L’invenzione è un lavoro di squadra» dichiarò. I primi tiri andarono benissimo; ma, quando fu il mio turno, probabilmente mi toccò una freccia difettosa… storta, o priva delle penne… e papà si era imprudentemente fatto avanti per raccogliere quella che aveva scagliato lui. Cadde senza un lamento.
Non eravamo abituati a concludere una festa senza il solito discorso di papà. Ma ero sicuro che egli avrebbe voluto che dicessi qualche parola io, e così parlai brevemente sul dovere di diventare pienamente umani, di seguire il suo fulgido esempio, di contemperare progresso e preveggenza.
Sentivo che c’era lui dentro di me, che plasmava le frasi e suggeriva le conclusioni. Mi rimisi a sedere fra gli applausi; la mamma, poverina, piangeva a calde lacrime.
«Sembravi tutto il tuo povero, caro papà» mi disse.
«Speriamo solo che tu sia un po’ più prudente di lui!».
Tale fu la fine carnale del padre, figlio mio; quella che egli stesso avrebbe desiderato… cadere vittima dell’arma più moderna ed essere mangiato nel modo più civile. Così assicurammo la sopravvivenza sia della sua carne sia della sua ombra. Egli continua a vivere in noi, mentre nell’altro mondo fa polpette di elefanti onirici nei beati terreni di caccia.
Non sono affatto sorpreso che tu l’abbia incontrato lì una volta o due, né che ti abbia tanto impressionato.
Ma, come vedi, aveva anche lui il suo lato affettuoso.
Egli fu, ci piace pensare, il più grande uomo scimmia del Pleistocene… e scusate se è poco! Vi ho raccontato questa storia perché sappiate quanto gli siamo debitori per tutte le comodità moderne e gli agi che ci circondano.
Forse egli fu una personalità più pratica che speculativa, ma non va dimenticata la sua incrollabile fede nel futuro; ricordiamoci, inoltre, che con la sua dipartita egli contribuì a forgiare le fondamentali istituzioni sociali del parricidio e della patrifagìa, capaci di dare continuità sia alla comunità sia all’individuo. Egli fu un gigante: onoratelo pensando a lui, quando passate davanti all’albero più maestoso della foresta. Forse anch’egli penserà a voi.
Ma non fu lui a creare il mondo intero: questo no.
Chi l’ha fatto? Si tratta, temo, di tutta un’altra questione, nella quale per il momento non posso addentrarmi.
Per prima cosa, è molto complicata, e anche controversa. E inoltre, l’ora di andare a letto è già passata da un pezzo.
Fine del Pleistocene.