CAMBIARE PASSO
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Inizierò con passo da blog, ma fra un paio di pagine cambierò gradualmente tono, affrontando via via temi più teorici e complessi. Non posso esimermi dal tornare brevemente sull’ultima “caduta libera” della sinistra che si dice “estrema”. Mi riferisco ai “dissidenti” (alla Turigliatto) che hanno votato la fiducia al Governo (di pagliacci ma anche di individui assai pericolosi a causa di chi, ben più potente, sta dietro di loro a tramare). La scusa addotta da questi in-coerenti è sempre la solita: non voler favorire Berlusconi e la destra. Non diverse motivazioni sostengono gli altri rifondatori e avanzi “comunisti” vari; non faccio nomi, pur se qualcuno era persona di cui avevo un minimo di stima fino a poco tempo fa. Poiché non credo affatto alla stupidità totale di questi personaggi – di essi non si può certo dire ciò che Petrolini affermò di Marinetti: “Un idiota con lampi di imbecillità”; oppure: “E’ cretino, ma così cretino, che ci mette del suo” (e non era vero nemmeno di Marinetti) – è evidente che siamo semplicemente in presenza di uomini di poca spina dorsale (“non camminano eretti”), in pieno sbandamento e senza prospettive; navigano a vista, si arrangicchiano alla bell’e meglio. E sono dei servi nati; sono passati dalle maleodoranti pizzerie di periferia ai ristoranti di lusso del centro, e ormai non capiscono più nulla, poiché il loro “comunismo” personale è veramente quello “reale”.
E’ stato così fornito al Governo l’ossigeno concordato dal centrosinistra (e non solo) con il Presidente della Repubblica, grazie anche al voto di un (soltanto apparente) transfuga dall’UDC, semplice avanguardia di più ampie schiere; e con la connivenza appena nascosta dello stesso Fini, preoccupato che si potesse andare presto ad elezioni anticipate, cosicché non avrebbe avuto nessuna chance di sostituire Berlusconi come leader della destra. Il tempo guadagnato da questo Governo servirà – con o senza Prodi – ad accelerare le manovre neocentriste, che renderanno inutili i voti di questi falsi dissidenti sulle missioni all’estero, sulle pensioni, ecc. (sulla Tav sono molto perplesso, quindi non mi pronuncio in questa sede). Non si tratterà comunque di una passeggiata come non lo fu quella del Pds nel 1994, quando grazie all’operazione di “mani sporchine” – patrocinata dagli USA – Occhetto pensò di essere a cavallo, ma gli si mise in mezzo ai piedi Berlusconi che raccolse l’elettorato sbandato (e pieno di livore) di DC-PSI. Anche oggi, in mezzo ai piedi dell’operazione neocentrista – che, anticipata con troppa fretta, rischia di mettere in crisi i progetti di Partito democratico – si pone Berlusconi con un partito ben più solido rispetto a tredici anni fa e che, sicuramente, ha in questo momento oltre il quarto degli elettori.
Comunque, questi “dissidenti” sedicenti comunisti – avanzi indigesti di un fallimento storico che si precisa sempre più in tutto il suo abominio e rinnegamento di ogni principio, cui questi piccoli uomini si dichiarano a parole “ortodossamente” attaccati (una vera perversione dell’animo) – hanno fatto la loro parte per dare fiato alle trombe neocentriste; se poi queste suoneranno veramente o steccheranno, lo si vedrà entro quest’anno al massimo.
Mi dispiace per qualche ignaro commentatore sul blog, ma non sono un moralista, e tanto meno un uomo di fede, offeso perché quest’ultima è stata tradita da simili quaquaraqua. Non sono mai stato, intanto, religioso in senso tradizionale. Sono andato in Chiesa fino ai 14-15 anni, perché di famiglia “abitudinaria” (non tanto religiosa nemmeno essa), ma in genere ne approfittavo per contrattare direttamente con Dio (non mi piacevano i Santi e, in fondo, nemmeno troppo le altre due persone della Trinità) circa le interrogazioni a scuola e altri fatti della “multiforme” vita di un adolescente. A 18 anni mi sono avvicinato al comunismo non certo per ragioni teoriche. E’ indubbio che mi affascinava l’idea di “un mondo migliore” (non aspettando l’Al di Là), e avevo della pena per i sottoposti, gli “umiliati e offesi”, i massacrati o comunque sempre costretti a tirare la carretta. Comunismo però significava a quel tempo anche PCI; e non ho mai creduto nel “grande partito”. E poi, mi ci ero avvicinato nel 1953 e già tre anni dopo ero disgustato; lo ammetto, non tanto per il ’56 ungherese quanto per la togliattiana “via italiana al socialismo”, che giudico tuttora come l’inizio della lunga via al rinnegamento di ogni pur minima tradizione di lotta per il cambiamento sociale.
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In ogni caso, la frequentazione del PCI, cui non fui mai iscritto, mi ha “scafato” contro i miti della “Classe”; potevo nutrire simpatia per gli operai, non certo vederli come capaci di egemonia in questo tipo di società. Non sono stato “un militante”, sono sempre stato attaccato all’idea di Marx secondo cui il comunismo doveva inverare sostanzialmente ciò che il liberalesimo afferma solo formalmente: la più completa e piena libertà individuale. Ho odiato fin da subito ogni tipo di inquadramento senza cervello; e, anche se di nascosto, mi divertivo alle vignette sui “trinariciuti” (nessuno forse si ricorderà più di quella mitica “tutti stretti intorno al caco”, della serie “contrordine compagni, c’è un errore di stampa nell’Unità”). Non parliamo del modo di intendere la “libertà sessuale”, uno “scopa scopa” trincerato dietro il “libero amore” e la “famiglia aperta” (non che la volessi chiusa; semplicemente che ognuno facesse quello che rientrava nelle sue credenze e “incrostazioni”, pur se talvolta un po’ consuetudinarie).
Soprattutto, ho imparato presto a diffidare e ad essere schifato dai moralisti e, ancor più, da quelli con la bocca sempre piena di “afflati sociali”, di amore per i “più deboli e diseredati”. Non ce n’è stato uno solo, e la mia vita non è breve, che io non abbia visto tradire i suoi “ideali”, che non abbia intrigato e fatto gli affaracci suoi (spesso in politica), mettendola in c….al mondo intero (con o senza vaselina). Veramente: non ne ricordo uno che non si sia comportato così. Quelli che amano il “genere umano” sono i più fottuti e nauseabondi intriganti (quando non addirittura massacratori) nei confronti degli individui empirici, degli uomini in carne ed ossa. Del resto, studiando la storia, ci si rinforza in questa idea, pur se vanno comunque esaltati certi processi di cambiamento rivoluzionario. Io inneggio tuttora al 1789 francese (ivi compresa la sana e meritoria invenzione del dott. Guillotin) come al 1917 sovietico e a molti altri processi del genere. So però benissimo che, all’interno di questi ultimi, agiscono i soliti uomini con i loro slanci generosi strettamente intrecciati a porcherie di ogni fatta. Comunque, non credo che alcun dirigente dei gruppi agenti in questi processi sia mai stato mosso da meri “afflati sociali” (alla larga, fallirebbero in “due balletti” o tradirebbero in ancor minor tempo). Amo quelli che hanno un bel po’ di “pelo sullo stomaco”; di loro ci si può fidare.
Tuttavia la durezza, a volte perfino ferocia e crudeltà, deve essere al servizio di cause molto diverse, e di ben diversa grandezza e ampiezza di visione strategica, rispetto a quelle perseguite dai nani odierni. Amo i personaggi e gli avvenimenti da tragedia greca o shakespeariana, non la miserabile politica, per tornare ai tempi nostri, di meschini omuncoli del tipo dei Berlusca o dei Fini e Casini, o quella dei Prodi o Fassino, Rutelli, Veltroni, Bertinotti (e anche di questo Turigliatto, “povero cristo”). Ci sono poi due vizi capitali che non sopporto: il rinnegamento e l’ipocrisia. Per questi due, soltanto, sarei disposto a comminare la pena di morte. Non nei processi regolari in tempi normali; in questi pretendo che non si emetta nessuna condanna del genere. Ma nei periodi di rivolgimento, di caos, quando i rinnegati e gli ipocriti vengono presi in flagranza, sul fatto, allora l’eliminarli è spesso purtroppo obbligatorio.
Non siamo però adesso in un periodo di caos e di rivolgimento profondi. Ci sono solo sintomi e scricchiolii sinistri e certamente non credo che la situazione andrà avanti così per decenni; immagino solo per anni, al massimo. Nella fase attuale, intanto, è indispensabile cambiare passo. L’ho già detto: è inutile lasciare “cadaveri” insepolti; puzzano ed emettono esalazioni pestifere. Ci si dovrà pur chiedere come mai un cattivo odore così forte esista in pratica solo in Italia; almeno nell’ambito del continente europeo, che pure è anch’esso in pieno degrado politico-culturale. Da noi era appunto presente il “grande, grande” partito comunista, orgoglioso della sua diversità rispetto agli altri PC europei (a partire dal più importante, quello francese). Tale diversità era soltanto l’anticipazione di un processo di totale abiura, di tradimento, di rinnegamento di ogni principio. Questo ha fatto si che in Italia – unico fra i paesi europei “occidentali” – il blocco sociale dominante, mutatis mutandis, fosse (e sia) simile a quello esistente in URSS e nei paesi europei del “socialismo reale”. In essi, sussistendo l’ideologicamente ingannatrice proprietà “pubblica”, il sistema di potere si concentrava nel partito-Stato; ed era coagulato attorno ai gruppi dirigenti del “Piano centrale”, dei grandi com-
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plessi industriali (e della banca di Stato), strettamente uniti a quelli degli organismi sindacali ufficiali che ottenevano per la “Classe” ritmi lavorativi ridicoli in cambio di salari bassi (ma comunque superiori perfino a quelli degli scienziati nucleari, tanto per fare un esempio). Stritolati fra l’incudine e il martello erano i sedicenti ceti medi, in crescita anche in quei paesi (in alcuni dei quali, nell’Europa orientale, esistevano pure gruppi consistenti di “borghesia” pregressa).
In Italia, la situazione era diversa perché i patti di Yalta ci hanno tenuto dentro il “mondo occidentale” e costretti all’alleanza atlantica nel campo soggetto al predominio USA. Quindi, da noi è rimasta la “borghesia” capitalistica privata, la “Classe” ha dovuto assoggettarsi a ritmi lavorativi da capitalismo avanzato, ma con i dovuti aumenti salariali e con condizioni generali di vita in crescita tendenziale. La stessa imprenditoria pubblica (vastissima all’inizio; il 50% dell’industria e tutte le grandi banche di interesse nazionale) ha operato, in prevalenza, come nelle imprese private. Non completamente però; la politica ci ha messo ben bene il becco e nell’IRI, contrariamente a quanto ufficialmente ammesso, il compromesso storico tra DC e PCI funzionò molto presto, come minimo dall’epoca del boom. In ogni caso, il blocco sociale è stato quasi da sempre, ma almeno dagli anni ’60 e poi, in modo compiuto, da quelli ’70, quello costituito dalla grande imprenditoria – privata e pubblica (quest’ultima in stretto intreccio con i gruppi politici, anche piciisti) – e dai comparti del lavoro dipendente controllati dagli apparati sindacali riconosciuti e ampiamente foraggiati dai dominanti; ecco la somiglianza con il “socialismo reale”.
In quegli anni, la conflittualità sindacale e la “modernizzazione” mascherata da “lotta di casse” (come ad es. nel 1968-69) – considerati quali processi intrecciati, mentre erano in realtà ben diversi e distinti (il “movimento operaio” era saldamente controllato dai piciisti, non dagli studentelli che giocavano al maoismo in quanto neoleninismo) – soltanto coprirono le trame di pieno avvicinamento tra i maggiori partiti, di maggioranza e di opposizione, per stringere in una morsa la società italiana; e fu in questo periodo, soprattutto dopo gli avvenimenti cileni del 1973, che Berlinguer scalò il gradino decisivo nell’abiura degli “ideali” comunisti. Diciamolo una buona volta: anche il fenomeno vergognosamente definito “terroristico” (BR ecc.) fu solo una risposta – sbagliata e anzi catastrofica – al tradimento piciista, che proveniva però da lontano: dall’immediato dopoguerra (forse già dall’incarcerazione e poi morte di Gramsci, probabilmente l’unico dirigente comunista italiano), e proprio per la decantata “diversità” di questo partito, i cui dirigenti furono in definitiva rinnegati ante litteram. Fu per questo che si errò all’epoca prendendoli semplicemente per una riproposizione del revisionismo kautskiano; e ci si illuse che un movimento effettivamente “piccolo-borghese” come quello studentesco (partito non a caso dagli Stati Uniti) – saldandosi (processo che avvenne in realtà nella semplice rappresentazione ideologica degli “estremisti”, in particolare degli “operaisti”, altra sciagura della sinistra italiana) con una lotta operaia, radicale ma in definitiva ormai tradunionistica – rappresentasse la nuova corrente neoleninista.
Nel periodo successivo alla caduta “del Muro”, e al finalmente aperto cambio anche di vestito da parte dei rinnegati piciisti – con i drammatici processi politici di mutamento di regime, di cui ho già scritto recentemente nel blog – si mise in moto un vasto processo di privatizzazione del settore pubblico, a partire dalla dismissione dell’intero apparato bancario, processo aperto e accelerato da Ciampi (già Governatore della Banca d’Italia e nel 1993 Premier) e da Prodi (ai vertici dell’IRI); e con l’aiuto dell’allora (mi sembra) direttore generale del Tesoro, Draghi, anch’esso ben noto per quello che è oggi e per quello che fu a lungo: vicepresidente della punta di diamante della finanza americana, la Goldman Sachs. La privatizzazione riguardò in primo luogo proprio il settore bancario e poi, via via, l’apparato industriale. Non cambiò però nella sostanza il blocco sociale che ha sempre costituito l’arretratezza e debolezza capitalistiche dell’Italia, pur nei suoi periodi di sviluppo e di modernizzazione. Nella nuova situazione internazionale, più nettamente e globalmente monocentrica, che venne a instaurarsi – e che richiederebbe certo una analisi a parte – si accentuò il parassitismo insito in questo blocco sociale.
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Quali le sue caratteristiche principali? Subordinazione agli USA perfino maggiore che nell’epoca del Governo DC-PSI, poiché l’esistenza del campo “socialista” consentiva qualche modesto margine di autonomia. Il dominio statunitense in Italia prese soprattutto la via della forte influenza sul nostro apparato finanziario privatizzato, investito da intensi processi di centralizzazione capitalistica. Come paradigma di tali manovre di subordinazione del nostro sistema economico prendiamo gli ultimi avvenimenti. Si è creata una grossa (per l’Italia) concentrazione finanziaria con il gruppo Intesa-San Paolo – dopo che era fortunatamente fallita (per il momento) l’operazione di una CapIntesa in grado di stringere il cappio su Mediobanca e Generali – sotto la non troppo coperta egida della Goldman Sachs (e del Carlyle Group, ecc.). Nel contempo vengono portate avanti con insistenza – per quanto ancora avversate dalla forte resistenza di certi gruppi dirigenti – manovre tese a scorporare e separare produzione e rete di distribuzione nell’ambito dell’ENI, decisione che provocherebbe un chiaro indebolimento di tale impresa, a rischio in tal caso di essere fagocitata, nella sostanza se non nella forma, da qualche colosso energetico statunitense; o anche semplicemente da qualche grossa concentrazione finanziaria del paese cui siamo subordinati.
Il teatrino della politica – con i due schieramenti contrapposti (che si tenta reiteratamente di scomporre e ricomporre altrimenti) ormai putridi fino all’inverosimile – cela alla vista della popolazione quanto di ben più decisivo, e di fortemente negativo per la nostra autonomia, avviene nel sistema economico (produttivo-finanziario). Cela lo strapotere e il parassitismo della finanza – subordinata a quella americana – e il continuo degrado, con imbrogli e manovre varie per tirare avanti qualche anno, della nostra grande impresa, ancora centrata sul metalmeccanico (e l’auto in particolare) e con forte ritardo e debolezza di fondo nei settori di punta di un sistema avanzato. Un degrado che si copre con continue sovvenzioni “pubbliche” a tale settore grande-imprenditoriale decotto, arretrato; sovvenzioni per sostenere le quali diventa ormai urgente colpire a fondo quel settore piccolo-imprenditoriale (e il lavoro detto autonomo) che prima era stato gonfiato per ragioni di equilibrio sociale, ma anche per una sorta di intenso “autosfruttamento” del lavoro a favore del profitto della impresa finanziaria e di quella della grande industria sempre assistita dal settore pubblico, cioè dalle forze politiche ad essa asservite.
Se e quando si parla di economia, ci si limita a cianciare di liberalizzazioni che colpiscono solo tale lavoro autonomo, rafforzando i settori oligopolistici; ci si batte sul fronte fiscale (e chi vuole difenderci dalle tasse vuole accelerare la riforma-distruzione delle pensioni; e viceversa per l’altra parte politica). Si fa sempre un gran parlare del mercato del lavoro: e chi lo vuole rendere più flessibile, accrescendo il precariato, chi vuol invece difendere gli stabili (e sindacalizzati, quindi facenti parte del blocco sociale già indicato) con inevitabili riflessi sull’occupazione complessiva; anche se i sindacati, per mantenere il loro potere nel blocco sociale suddetto, continuano a mentire sostenendo che essi sarebbero in grado di centrare l’irraggiungibile obiettivo “della botte piena e la moglie ubriaca”. Naturalmente, ci sono poi le tradizionali scaramucce sul fronte degli aumenti salariali, sempre comunque ridicoli di fronte ad un aumento del costo della vita per almeno tre quarti occultato dal nostro Istat su precise indicazioni politiche.
Di tutto si discute, salvo che di effettive strategie di reale crescita fondata sul rafforzamento della nostra autonomia, incrementando le risorse per la ricerca scientifico-tecnica, per le imprese dei settori di eccellenza, per una politica economica estera di maggiore penetrazione in mercati altrui e in altrui aree di investimento di capitali. In questa non discussione sulle questioni strategiche essenziali, il nostro blocco sociale dominante – ripeto: grande imprenditoria finanziaria e industriale sempre assistita dallo Stato (cioè dai loro manutengoli politici) più i lavoratori dipendenti protetti dai sindacati corrotti e legati al potere “costituito” – è coadiuvato anche dalla cosiddetta “sinistra critica” o “alternativa”, costituita da sciocchi (o furbi?) sostenitori della decrescita, delle energie “pulite” (ma quelle del Sole e del vento, che non saranno mai in grado di fornire il grosso del fabbisogno energetico), della “difesa” dei consumatori, di quella dei salari, dell’occupazione fissa (e magari nel settore pubblico), della lotta al Capitale, ecc. Tutti detriti, terriccio “di riporto”, piccoli ma-
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teriali d’appoggio al blocco sociale parassitario, che ci sta facendo marcire a tutto vantaggio di sub-dominanti ormai legati al complesso finanziario-politico dei predominanti statunitensi.
Ecco perché non si riesce mai a seppellire il “comunismo” e il “marxismo” (quelli ormai degenerati irreversibilmente). Rivoli di denaro, appoggio editoriale, spazio nei massmedia, cattedre universitarie, centri di studio e ricerca, tutto arriva, pur in proporzioni modeste (ma sufficienti allo scopo che i subdominanti si prefiggono), a coloro che giocano ancora ai “comunisti” e “marxisti”; ma solo a quelli completamente devitalizzati, sclerotizzati, che riuniscono alcune aree di (giustamente) incazzati, mettendole di fatto “in naftalina”. Quando poi alcuni di questi capiscono di essere stati presi in giro da questi finti “radicali”, essi rischiano di riprodurre una sterile stagione di lotte “violente”, così che si possa stigmatizzare e soffocare ogni più che lecita e naturale voglia di cambiare una situazione dominata, e cristallizzata, da un blocco sociale così conservatore e “succhiasangue”.
Ecco perché è invece necessario cambiare passo: seppellire quei cadaveri (in modo onorato, senza minimamente vergognarsi di aver appartenuto a quel movimento) per ripensare radicalmente una nuova teoria della società capitalistica e una nuova prassi per almeno avviare alcuni cambiamenti sociali con intento veramente radicale; ma anche, sia chiaro, riprendendo alcuni temi più che rilevanti della vecchia prassi comunista (io non disdegno nemmeno certi insegnamenti, magari rivisitati e ripensati, della Comune di Parigi) e della teoria marxista: non però semplicemente ridotta a teoria del valore-lavoro, a ricerca dell’eguaglianza tra plusvalore e pluslavoro, ecc. da imbecilli patentati nonché meschini maneggioni truffaldini, degli “intellettuali” piccoli piccoli, che si fingono radicalissimi contro il Capitale (sostenendo di distruggerlo con le loro dimostrazioni matematiche) mentre sono invece pronti a dirottare le energie dei più giovani verso binari morti, verso stagni melmosi dove ci si impantani, a tutto vantaggio dei dominanti parassiti che ci subordinano all’altrui egemonia.
Non voglio assolutamente enfatizzare, come farebbe uno dei marxisti sclerotici di cui sopra, lo scricchiolio indubbio proveniente questa volta dalla Cina. Tale paese, che ancora viene definito comunista (e non soltanto dai reazionari), è al contrario una nuova forma di capitalismo, certo da analizzare a fondo. Potrebbe però anche trovarsi “in mezzo al guado”, in un Limbo da cui dovrà infine uscire. In ogni caso, il “partito unico” al potere, che ingannevolmente si autodenomina tuttora comunista, ha perfino introdotto nella Costituzione un nuovo articolo in cui si esalta l’imprenditoria privata capitalistica. Inoltre, è stato dato ampio spazio ai giochi della finanza internazionale, con – se non ricordo male certe notizie lette – la presenza nel mercato cinese perfino degli hedge fund (ad altissimo rischio); e con la ripetizione dell’imbroglio argentino, in cui alcuni ingenui – attirati da tassi di interesse, su titoli, a due cifre – cominceranno adesso a rimetterci le penne. Ad un certo punto, l’autorità centrale cinese non ha potuto fare a meno di intervenire con un minimo di sorveglianza e regolamentazione in più; e si è così prodotto un, per ora, piccolo crac, che ha scottato intanto i più sprovveduti.
E’ bene però fare un passo indietro per chiarire brevemente ciò che andrà invece sviluppato seriamente in futuro. Nell’epoca dell’imperialismo – o come dico io, in termini più generali, del policentrismo onde sfuggire alle tesi circa “l’ultimo stadio del capitalismo”, dando invece a quella fase un carattere semplicemente ricorsivo – che va grosso modo dagli ultimi decenni dell’ottocento fino al confronto interimperialistico definitivo rappresentato dalla seconda guerra mondiale, si produssero i più gravi sconvolgimenti subiti dal sistema capitalistico, tra cui, appunto, le due guerre mondiali, la rivoluzione sovietica, la grande crisi del 1929-33, il nazifascismo, ecc. Credo che si possa fare un’analogia con fenomeni naturali che ha un buon carattere esplicativo. Pensiamo ai terremoti, di diversa intensità, che scrollano comunque la superficie terrestre, provocando eventi per noi drammatici e che sono quelli più evidenti, quelli che ci toccano più da vicino, quelli apertamente visibili e unanimemente avvertiti in tutta la loro violenza. Tuttavia, sono appunto fenomeni superficiali; la loro causa decisiva, studiata scientificamente, risiede nella frizione e scontro, a diversi livelli di profondità, tra falde tettoniche. E quanto più in profondità si verifica tale processo, tanto più ampie e
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violente sono le ripercussioni in superficie, laddove sono situate le popolazioni di uomini; non quali scienziati bensì come individui che stanno conducendo la “normale” vita quotidiana, e vengono improvvisamente investiti da simili disastri.
Crisi economiche, guerre, rivoluzioni, ecc. sono i terremoti; e sono questi i fenomeni che ci aggrediscono con la loro drammatica e improvvisa evidenza, sconvolgendo la nostra vita di tutti i giorni. Le cause profonde – e di diversa profondità, dunque con esiti di differente gravità e ampiezza – si trovano nelle strutture dei rapporti sociali capitalistici. Ma non tanto, mi dispiace dirlo, al livello “verticale” della notoria “lotta di classe”, della lotta tra capitale e lavoro, tra proprietà capitalistica e lavoro salariato, ecc. Nella formazione sociale a modo di produzione capitalistico (dominante), una volta che questa raggiunge determinati livelli di “maturazione”, cioè di sviluppo – e via via, nel corso di un paio di secoli, quest’ultimo sta arrivando anche nei due più popolosi paesi del mondo – la lotta in questione assume carattere sempre meno drammatico, diventa – come aveva intuito Lenin, ma senza poterne trarre le debite conseguenze – tradunionistica, riguarda cioè la distribuzione della torta prodotta, e i conseguenti livelli e modi di vita di comparti sociali in via di crescente moltiplicazione e differenziazione a livello sia verticale che orizzontale (in uno “spazio sociale” teorico, configurato solo “idealmente”, ma non per questo solo frutto di fantasticherie).
Ciò che assomiglia, per analogia, all’urto delle falde tettoniche è lo scontro tra formazioni sociali particolari (finora sempre nazionali o relative a gruppi di nazioni), che sono condotte al conflitto reciproco dai gruppi in esse dominanti; fra loro in perpetua competizione per il predominio all’interno di ognuna di queste particolari formazioni, ma che poi – nelle epoche di pieno policentrismo e di tumultuoso sviluppo ineguale delle formazioni in oggetto – si saldano in determinate, e spesso provvisorie e transeunti, alleanze, lottando tra loro per la supremazia sul piano (geopolitico) mondiale. In questo urto violento tra “falde tettoniche” (paesi capitalistici) si mettono in moto – nei punti e luoghi (dello spazio sociale globale) in cui il “terremoto” provoca maggiori sconquassi: di superficie, nella vita quotidiana dei popoli, nelle istituzioni politiche e culturali che essi hanno storicamente costruito, ecc. – processi di sfaldamento dell’egemonia tramite la quale dati gruppi dominanti avevano costruito certi blocchi sociali a protezione e consolidamento della loro preminenza. Qui allora si acutizza anche lo “scontro di classe” (chiamiamolo provvisoriamente ancora così) e scoppiano movimenti rivoluzionari; che tuttavia non avvengono affatto sempre nella direzione prevista e preconizzata dal comunismo marxista, bensì secondo quella doppia modalità che ho intanto indicato come rivoluzioni dentro e contro il capitale. Proprio per questo, rivoluzione nazifascista e rivoluzione sovietica, nettamente antagoniste fra loro, hanno potuto essere facilmente, ma falsamente (ideologicamente), accostate fra loro dalle forze politiche della “liberaldemocrazia” – che Lenin, con folgorante intuizione, ritenne il “migliore involucro della dittatura borghese” per il suo carattere multiforme e polivalente, viscido e scivoloso, avvolgente e inglobante alla guisa di una ameba – uscita vincente dallo scontro policentrico conclusosi con la seconda guerra mondiale e dalla susseguente “guerra fredda” tra i “due campi”.
Quando lo scontro policentrico si conclude con la supremazia di uno dei contendenti, si entra in una nuova epoca monocentrica, dove continua la conflittualità interdominanti (intercapitalistica), ma con modalità meno acute e non laceranti (“terremoti” di un grado basso della scala Richter o Mercalli). In particolare, si stabilisce il predominio politico (di potenza) di una formazione sociale particolare sul sistema a livello mondiale. Continua quindi la competizione soprattutto nella sfera sociale economica; senza questa competizione (quella interimprenditoriale) verrebbe meno lo sviluppo capitalistico, e dunque la complessiva capacità egemonica dell’insieme dei gruppi dominanti nell’insieme delle varie formazioni sociali particolari, con i loro blocchi sociali ricostituitisi dopo lo sconvolgimento policentrico. E’ la finanza, coadiuvata dagli apparati politici (statali, partitici, ecc.) e culturali, a condurre il gioco di coordinamento del sistema strutturato dalle formazioni particolari in questione. Anche in tale ambito permangono scontri, ma decisamente subordinati al controllo di massima esercitato dalla formazione centralmente dominante, mentre più vivace rimane la situazio-
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ne a livello produttivo; in questa sfera sociale, tuttavia, soprattutto quando si aprano – com’è accaduto nel campo capitalistico negli ultimi decenni – nuove fasi di forte “rivoluzione industriale” (di innovazioni di prodotto e di processo, di fonti di energia, ecc. con l’apertura di completamente nuove branche produttive), il complesso finanziario-politico del paese predominante, anch’esso suddiviso in gruppi di agenti intercompetitivi (quindi con diverse visioni tattiche di coordinamento), esercita un certa “vigilanza”, cercando soprattutto di far si che la parte preponderante delle nuove branche, e della ricerca scientifico-tecnica collegata, resti principalmente di prerogativa di detto paese.
Dopo il 1945 si è in effetti aperta una nuova epoca monocentrica; tuttavia “sbilanciata” poiché esisteva il campo “socialista” e un sostanziale equilibrio (soprattutto politico-militare, non certo economico-finanziario) tra le due superpotenze e dunque tra i due campi (uno dei due si scisse poi a sua volta in due, perché la Cina era un “boccone troppo grosso” per rimanere sotto il controllo dell’URSS). Questa situazione ha creato nel campo del capitalismo avanzato una lunga “era di pace”, mentre i conflitti si spostavano ai margini dei due campi e favorivano l’ascesa di vari movimenti di liberazione nel cosiddetto terzo mondo (abbastanza omogeneamente sottosviluppato, all’inizio); una liberazione dal colonialismo più tradizionale con l’affermarsi di nuove forme di subordinazione più soft (ma alla lunga penetranti), epperò con l’inizio di un impetuoso sviluppo in alcuni paesi di quest’area, in specie asiatici, sviluppo che oggi coinvolge in pieno i due maggiori (Cina e India).
Il problema che non è per nulla chiaro, e che ci mette in difficoltà nel definire più appropriatamente l’epoca che va dal 1945 fino al crollo del socialismo reale, è precisamente la cosiddetta “natura” (sociale ovviamente) di quest’ultimo. Abbiamo già detto che, mutatis mutandis, il blocco sociale costituitosi in URSS intorno ai gruppi dominanti del partito-Stato aveva rassomiglianze con quello esistente in Italia, in particolare dopo il cambio di regime avvenuto, su input statunitense, con “mani sporchine”, dove i gruppi dominanti furono (e sono) quelli parassitari della GFeID (grande finanza e industria decotta), che hanno accelerato il mutamento delle prospettive di predominio capitalistico in direzione della “privatizzazione” di ciò che era “pubblico” (dove privato e pubblico sono forme tattico-strategiche diverse di tale predominio; ne riparleremo in altra sede).
Tuttavia, resta il problema della “natura” dell’URSS e subordinati. Le tesi del socialimperialismo avevano una funzione di propaganda, forse utile in quella congiuntura in cui si credeva ancora di poter rinnovare e riformare il comunismo. Le tesi del “capitalismo di Stato” – avente come classe dominante la “borghesia di Stato e di partito” (conclusioni di Bettelheim e althusseriani in genere) – sono state a mio avviso un degno tentativo di rinnovare il marxismo, che poneva l’enfasi sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul mercato quali caratteristiche essenziali del capitalismo. Continuo a tutt’oggi a ritenere più avanzata l’analisi di Bettelheim rispetto a Sweezy che insisteva sulle vecchie concezioni del marxismo tradizionale, per di più condite con il keynesiano primato della domanda complessiva (consumi più investimenti), sul concetto di surplus al posto del marxiano plusvalore (pluslavoro) che non superava affatto l’economicismo marxista bensì lo peggiorava di gran lunga, ecc. Tuttavia, ciò che effettivamente appartiene alla “essenza” del capitalismo è la competizione tra gruppi dominanti. Ora, quella che si manifesta tra di essi sul piano della formazione (geopolitica) globale poteva magari essere pensata allora (pur se in definitiva ci sbagliammo a ritenerla tale) nella forma del sedicente “equilibrio del terrore” tra USA e URSS, con spostamento del confronto più acuto e violento ai “confini” tra i due campi, dove però esistevano reali e radicati movimenti per la liberazione nazionale dal colonialismo (e dintorni).
La questione è invece molto più complessa, e ancora non risolta, per quanto concerne la struttura dei rapporti sociali interna al sedicente “socialismo”. Escludo che si possa mai più tornare a pensare che in URSS e negli altri paesi di quell’area esistesse qualcosa da potersi definire “costruzione del socialismo”; così come oggi è irritante chi ancora crede al “socialismo di mercato” in Cina; “o c’è o ci fa”! Senza dubbio però, tra il 1917 e il 1989-91 – e passando per fasi intermedie ben differenziate – esistette in quei paesi il “né carne né pesce” (ma qualcosa pur erano, e noi non lo sappiamo anco-
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ra!), per cui il sistema capitalistico, ormai rientrato in un’epoca monocentrica, fu come dimidiato. Non poteva scatenarsi un vero e duro conflitto politico-militare aperto, tipico delle epoche policentriche; ma non poteva nemmeno esserci un sistema globale nella sostanza coordinato da una formazione sociale particolare predominante. Era un vero equilibrio instabile (lasciamo stare “del terrore”, formula enfatica buona solo in fase propagandistica); un equilibrio che non poteva affatto rompersi con il precipitare di eventi bellici (una grande bugia fu quella secondo cui nel 1962, con la crisi di Cuba, si sfiorò la terza guerra mondiale; a intuito lo sostenni fin da allora e irrisi a tutti i “compagni” preoccupati). Non esistevano in URSS & C. vere strutture di rapporti capitalistici che esigessero un’autentica espansione imperialistica con lo scontro (policentrico) per la supremazia mondiale.
Quello che fu effettivamente il cosiddetto “socialismo” è ancora per noi sconosciuto. Diciamo, molto “volgarmente”, che fu un periodo (relativamente breve e accelerato) di accumulazione originaria capitalistica; del tutto differente da quella studiata da Marx e che ha quindi condotto a formazioni sociali capitalistiche di tipo nuovo; come del resto – e nemmeno questo lo abbiamo ancora capito e nemmeno indagato – la progressiva assunzione di preminenza da parte della formazione capitalistica statunitense ha condotto nel “mondo occidentale” a quella che ho genericamente definito società dei funzionari del capitale, dove questi ultimi hanno tuttora, e anzi oggi più che negli anni trenta e quaranta (quando si poté parlare di “rivoluzione manageriale”, oggi tramontata), il controllo dei mezzi produttivi tramite la proprietà giuridicamente privata; ma non è questa la condizione sostanziale del loro predominio, bensì quella, l’attività strategica, che ho analizzata nel mio testo Gli strateghi del capitale. Si tratta di formazione sociale capitalistica, che non ha più però come classe dominante la “classica” borghesia e come classe dominata il proletariato o classe operaia, nel senso attribuito a tali espressioni dalla tradizione marxista (decrepita e oggi coltivata solo da gruppetti cristallizzati in sette).
Quel “né carne né pesce” (qualsiasi cosa sia stata, ma sarebbe meglio alla fine saperlo) non poteva durare, e non durò. Dopo il 1989-91, ci fu chi credé – la maggioranza – che il capitalismo (del tipo più noto, quello dei funzionari del capitale) si fosse rimondializzato; e chi si ostinò a ritenere i pochi lembi di “socialismo reale” rimasti (Cina, Corea del Nord, Vietnam, Cuba, ecc.) come bastioni della resistenza alla dissoluzione capitalistica. In realtà, si sono negli ultimi quindici anni precisati gli effetti della pluridecennale, ma molto differenziata in diverse formazioni sociali particolari, accumulazione capitalistica. I paesi est-europei sono in definitiva rifluiti per la maggior parte da dove provenivano: sono sempre più simili al capitalismo “occidentale”, a quello dei funzionari del capitale. La Russia fu in bilico; in essa gli USA, tramite Eltsin, tentarono il “colpaccio” di assorbirla nella propria orbita, ma alla fine fallirono. La Russia è sicuramente capitalistica, in essa impresa e competizione interimprenditoriale hanno ampio sviluppo, ma il controllo centralizzato, l’influenza penetrante della sfera politica in quella economica, sono evidenti. Non torniamo, per carità, alle tesi del capitalismo di Stato, ma certo si tratta di una formazione capitalistica che richiederà attente indagini poiché, appunto, la centralizzazione è la sua ben marcata caratteristica e non sembra affatto indicare una semplice fase di transizione al capitalismo tradizionale che conosciamo. E lo stesso dicasi della Cina; sarà socialmente e culturalmente diversa dalla Russia – come anche in occidente lo è in fondo ogni singola società capitalistica rispetto alle altre – ma appartiene più o meno alla stessa categoria del capitalismo con robusta centralizzazione politica.
La forte crescita di questa nuova formazione sociale capitalistica – dopo la “sbandata” russa degli anni ’90 – sta conducendo la configurazione geopolitica mondiale verso la progressiva riaffermazione del conflitto interdominanti di tipo policentrico. Quando si parlava – e quanto ne ho parlato io stesso (ma ancora più ingannevoli sono le tesi della “globalizzazione” dei mercati, vera ideologia d’accatto, sostenuta perfino dai “deboli pensatori” moltitudinari) – di rimondializzazione capitalistica, si aveva in testa il capitalismo tradizionale; e molti nemmeno quello dei funzionari del capitale, bensì quello analizzato da Marx – in base al modello della borghese Inghilterra – circa centocinquant’anni fa (sic!). Pensate quale catastrofe teorica hanno prodotto i marxisti sclerotizzati, che per-
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severano nell’errore. Oggi è ancora preminente il paese centrale del capitalismo dei funzionari del capitale (“occidentale”). Si stanno però producendo chiari fenomeni che indicano il progressivo avvicinamento di due “falde tettoniche”: il predetto capitalismo “occidentale” e la nuova formazione capitalistica a forte centralizzazione politica. Quando l’avvicinamento avrà prodotto la frizione acuta – fra 20-30 anni; forse più, forse meno – si produrranno nuovi “terremoti”, di cui adesso avvertiamo solo gli scricchiolii (per quanto sinistri). Personalmente, non penso che avranno la stessa forma dei conflitti novecenteschi. Tuttavia, non possiamo fare i profeti; sono comunque decisamente convinto che non saranno meno gravi, violenti e ampi di questi ultimi. Forse anche di più.
Fin d’ora dobbiamo attrezzarci alla nuova epoca policentrica che avanza. Non tanto nell’attività politica, dove si deve tatticamente tenere conto che mancano ancora alcuni decenni prima del vero scontro tra “falde tettoniche”. In teoria però si, dobbiamo sconvolgere i vecchi assetti della scienza della società, vecchia e oggi perfino in regresso. Siamo ancora allo scontro tra un marxismo dell’epoca di Marco Cacco e liberalesimo (e liberismo) che inneggia alle taumaturgiche virtù (smithiane e marshalliane) del mercato e dell’impresa, della libera concorrenza e della funzione innovativa degli animal spirits imprenditoriali; siamo alla menzognera ideologia – tipica di ogni epoca monocentrica – della competizione mercantile globale con superamento della funzione degli Stati nazionali (superficiali e false conclusioni sostenute anche da alcuni personaggi che si pretendono collocati sulla “estrema sinistra”), ideologia di supporto – come quella di Ricardo relativa alla “teoria dei costi comparati” in favore del monocentrismo inglese – all’azione statunitense tesa ad impedire che sorga una agguerrita competizione nelle branche della nuova rivoluzione industriale, e della scienza e tecnica connesse.
Di più: oggi il marxismo è sostanzialmente fatto fuori, si riduce a disquisizioni accademiche, perde la sua carica rivoluzionaria nella ridiscussione di temi “eccitanti” quali la “trasformazione” (dei valori in prezzi di produzione), la “caduta tendenziale del saggio del profitto”, e altre questioni di “vitale” importanza. La reale battaglia ideologica si sposta sul confronto tra liberalesimo (e liberismo) radicale alla Von Hayek e quello mitigato, già cavallo di battaglia dei fu riformisti socialdemocratici (quelli più seri degli anni 1950-80), di derivazione keynesiana. A questi rigurgiti di ormai superate teorie-ideologie si sta riducendo l’intellettualità in questa disgraziata parte del mondo che è l’Europa, con particolare nota di demerito per l’Italia (sempre all’avanguardia nella pochezza del suo ceto scientifico; e stendiamo un pietoso velo su quello dei suoi filosofi, in specie politico-sociali).
L’Europa ormai rischia di essere espulsa dalla “grande Storia”, che sembra dover essere giocata tra USA e nuove potenze ad est, forse con rivitalizzazione di nuove aree dell’ancora terzo mondo (una rivitalizzazione che tanto più sarà però profonda e duratura quanto più acuto e lungo sarà il conflitto tra i contendenti appena indicati per la supremazia globale). L’Europa è in procinto di vedersi assegnare un ruolo subordinato all’interno dell’area occupata dalla formazione dei funzionari del capitale. Il fremito di autonomia gollista è ormai praticamente rientrato (probabilmente le prossime elezioni presidenziali in Francia, chiunque vinca, lo spegneranno del tutto). Della Germania non parliamo nemmeno. L’Italia – dopo il cambio di regime dell’inizio anni ’90, propugnato dagli USA quando sembrava che non dovesse contare più gran che, dal punto di vista geopolitico, in seguito alla caduta del “socialismo” e dell’URSS – è tornata ad avere una discreta rilevanza, per il paese dominante centrale dell’area, solo in funzione sia di un consolidamento del predominio statunitense in Europa sia come pied-à-terre in direzione del Medio Oriente, Iran, certi paesi est-europei.
Effettivamente, non sembra per nulla facile che l’Europa, a questo punto, riesca a liberarsi in modo netto dalla presa statunitense, senza d’altronde cadere sotto quella delle nuove potenze in crescita. Sia chiaro che USA, Cina, Russia e altre sono incamminate verso un nuovo confronto che, interpretando il futuro con le vecchie categorie ancora in uso, dovremmo definire imperialistico. Sono in ogni caso convinto che si tratterà della decisa entrata in una nuova fase policentrica, di aspre contese per la supremazia, con o senza guerre mondiali di tipo novecentesco. Se continuiamo così, noi
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europei ci troveremo tra l’incudine e il martello, essendo però decisamente schierati nell’area della società dei funzionari del capitale (area statunitense). Sarebbe possibile una prospettiva diversa? Non certo affidandosi alle forze che si muovono nella “competizione globale” di tipo economico (mercantile); forze fondamentalmente manovrate dal complesso finanziario-politico del paese attualmente ancora predominante, e che si servono di schieramenti politici strutturati secondo la corrotta e ormai socialmente disgregante, e anarcoide, “liberal-democrazia”. Occorrerebbe una radicale rivoluzione con l’affermarsi di, per ora non visibili, gruppi fortemente organizzati e molto decisi a porre la politica al primo posto, tagliando le radici tra le forze economiche appena nominate e il preminente complesso-finanziario politico statunitense.
Bisognerebbe però passare sul “cadavere”, e forse in senso non tanto metaforico, degli schieramenti politici oggi esistenti, che – pur con diverse tattiche, che del resto si adeguano a quelle, altrettanto differenti, dei vari gruppi in conflitto all’interno del suddetto complesso finanziario-politico USA – assicurano la dipendenza europea, e specialmente quella italiana, alla strategia “imperiale” (di egemonia globale) di quel sistema-paese. La liberal-democrazia garantisce quello che ho recentemente segnalato quale “gioco degli specchi”, in cui destra e sinistra, questa melassa suddivisa secondo denominazioni vecchie e non più rispondenti ad alcun contenuto reale, si affrontano in un gioco di rinvii all’infinito, che serve solo a non individuare correttamente le modalità concrete del predominio statunitense. Anche perché questi specchi sono pure deformanti, e trasmettono la falsa idea di una sinistra più autonoma e “progressista”. Mentre è vero il contrario: ciò che appare sul palcoscenico politico è esattamente l’inverso di quanto esiste, in profondità e dunque più nascostamente, sul piano delle strutture economico-finanziarie e anche nel campo della egemonia culturale. I gruppi finanziari europei (e gli italiani in primo luogo), succubi della finanza statunitense e della sua azione di sostegno alla politica di predominio del proprio paese, sono in gran prevalenza, e in Italia completamente, attivi in politica nello schieramento detto di sinistra. La cultura predominante, il politically correct – fatto di mendace buonismo, di annientamento di ogni valore di ampio respiro, di relativismo debosciato, di senso comune depotenziato rispetto alla ragione critica – è parte integrale della mentalità di sinistra (dove è confluito anche il presunto sinistrismo “comunista”, del tutto residuale e di puro supporto ai dominanti).
Tutta questa spazzatura – lo ripeto per i sordi: tipica della liberal-democrazia – dovrebbe essere asportata e messa in discariche situate a grande distanza dalle nostre comunità civili. Fino a quando, o se, tale asportazione non si rivelerà possibile, è del tutto inutile pensare alla rinascita del nostro continente e del nostro paese. Qui si aprirebbe quindi il discorso intorno alle possibili mosse, solo ipotetiche, di una ipotetica forza in grado di far rinascere una prospettiva di non asservimento ad altri. Un discorso che deve logicamente essere fatto a parte, e preferibilmente con discussioni più collettive (sia pure tra gruppi ancora ristretti di non destri e soprattutto di non sinistri). La sinistra, in tutte le sue varianti e correnti, è il nemico politico e culturale principale per una prospettiva di autonomia rispetto al predominio statunitense, ma senza cadere sotto l’influenza di altri centri in formazione nella lotta policentrica per la supremazia. La destra, nel suo apparente antagonismo – del resto così acuto solo in Italia (e per questa fase storica di media lunghezza), a causa di quel marchio indelebile che è un lascito dell’operazione “mani sporchine” dietro input USA – non rappresenta né un’alternativa né una qualsivoglia soluzione del problema.
Vediamo di stringere le fila. Scommetto circa una ripresa, entro pochi decenni, della conflittualità interdominanti (intercapitalistica) per il predominio globale. Le forme di questa conflittualità – che comunque non sarà meno acuta e violenta che in passato; e già oggi ne abbiamo le prime avvisaglie nel presunto “terrorismo” – non sono adesso prevedibili. In genere, nella storia, tali forme – che sono quelle dei terremoti di più alto gradino nella misurazione secondo le varie scale – sono sempre diverse e provocano tipologie differenti di danni; mentre le cause profonde si situano nel sopra indicato urto e frizione tra falde tettoniche. Tale urto, nell’ambito della formazione mondiale, sarà quello tra due tipologie di società, entrambe non analizzate e comprese: quella dei funzionari
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del capitale e quella a forte centralizzazione politica. Entrambe vedono in primo piano l’impresa e la competizione interdominanti nella sfera economica, mentre non ha più reale potere la vecchia “classe”, la borghesia, caratterizzata dalla proprietà privata dei mezzi di produzione; pur se tale forma giuridica, in quanto scudo protettivo del controllo delle varie unita produttive da parte di differenti gruppi di agenti delle strategie, resta prioritaria nel primo tipo di formazione sociale e comincia ad espandersi e ad avere peso sociale e politico di crescente rilievo nel secondo tipo.
La conflittualità tra i due tipi nell’ambito della formazione geopolitica mondiale sarà appunto diversa nelle forme, ma non proprio nella sostanza, rispetto all’epoca che fu detta dell’imperialismo. In sede scientifica, ho molte titubanze ad impiegare tuttora tale termine, ormai piegato ad ogni uso, in specie di propaganda politico-agitatoria. L’imperialismo fu, scientificamente, pensato a suo tempo come stadio – di irreversibile conseguimento della forma monopolistica dei mercati capitalistici, fra le altre caratteristiche – mentre deve essere messo in chiara evidenza che si è trattato soltanto di una delle ricorsività legate agli scontri geopolitici globali tra i gruppi dominanti di diverse formazioni particolari (paesi), quando si arrivi al culmine delle epoche di policentrismo (questo il termine che preferisco). Comunque, tali scontri apriranno fratture e crepe gravi all’interno delle varie formazioni particolari. Poiché non esistono qui deterministici rapporti di causa-effetto, è logico che non vi sia una rigida sequenza di un prima (scontro interdominanti) e un poi (sconvolgimenti degli assetti interni delle formazioni particolari con apertura di fasi di rivolgimento sociale in esse o alcune di esse, i cosiddetti “anelli deboli”). Dobbiamo aspettarci crescenti turbolenze sociali anche prima dell’instaurarsi di una vera epoca policentrica; per certi versi, sono anzi già in atto, pur se con caratteri mai previsti dal marxismo rimasto all’analisi della vecchia forma sociale del capitalismo borghese, durante l’epoca monocentrica a dominazione inglese.
Per il momento, sembra problematico che l’Europa riesca a divenire uno dei poli del conflitto geopolitico globale; al presente è sempre più appiattita e acquattata nell’area della formazione dei funzionari del capitale a pretta dominazione statunitense. Questo rende tatticamente prioritaria la lotta a questa dominazione, ma con netta differenziazione rispetto a certi gruppi “antimperialisti” (ecco l’ambiguità di certa terminologia propagandistica e agitatoria), che fanno dell’antimericanismo una ossessione, come se non ci fosse in futuro il rischio di cadere sotto l’influenza di altri poli da cui si irradierà il conflitto per la supremazia mondiale; e già oggi si avverte benissimo il problema, con l’impetuosa crescita delle potenze ad est. Questo, e diciamo pure purtroppo, rende necessario comprendere che una lotta antiamericana, non condotta con l’intenzione di divenire subordinati ad altri poli (diciamo, all’antica, “imperialistici”), esigerebbe l’acquisizione europea (e perché non pure italiana?) della potenza.
Quelli che hanno paura di questa parolina, e che preferirebbero diventare, come i “martiri cristiani” (hollywoodiani), un “pasto per le belve”, si accomodino pure. Io non sono un cultore della potenza per la potenza; in linea di principio, la aborrisco anch’io; “sognando le fate”, mi metterei anch’io a fare il pacifista “a bischero sciolto”. Il mondo non è però dei “santoni”, che del resto, chissà perché, trovano sempre i seggi parlamentari e la cadrega di presidente di qualche “camera”, mentre gli onesti sfilano con le bandiere arcobaleno. Sono da disprezzare e combattere come nemici i primi, sono da rispettare i secondi, dichiarando però con nettezza il mio disaccordo. Sia che si tratti di pacifisti e movimentisti pacifici, sia che si scatenino in violenze spesso scriteriate, non si rendono conto che sono esattamente l’altra faccia – subordinata e minoritaria! – della medaglia rappresentata dalla ormai sfatta liberal-democrazia. Non possono batterla, la possono solo far degradare sempre più, con il bel risultato di porre l’Europa (e in particolare il nostro paese) in fase di accelerato declino e di crescente subordinazione rispetto agli USA. E’ certamente necessario andare oltre il vecchio comunismo, come politica, e il vecchio marxismo come teoria; ma regredire a non violenza, o a violenza anarcoide, non serve che a ribadire la propria subalternità ai disegni dei subdominanti nostrani. Così pure mi rifiuto categoricamente di considerare vecchie e nuove BR come terroristi o, peggio, criminali. Si tratta di “incazzati” nel vedere le porcherie di questo ignobile sistema sociale, delusi nel constatare il tradimento dei rinnegati e opportunisti della sinistra attuale (che è, in
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realtà, quella di ogni tempo e luogo!). Tuttavia, dico francamente che non posso nemmeno considerarli semplicemente “compagni che sbagliano”. Ormai c’è un limite alla sopportazione di certi errori – quelli, appunto, del vecchio comunismo e marxismo – e bisogna concentrare invece le forze sul loro veloce superamento.
Nemmeno mi esalto per la lotta di sciiti e sunniti, per i talebani, per il nucleare iraniano. Li appoggio pienamente e sono lietissimo quando Russia e Cina crescono in potenza e aiutano, più ancora sotterraneamente che alla luce del Sole, i suddetti “bastoni fra le ruote” dell’egemonia americana. Non vedo l’ora che la guerriglia afghana dia una dura lezione alla NATO (agli USA che la dirigono come e dove vogliono e a tutti quelli che ci stanno in mezzo) e che, infine, crolli il bastione pachistano “sbandando” (lo spero) verso la Cina o la Russia. Ma non nutro questi “sentimenti” per passare dal predominio USA a quello cinese o russo o altro. Dobbiamo quindi rassegnarci al problema della potenza. Il difficile consiste nel condurre la politica che la consegue, senza il disegno di divenire semplicemente uno dei centri del conflitto interdominanti mondiale. E’ indubbio che sussiste contraddizione tra l’acquisizione della potenza e il conflitto sociale interno ad ogni formazione particolare (paese). Gli amanti della contraddizione dovrebbero esserne contenti; d’accordo, questa non è molto “dialettica”, ma semplicemente perché non è trattata in sede di sola filosofia, bensì anche con la volontà politica (e la stessa teoria, se agisce a certi livelli e con certi intendimenti, è politica!) di intervenire nel mondo reale e nella congiuntura concreta della presente fase storica.
Basta andare a caccia di farfalle. Anch’io ci sono andato negli anni ’80 e buona parte di quelli ’90. Adesso, è necessario cambiare musica, ma con il rigore del vecchio marxismo (e in specie quello di Marx e Lenin). Si tratta di tornare a capire ciò che la teoria premarxista – e oggi siamo in pieno revival del premarxismo – non ha capito: non è l’uomo con la sua attività teleologica (che sia il lavoro o altro) a intervenire nella storia, ma una miriade di individui di cui si debbono indagare seriamente le “determinazioni sociali”, la rete dei rapporti in cui agiscono, essendone condizionati e dunque spesso “appesantiti”. Bisogna tornare a riproporre, ma con l’attenzione rivolta all’epoca odierna, la concezione marxiana espressa fin dalla prefazione al Capitale secondo cui non si “può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”. Nel capitolo II del primo libro viene ribadito il concetto: “Troveremo in generale, man mano che la nostra esposizione procederà [corsivo mio perché in effetti tutta l’elaborazione del Capitale è fondata su questo principio], che le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra”.
Sarebbe sciocco pensare che Marx non tenesse conto delle individualità empiriche dei differenti uomini (che, come lui stesso dice, possono “elevarsi al di sopra” dei rapporti sociali in quanto determinazione specifica del loro agire). Se uno osservasse per mesi un bel po’ di lombrichi, alla fine scoprirebbe in ognuno d’essi una individualità specifica, pur se assai debole (dal nostro punto di vista). Tuttavia, l’insieme dei lombrichi ha delle determinazioni che danno alla loro complessiva attività una decisa obbligatorietà; nei lombrichi (come negli animali in genere) queste determinazioni hanno carattere nettamente naturale. Negli uomini esiste la “seconda natura”, quella storico-socioculturale, che assume via via una predominanza e una centralità rispetto a quella puramente naturale. E’ proprio a causa di questa preminente “seconda natura” che l’individualità degli uomini (colta e osservata dagli uomini stessi) è fortemente accentuata rispetto agli animali, anche a quelli “superiori”. Tuttavia, gli individui umani sono egualmente determinati, in forte misura, dalla struttura di rapporti entro la quale vivono e agiscono. Si dice spesso che ognuno, anche il più grande personaggio, è “figlio del suo tempo”. Se si esercita la professione dello psicologo, è lecito concentrarsi sull’individualità. Una teoria sociale però – e senza questa teoria non si dà una azione politica consapevole e di ampio, strategico, respiro – deve guardare alle determinanti sociali dell’attività umana (o, meglio, di socialmente differenti “gruppi umani”). I discorsi generici, che tagliano fuori la struttura sociale e la sua influenza determinante sul nostro agire, non ci servono politicamente a nulla. Spero di essere stato chiaro.
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In altre parole, parafrasando, “l’uomo propone e la struttura dei rapporti sociali dispone”. Ci si può elevare soggettivamente al di sopra (entro dati limiti!) di essa, ma solo con il massimo rigore nella – per nulla affatto volgarmente empirica – “analisi concreta della situazione concreta”, cioè nell’indagine delle determinanti sociali vigenti nell’epoca in cui si vive e, a livello più immediato, nella congiuntura in cui si agisce. Questa l’essenza del marxismo, non la teoria del valore e i suoi problemi matematici, che solo certi pseudomarxisti, comici e patetici, coltivano. Ma nemmeno l’Uomo, la sua presunta natura e i suoi scopi (sempre “alti” per pura definizione). Basta con il marxismo della precisione matematica o della chiacchiera generica che salta le determinanti sociali. Rigore di analisi; e ancora rigore! Che non cancella per nulla, però, la passione, quella volontà di elevarsi soggettivamente al di sopra di tali determinazioni oggettive per mutarle. Nessuna freddezza e pura razionalità, questa spenta parodia del rigore scientifico; solo consapevolezza che i nostri limiti – non solo naturali (e ambientali!), bensì propriamente sociali (e dunque anche culturali) – sono …… “illimitati”. Possiamo indagarne sempre soltanto una parte minima. Ma su questa minima parte, ci si butta a pesce e con violenza, e senza misurare il linguaggio, che né Marx né tanto meno Lenin controllavano quando si trattava di dire quel che pensavano di idioti o mascalzoni, che si fingevano scienziati, filosofi o addirittura grandi politici. Grandi profittatori della dabbenaggine delle masse, questo si; e oggi questi si sono moltiplicati come gli scarafaggi o i topi di chiavica.
Tutti noi dobbiamo avere coscienza dei nostri limiti; individuali ma ancor più quelli che una certa fase storica, e la struttura culturale e anche emotiva che essa ha forgiato in noi, ci ha posto. Sono figlio di un’epoca che, sia pure in un suo margine, ha intersecato comunque quella drammatica delle grandi guerre, della grande crisi, del nazifascismo e del comunismo e antifascismo (quello di un tempo lontano, non certo quello ridicolo e disgustoso che si trascina, puzzando, da ormai qualche decennio). Ho vissuto invece in pieno l’epoca dei più che discreti e dignitosi dibattiti tra marxisti, in cui si era sperato di veramente rifondare – non buffonescamente alla Bertinotti o alla Diliberto – il comunismo e la teoria marxista. La caduta di quella speranza, la dimostrazione dell’irriformabilità di comunismo e marxismo, nella loro versione purtroppo ormai canonizzata, ha reso impossibile a chi si è formato in quella temperie di poter rifondare qualcosa di nuovo. Tuttavia, il cervello rimane per giudicare dei minuscoli intellettuali che, con la postmodernità, hanno solo pestato acqua in un mortaio, che – con tutte le loro riscoperte e rivisitazioni di pensatori già grandi (non però più di Marx), ma ormai anch’essi obsoleti – si sono messi a pontificare sul pesce conservato in freezer che pretendono di vendere per appena pescato. Fanfaroni, meschini, pensatori deboli, deboli e piccoli, piccoli.
La generazione fra i 45 e i 60 anni – salvo ovviamente le debite eccezioni, per fortuna non rarissime – è quella più fallimentare, quella dell’invenzione dell’acqua calda, degli annunci mirabolanti di salvare il mondo, mentre è solo in grado di impestarlo con la sua ampia banalità e superficialità. Il compito delle persone, che si sono comunque forgiate in un’epoca di serietà e di capacità di approfondimento, non è quello di annunciare un qualche nuovo sistema teorico poiché, appunto, nessuno può liberarsi, se non di appena un po’, dei suoi condizionamenti pregressi. E’ però possibile illuminare il marcio dell’epoca passata, o ciò che aveva valore allora ma ha ormai fatto fallimento. E si è in grado di indicare, a grandi linee, i motivi del fallimento; e soprattutto in quali parti della passata prassi e della vecchia teoria quest’ultimo ha prodotto guasti ormai irreparabili. Spetta a quelli come me di mostrare la vecchiezza del marxismo, di indicare le parti già putrefatte di quel corpo dottrinale. E, se ci sono organi ancora espiantabili e trapiantabili altrove, si deve operare con accuratezza e porgere questi organi ai più giovani affinché essi – gli unici in grado di farlo – siano messi nelle migliori condizioni di effettuare, appena possibile, il trapianto in corpi che siano vivi e sani (ma per ora non credo siano presenti; non almeno in questo vecchio mondo europeo in declino).
Non so se questo vecchio mondo possa ritrovare nuove vie per risollevarsi. Poiché però noi qui viviamo, l’invito è di provarci; ma ci si riuscirà se si sarà capaci di creare le “squadre di eliminazio-
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ne” degli zombies, se questi verranno bruciati e i resti carbonizzati sepolti. Il discorso è soltanto metaforico, ma non credo che il noto mort qui saisit le vif verrà battuto con “dolci maniere”. Bisogna che i più giovani inizino ad attrezzarsi alla potenza in tutti i sensi, in ogni ambito dell’azione che potrà (forse) svilupparsi in futuro in questa Europa, dove la politica dovrà assumersi il compito di “comandare” l’economia, di forzarla in direzioni che non sono quelle dei gruppi dominanti economico-finanziari che indico come GFeID. Ma la politica, per poter comandare, dovrà essere ben dura (come lo è in Russia e in Cina). I “magnati” della GFeID dovrebbero essere trattati alla guisa di quelli russi da parte di Putin. Dovremmo intanto cominciare, solo per esercizio e ipoteticamente (con le modalità, di “finzione teorica”, con cui ho parlato qualche mese fa della terza forza), a immaginare qualche misura di una possibile politica, che quest’ultima sarebbe in obbligo di svolgere ove volesse conseguire qualche risultato. Vedremo.
4 marzo
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