CAPIAMO MEGLIO COSA SONO TEORIA E PRATICA
1. Innanzitutto, bisogna porsi il problema dello statuto della teoria. Si vuol con essa rappresentare in qualche modo la realtà? Magari non nel suo completo sviluppo, ma tentando di “riprodurre” la tensione che la muove, che è causa intrinseca di tale sviluppo, ecc. In tal caso, evidentemente, si dovrebbe individuare la tensione interna alla realtà (onde spiegarne la dinamica in modo non deterministico), l’esistenza di “gradi di libertà” nella sua evoluzione, le possibilità che si aprono nel corso delle sue trasformazioni.
Sembra più utile accettare una prospettiva rigorosamente costruttivista e antiontologica della conoscenza. Lasciandoevidentemente impregiudicata l’esistenza di una realtà a noi esterna, non si deve attribuirle forme “legali” ordinate di esistenza e sviluppo. Il legame fra teoria e realtà è di tipo operativo, “pratico”. La realtà non si può riprodurre nella sua costituzione intima, poiché essa è flusso caotico e continuo. Per poter agire in essa, senza essere travolti dal suo movimento tumultuoso e disordinato, dobbiamo appunto attribuirle una struttura ben organizzata ed una dinamica dotata di una direzione piuttosto precisa. Al limite possiamo costruire più ipotesi su struttura e dinamica della realtà assegnando loro dati gradi di probabilità; ma non certo in numero troppo grande altrimenti ricadiamo nel caos e nella conseguente indecisione sul “che fare”.
L’agire umano esige in tempi rapidi la scelta di una certa direzione di movimento. Il fare teoria implica dunque, a volte in modo del tutto implicito (e magari poco consapevole), l’esistenza di un orientamento, di una intenzionalità, che è la nostra di intervenire nel mondo per modificarlo, adattarlo a certe nostre esigenze; dove l’intervento, in senso lato, può voler dire semplicemente situarsi in esso, assumere una posizione che ha sempre, sia pure mediatamente, fini pratici. In questo senso, la teoria è tutto sommato una pratica teorica, è parte integrante della prassi umana, sia in quanto “appropriazione della natura” sia come lotta per la “trasformazione sociale”, ecc.
2. Dette queste poche cose, si tratta di almeno tratteggiare l’analisi dei modelli di teoria sociale proposti dal marxismo. Ad esempio, dire che in essi non vi è contrapposizione tra sincronia e diacronia (Althusser) non sembra dover significare che non è possibile, analiticamente, distinguere tra posizione (ipotetica) delle strutture e attribuzione (sempre ipotetica) di una processualità di evoluzione delle stesse secondo certe direttrici. Si può solo sostenere che strutture e processo vanno posti insieme e si giustificano e “(di)spiegano” l’uno con le altre. La direttrice di sviluppo, che è l’intenzionalità attribuita dal ricercatore alla realtà “ordinata” delle strutture poste, non solo spiega la supposta configurazione di queste ultime, ma presuppone anche particolari modalità costitutive, “genetiche”, di quelli che nel marxismo sono i <<modi di produzione>>, in quanto scansioni della storia delle formazioni sociali; e va da sé che tutto questo processo conoscitivo implica la posizione, la “presa di partito”, del ricercatore entro quella determinata fase storica della società.
Bisognerà, innanzitutto, formalizzare meglio – non in senso matematico, che in questo caso serve a far dimenticare il lato eminentemente sociale della teoria! – le ipotesi base dei vari modelli marxisti proposti, spesso avendo capito assai poco di Marx. Qui procederò senza un vero ordine. Il presupposto “genetico” specifico del <<modo di produzione capitalistico>> è costituito dai processi di separazione della proprietà dei mezzi di produzione dai produttori, secondo la loro scansione in formale –separazione dalla proprietà giuridica e/o dal potere di disporne – e reale nel senso della separazione dalla capacità concreta di usarli a fini produttivi; dovuta alla sempre crescente divisione delle mansioni lavorative nella manifattura (capitalistica) e dal tumultuoso passaggio alla macchinofattura (prima “rivoluzione industriale”: 1760-1840 in Inghilterra).
A partire da questa separazione sono supposti – anche se le varie correnti marxiste pensano troppo spesso nei termini di una loro individuazione concreta, reale, indubitabile – i meccanismi della sua riproduzione e della sua evoluzione. E’ in questa indagine della riproduzione e dell’evoluzione che vengono pensate e poste le strutture della separazione. Le strutture, fondamentalmente, sono due e situate in due sfere o livelli differenti. La prima, detta della circolazione (sottinteso, mercantile), è costituita da tante unità produttive separate e indipendenti fra loro, connesse dalla reciproca compravendita di valori d’uso, che in tal caso sono mezzi di produzione. La seconda struttura è il rapporto tra proprietà e non proprietà di detti mezzi di produzione. Detto rapporto è disposto su due piani: uno <<circolatorio>> che vede l’acquisto come merce della forza lavoro senza proprietà da parte del proprietario, acquisto che consente a quest’ultimo l’appropriazione di pluslavoro (plusvalore) erogato nel <<piano della produzione>> (esecuzione del processo lavorativo sotto la direzione del capitalista). Si dà per scontato che sia il primo che il secondo piano vedono di fronte, formalmente, ogni data e singola proprietà concernente l’unità produttiva (l’impresa) e ogni dato e singolo lavoratore.
Analiticamente, è bene considerare quanto avviene in ognuna delle due strutture, prese separatamente, anche se evidentemente la supposizione di tendenze dinamiche nell’una esige che si tenga conto degli influssi provenienti dall’altra. Ed è bene partire dalla struttura del rapporto tra proprietà e non proprietà, anche se quello relativo al mercato – la “superficie”rappresentata dalla circolazione mercantile – appare come quello socialmente più complessivo, coinvolgente l’intera società.In realtà, questo rapporto, considerato più complessivo, è di fatto semplice mediazione del più decisivo rapporto tra capitalisti e lavoratori (quindi tra proprietà e non proprietà dei mezzi produttivi); è quest’ultimo che riproduce la caratteristica decisiva del <<modo di produzione capitalistico>> – appropriazione del plusprodotto dei lavoratori da parte di chi ha il potere di possesso dei mezzi di produzione – su scala sempre più allargata, a livello mondiale.
3. La tendenza fondamentale che si estrinseca nella produzione – in ogni singola unità produttiva, separata dalle altre dal mercato e in conseguente competizione (concorrenza) con queste– è la valorizzazione del capitale di ogni dato proprietario, dunque l’ottenimento del profitto che consegue alla differenza tra lavoro erogato dai produttori e lavoro necessario alla loro riproduzione in quanto portatori di forza lavoro. La tensione, la direttrice di sviluppo, è quella relativa all’aumento della produttività del lavoro onde accrescere la differenza sopra indicata, tensione che comporta trasformazioni organizzative (divisione “tecnica”) del lavoro e nuovi metodi e tecnologie produttivi. La tensione in questione si considera alimentata dalla concorrenza tra i vari capitali, cioè tra le varie unità produttive, così come dall’eventuale aumento dei salari (reali) ottenuto dai lavoratori, che si può recuperare appunto tramite accrescimento della produttività del lavoro. Tuttavia, la tensione alla trasformazione tecnico-organizzativa del processo lavorativo – e la peculiare “razionalità” dei mezzi ai fini che la regge – deve ormai considerarsi connaturata ad ogni estrinsecazione lavorativa nella società capitalistica.
La tensione in oggetto implica il tempo in duplice senso:sia perché richiede tempo, si svolge nel tempo, sia perché mira all’economia di tempo lavorativo come mezzo di valorizzazione (ottenimento di <<plusvalore relativo>>) e, nel contempo, mezzo di lotta concorrenziale (attraverso riduzione dei costi di produzione e dunque dei prezzi). Per quanto riguarda le posizioni “strutturali” cui detta tensione dà vita, poco vi è da dire. Innanzitutto, nel rapporto proprietà-non proprietà si rafforza il primo polo, poiché nella giornata lavorativa cresce la parte che va alla proprietà rispetto a quella che va al lavoro (crescita del <<plusvalore relativo>> e diminuzione del salario relativo). Per quanto concerne la struttura dell’attività lavorativa (produzione di valori d’uso), si verificherebbe una sua crescente divisione in operazioni via via più elementari con successiva integrazione delle stesse per mezzo di impiego di strumenti innovativi; si creerebbe dunque una struttura più compatta, coesa, con rapporti coordinati tra le varie parti dell’attività suddivisa.
Vi sono però una serie di effetti “secondari” (per modo di dire). Innanzitutto, scienza e tecnica vengono incorporate viepiù nella produzione, nella forma del “sistema di macchine”, nelle tecnologie impiegate. Anche questo è effetto della spinta alla valorizzazione del capitale (sempre il <<plusvalore relativo>>), ma viene comunque considerato quale aspetto prevalentemente positivo in relazione alle forze produttive sviluppate nella produzione di valori d’uso. Si suppone che aumenti così anche la composizione organica del capitale (C/V; cioè capitale costante, rappresentato dal costo degli strumenti produttivi e delle materie prime, diviso per quello variabile che è l’ammontare dei salari); una tendenza tutt’altro che chiara poiché la produttività del lavoro dovrebbe aumentare assai più rapidamente nei settori che producono mezzi di lavoro e, dunque, il loro valore (il C per l’appunto) dovrebbe decrescere rispetto a quelli dei beni di consumo che rappresentano il valore della merce forza-lavoro (il V; detto variabile perché la forza lavoro eroga più lavoro del suo valore-lavoro, un “di più” che è appunto il pluslavoro-plusvalore, cioè il profitto capitalistico).
Altro effetto è la crescente “astrazione” del lavoro, nel senso della perdita di ogni sua particolarità e intercambiabilità nelle diverse funzioni lavorative; questo è valido soprattutto per i lavori più semplici, ma tendenzialmente riguarda ogni funzione, anche di tipo direttivo. Il corpo sociale lavorativo – nelle diverse unità produttive – viene sostituito in misura crescente dall’apparato tecnico-scientifico, che assicura la coesione, l’integrazione, la cooperazione tra le varie funzioni connesse alle diverse frazioni in cui è suddivisa l’attività lavorativa complessiva. Tale integrazione concernerebbe quindi anche le differenti funzioni esplicate nei diversi livelli della gerarchia lavorativa. Il corpo lavorativo, pur differenziato, diventerebbe un tutto tendenzialmente unitario e compatto (“il lavoratore collettivo”), poiché la differenziazione gerarchica diventa elemento secondario e sempre meno essenziale rispetto al coordinamento d’insieme assicurato dalla scienza e tecnica incorporate nel “sistema delle macchine”.
4. Da questa visione teorica del problema, è chiaro che Marx trasse l’idea che alla fine si sarebbe formata l’associazione dei produttori, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”, con sua complessiva opposizione ai proprietari capitalisti divenuti assenteisti rispetto alla produzione; quindi puri parassiti senza più nemmeno esercitare la funzione direttiva dei primi tempi dello sviluppo di questa nuova formazione sociale succeduta al feudalesimo. Simile idea si rivelò errata con il passaggio al capitalismo delle grandi “corporations”, in particolare tipico degli USA. Ci si accorse (e Burnham lo teorizzò apertamente) che gli alti dirigenti di tali grandi imprese – pur spesso avendo anche quote proprietarie delle stesse – erano soprattutto dotati dei poteri tipici attribuiti da Marx ai capitalisti proprio in funzione delle loro capacità di direzione.
Tuttavia, questo è solo un lato del problema; e direi anche il meno importante. Innanzitutto, si notò assai presto che anche i “non alti” dirigenti dell’impresa non hanno nessuna convergenza con la “classe operaia” strettamente intesa. Inoltre – questo è decisivo – i personaggi al vertice delle grandi imprese (appunto le “corporations”) hanno prerogative assai più rilevanti per il successo delle stesse se rapportate a quelle di coloro che esercitano semplicemente funzioni direttive nel processo di produzione. E non si pensi semplicemente ai dirigenti di quei settori imprenditoriali dediti alla vendita mercantile dei prodotti (ivi compresa l’attività pubblicitaria). Gli alti dirigenti delle grandi imprese esercitano soprattutto la <<Politica>>: la serie di mosse tattico-strategiche per riportare il successo sugli avversari. E tali mosse non si potrebbero effettuare se lo sguardo di similipersonaggi fosse limitato alla sfera produttiva e di vendita mercantile; e nemmeno solo a quella indispensabile ad ottenere l’equivalente generale degli scambi, la moneta. Gli “idioti” odierni – i “grandi economisti” del Nulla – sono ossessionati dal dominio della Finanza. Questa fornisce certo uno strumento importante, ma che di per se stesso non farebbe ottenere la benché minima vittoria nella competizione.
Occorre appunto la <<Politica>>, la capacità di effettuare le mosse decisive per ottenere una supremazia. Questa <<Politica>>potrebbe essere attuata da “alti dirigenti” delle imprese se questi limitassero lo sguardo alla produzione delle stesse, alla vendita dei prodotti, all’ottenimento di mezzi finanziari? Nemmeno per sogno! Le imprese, anche di grandi dimensioni, non hanno in se stesse gli apparati indispensabili ad esercitare la <<Politica>>. Per questa decisiva attività occorre <<Il Potere>>. Ahi, ahi, qui si apre un problema che richiederà tanta attenzione e studi ben approfonditi. Partiamo intanto dalla fondamentale, e sempre più attuale, affermazione di un veramente notevole pensatore (Von Clausewitz): “ La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.”. E la politica di cui qui si parla è appunto la <<Politica>>, la strategia (con le sue “figlie tattiche”) per vincere e conquistare la supremazia, cioè, in definitiva, un vero <<Potere>>, che duri per un certo periodo di tempo.
La “guerra”, intesa in senso stretto, è quell’azione politica in cui si usano mezzi bellici (militari, insomma ci siamo intesi) per lo scontro teso alla preminenza definitiva. E tale scontro riguarda il conflitto tra grandi complessi sociali, tipo i paesi o nazioni dell’epoca moderna, quando si arriva all’ultimo e ormai irrinunciabile atto per prevalere. Quest’atto, nella sua conduzione, esige in modo del tutto essenziale non il semplice possesso di armi superiori a quelle del nemico, ma proprio l’abilità strategico-tattica nella conduzione delle sue singole e varie operazioni. La guerra è dunque “continuazione della politica”, ma è essa stessa pervasa dalla <<Politica>>, nel senso già chiarito. Quest’ultima, dunque, è l’azione decisiva per conquistare una supremazia (una predominanza); cioè per assumere il vertice, il punto più alto, del <<Potere>> in una data “area sociale”, che ha pure connotazioni territoriali. Il <<Potere>> ha dunque sempre come effetto la sua estensione ad una determinata area geografico-sociale.
5. La guerra non è altro che uno dei mezzi, assai violento, per giungere al <<Potere>>; e per conquistare quest’ultimo non basta il semplice sfoggio di violenza, ma proprio la capacità strategica (dunque lo svolgimento della <<Politica>>) in tutti suoi molteplici aspetti. Occorrono menzogna, inganno, raggiro, finta bonarietà e amichevolezza, provocazione e “voce grossa”, conoscenza (quasi sempre indiretta, “spionistica”) delle forze e delle mosse dell’avversario, blocco o sviamento delle stesse intenzioni di quest’ultimo, ecc. ecc. Per lo svolgimento di simili azioni occorrono organizzazioni, chiamiamoli pure “apparati”, del tutto specifici, adatti a perseguire simili scopi. E questi apparati sono in genere quelli della sfera sociale definita politica; oggi lo Stato in primo luogo, dizione sintetica di una organizzazione assai complessa e variegata, che viene spesso, in modo improprio, trattata come si trattasse di un unico “soggetto agente”, quasi avesse una sua personalità specifica, una sua mente, perfino magari un’“anima”.
Per l’organizzazione di simili apparati, e per lo svolgimento delle loro operazioni, certo occorre anche lo strumento denaro. Tuttavia, identificare in questo strumento il vero, supremo <<Potere>> è la più stupida e banale convinzione di coloro che si credono suoi nemici in quel dato momento vigente. Ed essoalimenta simili demenzialità, ne consente del tutto “lietamente” lo sfoggio per dimostrare la sua “tolleranza democratica”; in realtà sa che è esattamente uno dei mezzi per mantenerlo ed esercitarlo al suo massimo grado. Non è la sedicente “dittatura” l’uso più perverso e pericoloso del <<Potere>>, ma proprio l’esaltazione della “democrazia”, il più perfido e subdolo inganno perpetrato dai peggiori fra i suoi detentori. Non a caso, da ormai un periodo plurisecolare, al comando degli Stati Uniti.
Questo <<Potere>>, sia chiaro, non è qualcosa di fisso e stabile. E’ assai mutevole nelle sue forme di manifestazione, nei vari settori in cui deve estrinsecarsi per mantenersi dotato di sufficiente controllo politico nella società tutta e nei numerosi momenti successivi del suo esercizio. Deve affrontare vari conflitti, da alcuni dei quali è anche attraversato e “scosso”. Insomma esso è consustanziale alla <<Politica>>. Quest’ultima mira al <<Potere>>, che non potrebbe mai sussistere senza svolgerla con il massimo respiro possibile. Bisogna essere allora ben consci che al centro di tutto sta sempre il conflitto, sia pure di portata e intensità ben diversa nei differenti ambiti sociali in cui si manifesta e in cui sia la <<Politica>> che <<il Potere>> sono quindi di rilevanza molto varia.
Sia l’una che l’altro investono tutte le sfere sociali: quella economica, quella detta politica (compresa la cosiddetta “amministrazione” degli affari generali di un dato complesso sociale qual è, ad es., un paese o nazione), quella ideologico-culturale (con le sue svariate correnti). Il <<Potere centrale>> di un dato complesso sociale (tipo appunto un paese o nazione) non sta nella sfera economica né in quella ideologico-culturale. Nessuno sottovaluta ciò che forniscono tali sfere come mezzi per il conflitto in quanto “essenza” della <<Politica>> per conquistare il <<Potere centrale>>. Ma forniscono appunto mezzi, non sono attrezzate a detta conquista. Per comandare centralmente occorre una completa pervasività – nell’intero corpo sociale – del <<Potere>> e dunque delle mosse strategiche (la <<Politica>>appunto) per conquistarlo sopraffacendo altre forze in conflitto.
La conclusione di tutto questo ragionamento mi sembra abbastanza evidente, anche se dovrà continuamente essere riconsiderata e precisata. Il massimo <<Potere>> è quello <<centrale>>, esercitato dai vari apparati che si chiamano sinteticamente Stato. Di detti apparati sono certo importanti quelli sempre presi in prevalente considerazione dai marxisti e che svolgono funzioni di “repressione e coercizione”, aspetti non irrilevanti della preminenza di dati gruppi sociali. Apparati decisivi sono pure quelli bellici, dotati di tutta la strumentazione necessaria allo svolgimento della “guerra”, che proprio per questo è stata definita “continuazione della politica con altri mezzi”. La guerra è però uno dei conflitti, anche se deve essere esercitato, in quella specifica metodologia d’azione, con particolare virulenza e dunque con una adatta strumentazione. Ed infatti il conflitto – necessario alla vita e movimento di una qualsiasi realtà, naturale come sociale; anche se con modalità differenti nei diversi ambiti – è il processo per il quale, nella società, è sempre necessaria la <<Politica>>. Senza quest’ultima non si prevale in nessun settore dell’attività conflittuale tra diversi gruppi sociale e anche tra individui.
In forma minima si svolge attività politica, e quindi conflittuale, nella coppia d’innamorati, nella famiglia; e poi in forma via via più accentuata nelle diverse associazioni professionali, nelle imprese (all’interno d’esse e nella concorrenza tra esse), tra i diversi gruppi che lottano per il governo di una data società nazionale, ecc. E infine nel confronto, ben più robusto, tra diverse società del genere (i vari paesi) per il predominio in vaste aree geografico-sociali o nel mondo intero. Ed è in quest’ambito che il conflitto, sempre guidato dalla <<Politica>>, può sfociare infine nella “guerra” quando altre soluzioni sono giunte ad esaurimento. Questo fa capire immediatamente che il conflitto più alto e che predomina su tutti gli altri non si svolge nella sfera economica (dove nel capitalismo si ha la concorrenza interimprenditoriale con i suoi diversi metodi di innovazione nei processi di lavoro e nel lancio di nuovi prodotti, ecc.) e nemmeno in quella ideologico-culturale (per la preminenza di una certa corrente ideale).
I gruppi in competizione nell’economia e nella cultura devono sempre trovare il loro correlato nella sfera politica; altrimenti mai prevarranno. Tutti si impressionano per la corruzione dei politici, per le tangenti provenienti dal mondo produttivo e finanziario. E dunque, per i superficiali, il potere vero spetta a chi ha soldi da spendere per comprare settori della politica. Se in questi settori ci sono degli inetti – o più facilmente gruppi politici servi di altri ben più potenti; tipico caso rappresentato da quelli italiani degli ultimi trent’anni, striscianti ai piedi dei dominanti statunitensi – i gruppiimprenditoriali e culturali hanno ben poco da “giocare”. Possono prevalere in ambiti assai limitati, possono in casi fortunati arricchirsi, ma di potere non ne hanno e la loro stessa ricchezza è sempre in pericolo. In definitiva, il vero <<Potere>>, quello decisivo, spetta a chi sa guidare gli apparati della sfera politica (in primis quelli dello Stato) nello svolgere la <<Politica>> (la strategia e tattica) in grado di battere gli avversari; arrivando appunto, nei momenti cruciali, alla “guerra”.
Per il momento chiudo qui. Anche perché il discorso ben più vasto e che parte dall’inizio della teoria sociale – quella a mio avviso da considerarsi la scientificamente più valida e realistica, formulata da Marx e fortemente deteriorata nella seconda metà del XX secolo da marxisti per modo di dire – l’ho a mio avviso abbastanza ben svolto nel libro di prossima (non vicinissima) pubblicazione: “Per un nuovo percorso teorico”. In esso ho dedicato ampio spazio alla formulazione di quanto qui è soltanto accennato. Rinvio dunque alla lettura del libro, che ben pochi faranno; come saranno sempre pochi quelli che leggeranno questo mio breve scritto. Un’epoca di simile ignoranza non credo sia mai esistita.