DA MARX IN POI, IL NUOVO LIBRO DI LA GRASSA – INTRODUZIONE E VIDEO DI PRESENTAZIONE

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Introduzione di Gianni Petrosillo

Ma sulle soglie della scienza, come sulle soglie dell’Inferno, va posto il monito severo: Qui si convien lasciare ogni sospetto. Ogni viltà convien che qui sia morta. Karl Marx.

1. In questo saggio su Marx, Gianfranco La Grassa tenta di evidenziare (ed interpretare), con ancora più precisione, quelli che sono i capisaldi scientifici che sorreggono l’apparato teorico del pensatore tedesco. Si badi bene, non si tratta di operazione nostalgica onde vivificare previsioni concettuali ormai consegnate, quasi senza scampo, ai non avveramenti della Storia. Semmai, intento di La Grassa è quello di fissare l’importanza di concetti acquisiti, sgombrando contemporaneamente il campo dai detriti di esegesi del marxismo (eretiche o ortodosse) non adeguate, oltre che ormai consumate da eventi e risvolti contrari alle intuizioni del “Fondatore”, al fine di descrivere i nuovi scenari che incalzano le nostre società, in virtù di mutamenti evidenti, intervenuti in oltre 150 anni dalla stesura de Das Kapital. Tuttavia, per ri-generare un pensiero, o servirsene come solida base per un diverso concepimento (nulla nasce dal nulla, tanto meno le idee), è necessario afferrare esattamente quello che si sta lasciando definitivamente alle spalle e quello che, invece, si porterà con sé, per non duplicare fatiche o disperdere energie intorno a tematiche effettivamente sceverate, assimilate o irrimediabilmente decadute. Per intenderci, non ha più molto senso arrovellarsi sulla teoria del valore, soprattutto nei suoi elementi matematici (la trasformazione dei valori nei prezzi di produzione), bisogna piuttosto inferirla nella sua forza descrittiva generale (nelle sue conclusioni) poiché essa, molto meglio di dottrine concorrenti (o sola tra esse), svela la natura e la funzione del plusprodotto (nella forma astratta del plusvalore) e, dunque, anche del profitto, in un determinato tipo di sistema sociale quale quello capitalistico. La teoria del valore lavoro ha, infatti, una funzione di “disvelamento della realtà capitalistica, della sua strutturazione e dinamica, delle lotte che in essa si sono svolte e si svolgono, dei blocchi sociali che si sono affrontati e si affrontano… del perché, degli obiettivi e risultati di questo affrontamento”. La teoria del valore ci interessa, in sostanza, per le sue implicazioni “sociali” (presa del potere o egemonia nella società), interesse che non collima con quello dei capitalisti o dei loro ideologi ai quali basta superficialmente districarsi tra prezzi, costi e ricavi monetari, fenomeni evidenti di un mondo in cui essi si trovano ben posizionati perché appartenenti alle classi dominanti. Ma sono dominanti in quanto storicamente (e socialmente) si è verificata quella che La Grassa definisce una duplice scissione: a) tra proprietà dei mezzi di produzione e forza lavoro che acquisisce la forma di merce in quanto unica “proprietà” di individui liberi ma spossessati, e che debbono pur vivere comprando valori d’uso come merci; b) quella tra prestazione d’uso di tale forza lavoro e gli uomini (nella loro complessa personalità) che la possiedono e debbono venderla quale unico mezzo per vivere… Il fulcro di un simile conflitto (detto “di classe”), comunque uno dei suoi problemi decisivi, è l’appropriazione del plusprodotto che avviene, in forme di società diverse, secondo modalità (sociali) differenti, secondo una dinamica di riproduzione dei decisivi rapporti di ogni data società – quei rapporti definiti dal concetto di modo sociale di produzione – che è specifica della società in questione. Dunque, la teoria del valore assume importanza cruciale laddove fornisce una spiegazione della “struttura e dinamica dei rapporti sociali di produzione capitalistici”. Questo è lo spirito con cui Marx si cimenta nella sua elaborazione, tutt’altro che meramente economicistica ovvero schiacciata sul tentativo ossessivo di arrivare all’esatta misurazione del plusvalore “estorto” alla classe lavoratrice, alla esatta “trasformazione” (dei valori in prezzi di produzione), alla inverificabile caduta tendenziale del saggio di profitto ecc. ecc. Marx riconosce alla sfera economica nel capitalismo una certa supremazia (legata all’efficacia dei sistemi di estrazione del pluslavoro/plusvalore), ma va appuntato che gli interessano in primo luogo i rapporti sociali (il capitale non è cosa ma rapporto sociale) di detta sfera. Le operazioni cervellotiche dei suoi epigoni, alcuni dei quali, anche nostri contemporanei, avrebbero risolto il dilemma dei dilemmi, quello della esatta coincidenza tra valori e prezzi di produzione, avrebbero fatto sobbalzare Marx dal suo scrittoio. Fu lui stesso ad affermare che tale riscontro sarebbe stato impossibile in circostanze reali e non puramente teoriche. Se vogliamo dirla tutta, tra realtà e legisimilità (astratta) c’è uno scarto e l’autore del Capitale lo ribadisce a più riprese, sia quando parla della “trasformazione” ma anche quando affronta le leggi interne della produzione capitalistica mediante l’azione di domanda e offerta. In questo passaggio viene in evidenza la modalità scientifica marxiana allorché precisa: Spiegare le vere leggi interne della produzione capitalistica mediante l’azione e reazione di domanda ed offerta è chiaramente impossibile (a prescindere da un’analisi più profonda, che qui tralasciamo, di queste due forze motrici sociali), perché tali leggi appaiono realizzate nella loro purezza solo allorché domanda ed offerta cessano di operare, cioè coincidono. In realtà, domanda ed offerta non coincidono mai o, se ciò avviene, è solo per caso; dunque, dal punto di vista scientifico, la loro coincidenza va posta = 0, deve ritenersi non accaduta. Eppure, nell’economia politica si suppone che esse coincidano. Perché? Da un lato, per poter studiare i fenomeni nella loro forma normale, corrispondente al loro concetto, dunque fuori dell’apparenza generata dal movimento di domanda ed offerta; dall’altro, per individuare la tendenza effettiva del loro movimento e, in qualche modo, fissarla (sottolineature mie). Le diseguaglianze sono infatti di natura antagonistica e, dato che seguono costantemente l’una all’altra, finiscono per compensarsi appunto in virtù delle loro opposte direzioni, del loro antagonismo. Se perciò domanda e offerta non coincidono in nessun caso singolo dato, le loro diseguaglianze si susseguono — e il risultato della deviazione in un senso è di provocarne un’altra in senso inverso — in modo che, considerando l’insieme di un periodo più o meno lungo, offerta e domanda costantemente si pareggiano, ma solo come media del movimento trascorso e solo come moto costante del loro antagonismo. Così i prezzi di mercato divergenti dai valori di mercato si livellano, ove se ne consideri il numero medio, sui valori di mercato, perché gli scarti in più e in meno da questi ultimi si elidono a vicenda. E, per il capitale, questo numero medio ha un’importanza non puramente teorica ma pratica, in quanto il suo investimento è calcolato in base alle oscillazioni e compensazioni su un arco di tempo più o meno preciso. Dunque, da un lato il rapporto fra domanda ed offerta spiega soltanto le deviazioni dei prezzi di mercato dai valori di mercato, dall’altro spiega la tendenza ad annullare tali deviazioni, cioè gli effetti del rapporto fra domanda ed offerta (Karl Marx, Il Capitale, sez. IV, Cap.X, Utet). Marx è un Galileo della scienza sociale, sostiene La Grassa, perché intuisce che “per esporre le leggi dell’economia politica nella loro purezza, si astrae dalle frizioni, allo stesso modo che, nella meccanica pura, si astrae da frizioni determinate che, in ogni caso singolo della sua applicazione, devono essere superate”, o anche meglio in questo passaggio: Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia teoria. Ma nel caso che il lettore tedesco si stringesse farisaicamente nelle spalle a proposito delle condizioni degli operai inglesi dell’industria e dell’agricoltura o si acquietasse ottimisticamente al pensiero che in Germania ci manca ancora molto che le cose vadano così male, gli debbo gridare: de te fabula narratur! (Karl Marx, Il Capitale, prefazione alla prima edizione, Utet).

2.Leggere Marx attraverso le lenti lagrassiane schiude continenti analitici inusuali, strade non battute da altri commentatori (per dirla con le parole di una poesia di Robert Frost, citata nel libro), troppo superficiali o a volte, persino, in malafede. La Grassa punta a restituire al marxismo il suo vero ruolo scientifico, depurato delle fantasie utopistiche o filosofiche dei suoi presunti allievi auto-accreditatisi tali, adusi a de-razionalizzare (col ricorso ad afflati morali, umanitari ecc. atti a coprire pesanti deficit analitici) i suoi studi per inseguire chimere ideologiche. Il punto di partenza oggettivo da cui si sviluppa l’indagine storico-economica marxiana è il conflitto per il plusprodotto (caratteristica specifica della sola specie umana, gli animali non hanno questa possibilità) poiché esistono da sempre le classi che lo producono e quelle che se ne appropriano per scopi di egemonia sociale. Queste classi, precisa La Grassa (seguendo Marx), sono formate da “maschere di rapporti sociali”, da “persone che incarnano dati rapporti sociali”, ecc. Anche il pensiero di Marx subisce però una torsione ideologica da parte del marxismo: dalla maschera all’uomo. Esistono uomini proprietari (i “padroni”) e uomini lavoratori (gli operai). Così si è consumato lo sconvolgimento del senso dell’analisi scientifica marxiana, pur se questo processo è con quasi sicurezza quello che ha consentito la saldatura tra nascente movimento operaio e “dottrina” marxista. Senza questa torsione ideologica, Marx sarebbe restato nella storia del pensiero economico e sociale, ma non avrebbe dato il proprio nome ad un movimento che ha segnato un buon secolo di storia. Dopo Cristo (ancora in auge), Marx è probabilmente il personaggio che più a lungo ha orientato un imponente movimento di “masse”. Con la nascita del capitalismo e la divaricazione da esso imposta tra possessori e non possessori dei mezzi di produzione la forma di appropriazione del plusprodotto, da parte delle classi superiori, assume connotazioni uniche (il plusvalore), mai apparse in altre epoche umane. Marx parla di una accumulazione originaria in quanto fase in cui avviene l’espropriazione dei piccoli produttori, da cui consegue la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale. Ciò significa che da quel “momento” in poi (in senso storico-logico, perché non è avvenuto tutto in un “momento”) chi non aveva mezzi propri per impiegare la propria energia lavorativa avrebbe dovuto rivolgersi a chi li aveva accumulati, ricevendone in cambio un salario in denaro pari alla quota dei beni necessari alla sua sussistenza (storico-sociale). I passaggi riportati nel Capitale sono estremamente chiari ed è utile riconsiderarli qui a supporto del discorso di La Grassa:

Il rapporto capitalistico presuppone la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. La produzione capitalistica, non appena poggi sui suoi piedi, non solo mantiene questa separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Perciò, il processo che genera il rapporto capitalistico non può essere se non il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà delle sue condizioni di lavoro; processo che da un lato trasforma in capitale i mezzi sociali di vita e produzione, dall’altro trasforma i produttori diretti in operai salariati. La cosiddetta accumulazione originaria non è quindi che il processo storico di scissione fra produttore e mezzi di produzione. Essa appare “originaria” perché è la preistoria del capitale e del modo di produzione che gli corrisponde. La struttura economica della società capitalistica è uscita dal grembo della struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha messo in libertà gli elementi di quella. Il produttore immediato, o diretto, cioè l’operaio, poteva disporre della sua persona solo dopo di aver cessato d’essere legato alla gleba, e servo di un’altra persona o infeudato ad essa.

Per divenire libero venditore di forza lavoro, che porta la sua merce dovunque essa trovi un mercato, doveva inoltre sottrarsi al dominio delle corporazioni di mestiere, delle loro clausole sugli apprendisti e sui garzoni, dei vincoli delle loro prescrizioni sul lavoro. Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati appare da un lato come loro liberazione dalla servitù feudale e dalla coercizione corporativa; e, per i nostri storiografi borghesi, è questo il solo lato che esista. Ma, dall’altro, i neo-emancipati diventano venditori di se stessi solo dopo di essere stati depredati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie offerte alla loro esistenza dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa loro espropriazione è scritta negli annali dell’umanità a caratteri di sangue e di fuoco. I capitalisti industriali, questi nuovi potentati, dovevano da parte loro soppiantare non solo i mastri artigiani delle corporazioni di mestiere, ma anche i signori feudali detentori delle fonti di ricchezza. Da questo lato, la loro ascesa appare come il frutto di una lotta vittoriosa sia contro il potere feudale e i suoi privilegi rivoltanti, sia contro le corporazioni e i limiti ch’esse imponevano al libero sviluppo della produzione e al libero sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. I cavalieri dell’industria, tuttavia, riuscirono a soppiantare i cavalieri della spada solo sfruttando avvenimenti che non erano affatto opera loro. Si fecero strada con mezzi non meno volgari di quelli coi quali il liberto romano si rendeva, in antico, signore del suo patronus. Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato, quanto il capitalista, fu la servitù del lavoratore. Il suo prolungamento consistette in un cambiamento di forma di tale servitù, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico. Per comprenderne il corso, non abbiamo affatto bisogno di risalire molto addietro. Benché i primordi della produzione capitalistica s’incontrino sporadicamente, in alcune città del Mediterraneo, già nei secoli XIV e XV, l’era capitalistica data soltanto dal secolo XVI. Dove essa appare, l’abolizione della servitù della gleba è da tempo un fatto compiuto, e la gloria del Medioevo, l’esistenza di città sovrane, volge, e non da allora, al tramonto. Fanno epoca nella storia dell’accumulazione originaria tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe capitalistica in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono, all’improvviso e con la forza, staccate dai loro mezzi di sussistenza e scagliate sul mercato del lavoro come masse di proletari senza terra o dimora. L’espropriazione del produttore agricolo, del contadino, dal possesso del suolo, costituisce la base dell’intero processo. La sua storia prende sfumature diverse nei diversi paesi e percorre le diverse fasi in ordini di successione diversi e in epoche storiche differenti. Solo in Inghilterra, che quindi prendiamo ad esempio, essa possiede forma classica ( Karl Marx, Il Capitale, sez. VII, Cap. XXIV, Utet). Dunque, puntualizza La Grassa, sono stati dei processi storici specifici e originali (quelli innescati dall’accumulazione originaria del capitale) a “liberare” i produttori a) dai vincoli di dipendenza personale e b) dagli strumenti necessari ad attivare lo sforzo lavorativo. Quando il lavoro (la forza-lavoro) diventa merce si generalizza detta forma a livello sociale complessivo e tutti i “manufatti” del lavoro umano, prodotti privatamente, sono direttamente esitati per la compravendita sul mercato che socializza i frutti di tanti lavori privati. I lavoratori, esattamente come i mezzi produttivi, vengono concentrati in unità autonome – prima manifatture poi macchino-fatture, con conseguente transizione del lavoro da una mera sussunzione formale (in cui emergono i sistemi “estorsivi” diretti del plusvalore assoluto, in quanto il Capitale non si è ancora impadronito dell’intero processo lavorativo), a quella reale (in cui primeggiano i metodi “estorsivi” indiretti del plusvalore relativo, in cui il richiamato processo lavorativo diventa forma sociale dominante ed emanazione completa del modo di produzione capitalistico pienamente sviluppato) – in cui si ha la divaricazione verticale tra i pochi proprietari di tali mezzi produttivi e i molti espropriati degli stessi. Contro la forza-lavoro intruppata nell’organizzazione capitalistica si ergono gli strumenti di lavoro proprietà dei capitalisti ai quali appartengono i beni prodotti. La differenza tra il lavoro (valore) prodotto e il valore di mercato della forza-lavoro (pur espresso in moneta quale prezzo, denominato salario) [dà] il profitto (plusvalore) al capitalista-proprietario. In un secondo tempo – ma proprio perché la produzione avviene in centri formalmente indipendenti, sotto la direzione di gruppi di proprietari (capitalisti) tra loro in competizione per accrescere il loro potere e la loro ricchezza mediante l’introduzione di nuove organizzazioni e di nuove tecnologie nei processi di lavoro, con crescente parcellizzazione degli stessi e sostituzione degli strumenti manifatturieri con sistemi meccanici – si verifica la scissione tra saperi produttivi (e capacità direttive) e forza-lavoro semplicemente manuale e/o esecutiva. La spiegazione del pluslavoro / plusvalore fornita da Marx è superiore a quella degli economisti volgari o classici che si fermano all’epidermide dei fenomeni o, meglio, come dice lo stesso tedesco, alla mera grandezza (misura) economica evitando accuratamente di scandagliarne l’origine. A Marx, in sostanza, interessa la struttura ossea del sistema (la base produttiva in cui si sviluppano i rapporti sociali), prima ancora della pelle (“merceologica”) che la ricopre. Questo modo di fare è comune anche agli economisti del nostro tempo i quali schivano, per istinto, il “pericolo” derivante dall’addentrarsi troppo nelle questioni dirimenti. Non è cambiato molto, in questo senso, dai tempi di Marx e non ci è oscura la ragione che spinge gli “esperti” della materia economica ad essere refrattari all’analisi dei rapporti sociali prediligendo essi quella su “indici e numeri”, essendo la loro “appartenenza di classe” ad indirizzarne le modalità di ragionamento:

Ricardo non si preoccupa mai dell’origine del plusvalore. Lo tratta come cosa inerente al modo di produzione capitalistico, che ai suoi occhi è la forma naturale della produzione sociale. Dove parla della produttività del lavoro, cerca in essa non la causa dell’esistenza del plusvalore, ma solo la causa determinante della sua grandezza. Invece, la sua scuola ha proclamato a gran voce che la forza produttiva del lavoro è la causa originaria del profitto (leggi: del plusvalore). Un progresso, comunque, di fronte ai mercantilisti, che da parte loro deducono dallo scambio, dalla vendita dei prodotti al disopra del loro valore, l’eccedenza del prezzo dei prodotti sui loro costi di produzione. Tuttavia, anche la scuola ricardiana aveva solo aggirato, non risolto, il problema. In realtà, questi economisti borghesi avevano il giusto istinto che fosse molto pericoloso scavare troppo a fondo nella questione scottante dell’origine del plusvalore. Ma che dire quando, mezzo secolo dopo Ricardo, il signor John Stuart afferma con grave prosopopea la sua superiorità sui mercantilisti, ripetendo male gli stupidi sotterfugi dei primi volgarizzatori di Ricardo ? Mill dice: “La causa del profitto è, che il lavoro produce più di quanto richieda per il suo mantenimento…”. Fin qui, nulla di diverso dalla vecchia canzone; solo che Mill vuole aggiungervi del suo: “O, per variare la forma del teorema: la ragione per cui il capitale dà un profitto è che gli alimenti, il vestiario, le materie prime e gli strumenti, durano più del tempo necessario a produrli”. Qui, Mill scambia la durata del tempo di lavoro con la durata dei suoi prodotti. Secondo questo modo di vedere, un fornaio, i cui prodotti durano soltanto un giorno, non potrebbe ricavare dai suoi operai salariati lo stesso profitto di un fabbricante di macchine, i cui prodotti durano vent’anni e più. Certo, se i nidi degli uccelli non resistessero più del tempo indispensabile per la loro costruzione, gli uccelli dovrebbero fare a meno dei nidi! Una volta stabilita questa verità fondamentale, Mill stabilisce la propria superiorità sui mercantilisti, scrivendo: “Vediamo dunque che il profitto sorge non dal fatto dello scambio, ma dalla capacità produttiva del lavoro; e il profitto generale di un paese è sempre ciò a cui la capacità produttiva del lavoro lo fa giungere, indipendentemente dalla circostanza che si verifichino o non si verifichino scambi. Se non vi fosse alcuna divisione del lavoro, non vi sarebbero né acquisto né vendita, ma vi sarebbe tuttavia un profitto”. Qui, dunque, lo scambio, la compravendita, le condizioni generali della produzione capitalistica, sono un puro accidente, un “fatto” bruto, e v’è pur sempre profitto senza compravendita della forza lavoro! …Segue uno splendido campione del modo di trattare le diverse forme storiche della produzione sociale, caratteristico di Mill: “Presuppongo sempre”, egli scrive, “lo stato di cose attuale, che, salvo qualche eccezione, predomina dovunque lavoratori e capitalisti costituiscano classi separate, in cui il capitalista fa tutti gli anticipi, inclusa la remunerazione dell’operaio”. Bontà sua, il signor Mill concede che “non è una necessità assoluta che così sia” — neppure nel sistema economico nel quale i lavoratori e i capitalisti si fronteggiano come classi separate. Al contrario: “Il lavoratore potrebbe anche aspettare il pagamento… dell’intero ammontare del suo salario finché il lavoro non sia completamente eseguito, se disponesse dei mezzi necessari per sostentarsi nell’intervallo. Ma in questo caso egli sarebbe in una certa misura un capitalista, che investirebbe capitale nell’azienda e anticiperebbe una parte dei fondi indispensabili per mantenerla in esercizio” Allo stesso titolo, Mill potrebbe sostenere che l’operaio il quale anticipa a se stesso non solo i mezzi di sussistenza, ma i mezzi di lavoro, in realtà è il suo proprio salariato. O che il contadino americano è il suo proprio schiavo, che esegue una corvée per se stesso invece che per un padrone. Dopo di aver spiegato chiaro e tondo che la produzione capitalistica, quand’anche non esistesse, esisterebbe pur sempre, Mill è ora tanto conseguente da dimostrarci che non esiste neppure quando esiste: “E anche nel primo caso” (in cui il capitalista anticipa al salariato tutti i suoi mezzi di sussistenza), “l’operaio può essere considerato in quella luce” (cioè come capitalista), “in quanto, cedendo il suo lavoro al disotto del prezzo di mercato (!), si può ritenere che anticipi la differenza (?) al padrone…”. Nella realtà effettiva, l’operaio anticipa gratuitamente al capitalista il proprio lavoro durante una settimana ecc., per riceverne alla fine della settimana o così via il prezzo di mercato; questo, secondo Mill, farebbe di lui un capitalista! Nel grigiore uniforme della pianura, anche mucchi di terra sembrano colline; si misuri il grigiore dell’odierna borghesia dal calibro dei suoi “grandi cervelli” (Karl Marx, Il Capitale, sez. V, Cap. XIV, Utet). Quei cervelli sono persino peggiorati nel corso dei decenni! Magari avessimo a che fare con dei Ricardo, invece oggi ci toccano menti così prive di fantasia da far cascare le braccia. Ovviamente, secondo La Grassa, ciò non significa che l’economica “ufficiale”, con le sue varie teorie, non faccia scienza. Ad esempio, la teoria marginalistica basata su scelte e preferenze razionali degli individuali lo è in tutti i sensi. Solo che quest’ultima si ferma ad un livello di “attenzione”, a nostro parere, meno profondo di altre concezioni, tipo il marxismo, che sondano l’origine delle problematiche e non esclusivamente il loro manifestarsi in particolari settori o ambiti umani da estendersi, in seconda battuta, all’intero universo sociale come se quest’ultimo fosse prodotto e non causa dell’agire dei singoli. C’è da aggiungere che, nella presente fase di crisi sistemica, molti economisti o presunti dottori della dismal science, anziché studiare con rigore le trasformazioni in corso, preferiscono indossare l’abito sacerdotale dei giustificatori ad oltranza dell’esistente, per puro arrivismo cattedratico o mediatico. A causa di questa loro attitudine che falsa la realtà risultano ormai incapaci di qualsivoglia previsione e finiscono per brancolare nel buio. È così che il liberismo ha smesso di essere una scuola con una tradizione di nomi altisonanti ed è divenuto una fucina di servitori dello statu quo in decadenza. “L’odierno liberismo è una ideologia abbondantemente falsa atta ad ottundere il pensiero di chi ne è permeato”, commenta, con ragione, La Grassa. 3. Aver chiarito la prospettiva di Marx, su quel rapporto sociale che è il Capitale, è essenziale per abbracciare gli sviluppi successivi, legati alle sue intrinseche contraddizioni, quelle che avrebbero azionato spinte trasformative irrimediabili, nel suo stesso grembo, fino ad una trasfigurazione intermodale verso una diversa società comunistica (in cui avviene la liberazione dei/dai bisogni), raggiunta attraverso la tappa intermedia di un socialismo, in cui ognuno avrebbe ricevuto secondo il proprio lavoro, senza sottrazioni di sorta. Dimostrato che dietro merci e valori c’è “qualcos’altro” è possibile pensare al superamento del capitalismo, non come pia aspirazione utopistica ma come dato fattuale, già esecutivo, rebus sic stantibus. Infatti, scrive Marx, il socialismo concresce nelle viscere del sistema a causa delle sue intime antinomie ed in pochi decenni (non secoli o millenni) avrebbe preso il sopravvento. Questo fa sì, precisa La Grassa, che sia possibile pensare un progetto comune di lavoro: I diversi “lavoratori privati” prendono in considerazione, im-mediata, solo il sistema dei prezzi dei vari beni, prezzi che rappresentano meri rapporti quantitativi di scambio tra merci pur espressi in equivalente generale (nelle sue varie figure monetarie). Ogni “individuo” sa soltanto che produce e vende una cosa (al limite la sua forza-lavoro) al prezzo x e che, con la quantità di moneta ottenuta, può acquistare ai prezzi y, z, w… date quantità di altre merci necessarie alla sua vita e alla riproduzione della sua forza-lavoro e delle condizioni di una nuova produzione. Afferrare che, dietro l’equivalente generale, quindi dietro determinati rapporti di scambio tra le cose prodotte, vi è un contenuto rappresentato da una quota parte del lavoro sociale complessivo, serve a comprendere che sarebbe possibile un progetto comune di lavoro, se ciò non fosse appunto impedito dalla forma di valore (o valore di scambio) in cui si esprime tale contenuto, forma che diventa generale con il modo di produzione capitalistico e induce gli “individui produttivi” ad una sfrenata competizione per prevalere gli uni sugli altri. Questo è il significato della distinzione, nella merce, di un contenuto (il valore come quota del lavoro sociale complessivo) dalla forma espressiva dello stesso, che indica la separatezza e l’autonomia dei “produttori”, costretti a soddisfare i propri bisogni – anche quelli relativi alla riproduzione allargata (accumulazione) delle condizioni (mezzi) di produzione – senza progetti di cooperazione collettiva ma anzi ponendosi in conflitto l’uno contro l’altro.

Detto ciò, è innegabile che l’ipotesi previsionale di Marx si sia scontrata con una fattualità in controtendenza andandosi definitivamente ad esaurire. Il proletariato di fabbrica non è rivoluzionario “in sé”; nemmeno i “trucchi” di Lenin (il quale parlava di Classe per sé, cioè di gruppo sociale che diventa rivoluzionario quando acquisisce una coscienza lasciandosi direzionare dalle sue avanguardie di partito, che però sono di estrazione borghese e non operaia, et pour cause) ne mutano i destini, come preventivati dalla teoria marxiana, i quali derivano dal concetto di modo di produzione capitalistico, nell’intreccio di rapporti di produzione e forze produttive, controvertiti dalle risultanze dell’effettiva dinamica capitalistica pienamente estrinsecata. Marx aveva sceverato storicamente questi elementi: inizialmente erano stati artigiani e contadini ad essere espropriati dei loro mezzi (nella fase accumulativa originaria), quest’ultimi erano divenuti proprietà di capitalisti i quali organizzavano i processi lavorativi ergendosi di fronte ad una massa di lavoratori salariati, senz’altro da offrire se non la propria energia lavorativa. Competizione e concorrenza attivano al contempo l’“autofagia” dei capitalisti tra loro. Si determina così la concentrazione e poi la centralizzazione (monopolistica) dei capitali. I capitalisti si mangiano a vicenda fino a ridursi di numero, mutando la loro funzione e divenendo meri proprietari di azioni (rentier) estranei ai processi produttivi, mentre nelle fabbriche avviene una riunificazione tra lavoratori della mente e del braccio con composizione di una nuova classe sociale (il General Intellect). Nelle stesse parole di Marx: Ogni capitalista ne uccide molti. E, di pari passo con questa centralizzazione, cioè espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la cosciente applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la conversione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili soltanto in comune, l’economia di tutti i mezzi di produzione grazie al loro impiego come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato, l’inserimento e l’intreccio di tutti i popoli nella rete del mercato mondiale, e quindi il carattere internazionale del regime capitalistico. Col numero sempre decrescente dei magnati del capitale, che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degradazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la rivolta della classe operaia ogni giorno più numerosa, e disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale diviene un inciampo al modo di produzione che con esso e sotto di esso è fiorito. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto nel quale diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Esso viene infranto. L’ultima ora della proprietà privata capitalistica suona. Gli espropriatori vengono espropriati. Il modo di appropriazione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, nascenti dal modo di produzione capitalistico, sono la prima negazione della proprietà privata individuale poggiante sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera, con la necessità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione. Questa non ristabilisce la proprietà privata, ma la proprietà individuale sulla base della vera conquista dell’era capitalistica: la cooperazione e il possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dallo stesso lavoro. La trasformazione della proprietà privata frammentata, poggiante sul lavoro personale degli individui, in proprietà capitalistica, è naturalmente un processo infinitamente più lungo, duro e tormentoso della trasformazione della proprietà capitalistica, che già si basa di fatto sulla conduzione sociale della produzione, in proprietà sociale. Là si trattava dell’espropriazione della massa del popolo da parte di pochi usurpatori; qui si tratta dell’espropriazione di pochi espropriatori da parte della massa del popolo (Karl Marx, Il Capitale, sez. VII, Cap. XXIV, Utet).

Il passaggio è importante perché qui Marx esplicita decisamente che la trasformazione della proprietà capitalistica, che già si basa di fatto sulla conduzione sociale della produzione, in proprietà sociale, è un avvenimento che non durerà a lungo. Il socialismo è in transizione nelle viscere del Capitale e la rivoluzione incombente avrebbe soltanto accelerato un evento necessario. Il soggetto della rivoluzione è ugualmente già formato nel processo produttivo senza alcuna utopia di supporto. Ovviamente, le classi proprietarie ancora egemoni culturalmente e politicamente (controllanti gli apparati di Stato, soprattutto quelli della coercizione) avrebbero opposto una strenua resistenza per cui si sarebbe reso necessario scalzarle dalla “macchina che gestisce la violenza” instaurando una dittatura del proletariato per liberare definitivamente la società dai parassiti finanziari. Quest’ultimi, ormai estranei alla produzione e dediti alla pura speculazione risultavano di intralcio al pieno sviluppo delle forze produttive, costrette in un involucro di rapporti socio-economici oramai deprimenti l’intera società. Il popolo avrebbe avuto, a questo punto, ben chiara l’odiosa sottrazione di pluslavoro/plusvalore, ben visibile grazie alla avvenuta riunificazione tra saperi e lavori (direzione ed esecuzione) e all’alleanza dei lavoratori del braccio e della mente, opposti ai “redditieri” estranei all’organizzazione di fabbrica, meri approfittatori del frutto del lavoro altrui attraverso le manovre sui titoli di borsa. Rotto l’involucro e dissolti i vecchi rapporti di proprietà, le forze produttive avrebbero ricominciato a svilupparsi realizzando il comunismo (passando da una breve transizione socialistica già operante nelle interiora del capitalismo), regno dell’abbondanza alla portata di tutti: “da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. La società sarebbe uscita dalla sua preistoria di sopraffazione e di strenua competizione per entrare nella Storia vera e propria, quella in cui l’uomo è finalmente affrancato dai bisogni (non intellettuali ma materiali) perché quest’ultimi sono immediatamente soddisfatti. L’umanità intera può dunque dedicarsi allo sviluppo delle sue qualità più nobili, quelle spirituali e morali, perché non vive più la stringenza del lavoro salariato, unica fonte di sostentamento subalterna ai mezzi di produzione altrui. L’ipotesi scientifico-predittiva di Marx, come si può ben desumere, non si è concretata. In nessun posto. Lo Stato accentratore della proprietà pubblica, che qualcuno definisce ancora comunista (penso alla Cina di oggi o all’Urss di una volta) in nome del proletariato non c’entra con Marx che, tutt’al più, ne vaticina la fine (o la distruzione con “spallata” rivoluzionaria) in quanto esso è per lui soprattutto accentramento dei mezzi per l’esercizio della forza, non della proprietà. “Il potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura – organi prodotti secondo il piano di divisione del lavoro sistematica e gerarchica…”. Per gestire i beni collettivi basta un’amministrazione di altro tipo (poiché non sarebbero più esistite le classi e i loro conflitti, mentre le dispute interindividuali sarebbero certamente proseguite ma su tutt’altro piano), non uno Stato che è egemonia corazzata di coercizione. Un aspetto della teoria di Marx non è stato del tutto invalidato, quello che La Grassa chiama il suo “I disvelamento” (non più sufficiente però a dipanare l’attuale formazione dei funzionari privati del capitale di matrice americana) benché sappiamo benissimo che destino di ogni teoria scientifica, come diceva Weber, sia quello di essere superata. Marx ha spiegato che l’eguaglianza formale dei soggetti, scambiantisi le merci (compreso la forza lavorativa) sul mercato, al loro valore, avviene in assenza di vincoli personali. Questa parità di diritti degli attori economici sul mercato maschera però la disuguaglianza effettiva nel processo produttivo che discende dai differenziali di proprietà e, dunque, di potere tra chi detiene i mezzi produttivi e chi no. Chi non ha i mezzi vende liberamente la sua forza lavoro ma una volta inserito nella produzione produce più di quanto gli viene effettivamente pagato (è il plusvalore). Lo scambio delle merci quali equivalenti (in media) nasconde la fondamentale (sottostante) produzione, e appropriazione capitalistica, del plusvalore che è pluslavoro; ancor più decisiva è però la riproduzione del rapporto durante lo svolgimento del processo produttivo, da cui escono il capitalista, arricchito dal profitto (plusvalore), e l’operaio in quanto semplice possessore della sua forza lavoro pronta per essere rivenduta, dando così inizio ad un nuovo ciclo dello stesso processo. Tutto qui, si fa per dire! Però Marx non coglie nel segno allorché prevede l’avvento della società comunistica come parto ormai maturo (quindi da concretarsi in pochi decenni, non secoli) nelle viscere del capitalismo. Bisogna prendere atto che dalla prospettiva di Marx il comunismo è impossibile, inutile girarci intorno. Esso non si è realizzato e non si realizzerà. Tuttavia, egli non immaginava la società comunistica come un sogno, lo spiega La Grassa nel saggio, lui la vedeva già in fieri nello sviluppo delle contraddizioni capitalistiche. Chi oggi continua a sperare nel comunismo è un illuso o un imbonitore mentre Marx, lo scienziato della “scienza dei modi di produzione”, non può essere ritenuto responsabile delle immaginazioni altrui.

3. Marx aveva sempre sostenuto che il suo laboratorio era stato l’Inghilterra, in quanto sede classica del modo di produzione capitalistico, cioè dei rapporti di produzione e di scambio ad esso corrispondenti. Tuttavia, già a fine ottocento e primi novecento il suo modello teorico, di fronte alla formazione dei grandi monopoli, cominciò a vacillare. Si erano formate grandi imprese (organismi composti da dipartimenti, settori, reparti ecc. ecc.) che non erano semplicemente le fabbriche che egli aveva avuto sotto gli occhi. In questi conglomerati produttivi e finanziari, estremamente articolati, la separazione tra manager e giornalieri è fin troppo evidente, per non parlare di tutta quella serie di ruoli (e funzioni) intermedi che vengono a stratificarsi tra gli uni e gli altri. La presagita sintesi dei saperi produttivi, la riunificazione tra operazioni intellettuali e manuali, resta un miraggio, anzi, al contrario si accelera la costituzione di una managerialità specialistica di elevato ingegno e doti strategiche, sospinta dalla tecnica, dalle innovazioni di prodotto (e non solo di processo), contrapposta di fatto agli operai. Questo mutamento obbliga ad un detour ideologico, il “soggetto rivoluzionario” non è più l’unione di dirigenti e operai, ma le sole tute blu mentre i “responsabili della produzione” sono considerati specialisti borghesi, soggetti inclini ad indentificarsi con le classi superiori che il proletariato deve tenere sotto stretto controllo “con i fucili puntati alla schiena” (Lenin). Con la descritta situazione viene a decadere la possibilità di una effettiva preponderanza sociale degli “sfruttati” sul grosso della società. La teoria leniniana dell’avanguardia, che include quella parte degli “intellettuali borghesi giunti alla comprensione del movimento della società nel suo insieme” (Marx) e la parte più cosciente degli operai, tenta proprio di colmare questo deficit egemonico. Le rivoluzioni guidate da simili avanguardie, in paesi dove erano i capitalisti ad essere più deboli e non i subordinati ad essere più forti, hanno ottenuto certo dei risultati ma non quelli sperati e, in ogni caso, nessuna costruzione del socialismo o del comunismo. Da simili rivolgimenti sono nati anche nuovi rapporti sociali che però, alla lunga, si sono dimostrati meno dinamici di quelli capitalistici, tanto da portare al fallimento delle società che li avevano instaurati (Unione Sovietica). Sinceramente, c’è anche da dire che lo stesso capitalismo, quello inizialmente tracciato da Marx, a partire dall’epoca dell’imperialismo, si è tramutato in qualcosa di diverso. Per questo il marxismo ha cominciato a mancare costantemente il “bersaglio”. La Grassa suggerisce la presenza di questa transizione e la fa coincidere con la supremazia americana, sospinta dalla strutturazione interna di quella formazione, nella quale si profila la genesi dei funzionari (privati) del capitale, diversa da quella inglese, preminente fino alla fine del ’800 inizio ’900. Gli Usa, che si rafforzeranno dopo due guerre mondiali, sconfiggeranno infine anche il “socialismo reale” e rimondializzeranno il pianeta imponendo a tutti il marchio del loro predominio.

4. Il mutamento storico impone ora un rinnovamento teorico perché il vecchio marxismo risulta inadatto ad interpretare la nuova realtà. Il capitalismo borghese, con laboratorio nella sua sede inglese, è metamorfosato in una direzione non prevista dal “Moro”, non è stato soppiantato dal comunismo di cui gli “sfruttati” erano classe intermodale di trapasso. Sulla base di queste considerazioni e dell’evoluzione, politica, sociale, culturale ecc. ecc. degli eventi l’analisi deve essere riorientata. La Grassa lo sostiene francamente: Mi sono quindi posto il compito di individuare la fallacia delle previsioni formulate in base alla teoria cui avevo aderito, attribuendola alla centralità che Marx aveva assegnato a: 1) la produzione (non nelle sue tecniche bensì nei suoi rapporti sociali) quale “base” sostanziale e struttura portante della società; 2) la divisione di quest’ultima in due classi antagoniste, la cui lotta doveva rappresentare la dinamica di quei rapporti e spingerli infine ad una trasformazione secondo un orientamento che sarebbe stato possibile individuare con certezza; classi caratterizzate, in modo preciso e inequivocabile, dalla “proprietà” (potere di disporre) o “non proprietà” dei mezzi impiegati nella produzione…Ho spostato la centralità in questione ponendola nel conflitto tra strategie (che sono l’essenza della POLITICA nel suo significato più generale, che non è quello della sfera di apparati designati con questo nome) applicate da diversi (non semplicemente due) gruppi sociali allo scopo di conseguire la supremazia in quella data formazione sociale e per una determinata epoca storica. Ho illustrato più volte quali conseguenze derivino da questo spostamento di centralità per quanto riguarda l’analisi della società, con particolare riferimento a quella detta capitalistica; e che credo nasconda il succedersi di almeno due formazioni sociali nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, da quando Marx diede la sua definizione di rapporto sociale (di produzione) capitalistico. Ho definito queste due formazioni: capitalismo borghese (tipico del primo paese compiutamente capitalistico, l’Inghilterra) e società dei funzionari, o meglio ancora strateghi, del capitale (affermatasi più compiutamente negli Stati Uniti dopo la loro guerra civile e in particolare nella prima metà del XX secolo).

Dopo una lunga epoca, caratterizzata da pesanti crisi economiche (si indicano in particolare, la Grande Stagnazione del 1873-’96 e il crollo del 1929) e due dispute mondiali (nonché quasi mezzo secolo di confronto bipolare Usa-Urss conclusosi nel 1989-91), gli Stati Uniti, portatori di una formazione sociale differente da quella del capitalismo di matrice inglese, benché avente una struttura sempre fondata su mercato e impresa, hanno raggiunto un primato assoluto in quasi ogni campo.  In questo contesto, di pesanti rivolgimenti geo-politici, la lotta di classe (il conflitto Capitale/Lavoro – proprietari/non proprietari dei mezzi di produzione), i contrasti nella base economico-produttiva, su cui Marx basava parte del suo discorso, sono apparsi assolutamente secondari rispetto al resto. L’economia quale determinazione di ultima istanza per “leggere il capitale” è venuta a mancare. Le lotte tra i gruppi dominanti nella società globale, quelle orizzontali tra decisori di paesi diversi e quelle verticali tra gruppi dominanti all’interno di uno stesso contesto nazionale, hanno dimostrato di essere peculiarmente innervanti la dinamica sociale complessiva. Per tanto, l’autore di questo saggio, ha voluto porre l’accento sullo scontro tra agenti capitalistici, tra Stati e loro tessuti di connessione collettiva che vanno analizzati nell’insieme delle sfere sociali: economica (produttiva e finanziaria), politica (con le sue propaggini militari e d’intelligence), ideologico-culturale. I fatti della sfera economica non sono assolutizzanti, nonostante prendano spesso il davanti della scena, quanto più “volatili” appaiano. Essi sono funzionali ad una battaglia per la prevalenza, da attuarsi attraverso un confronto strategico, vero centro della questione.

Ma puntualizziamo meglio. “Politico” è tutto ciò che attiene alle strategie per primeggiare nei vari contesti umani. Per tale ragione, La Grassa, parla della POLITICA, non come insieme di apparati dell’omonima sfera o di agonismo per scopi elettorali (la sciocca democrazia da paragonarsi ad un sondaggio tra gli aventi diritto per offrire a quest’ultimi l’abbaglio di una partecipazione o lo “smercio” di una allucinazione che finga di rappresentarli nei loro interessi) , ma quale “strategia”, “serie successiva di mosse strategiche”, per affermare la propria visione delle cose e del mondo. Chi pensa meglio la propria situazione e si muove di conseguenza, in un campo di possibilità individuate astrattamente (perché si tratta di una costruzione della realtà tramite delle idee rigorose e non di una riproduzione fedele della materialità nel cammino del pensiero) e stabilizzate ai fini dell’azione, raggiunge una certa prevalenza (sociale, culturale, organizzativa, economica, ecc. ecc.) più o meno duratura ma non permanente, nell’ambito di quella data formazione sociale, logisticamente individuata. La POLITICA, intesa in tal guisa, è una modalità teorico-pratica (strategia e azione), per incidere nel quadro sociale, nelle sue segmentazioni e stratificazioni, nelle sue concrezioni più visibili che per comodità espositiva possono essere ridotte alle tre sfere citate. Questa riflessione ci libera dal “suprematismo” dell’economico, dalla “teologia” del denaro e dei suoi duplicati finanziari ma anche dalla teleologia marxiana secondo cui gli sconvolgimenti nella struttura economica della società (rapporti di produzione+forze produttive=modo di produzione, la presunta base reale, come se gli aspetti da Marx stesso definiti sovrastrutturali fossero irreali o non abbastanza reali) sono quelli fulcrali per aprire una fase di palingenesi nel corpo collettivo. L’approntamento delle strategie per raggiungere un predominio necessita di “energie” per sostenere i conflitti, oltre che della capacità pre-visionale per circoscrivere il migliore “campo” dove sfidarsi. Nella società capitalistica, il terreno economico viene sicuramente in maggiore evidenza per le caratteristiche del sistema il quale, come scriveva Marx, si presenta come un’immane raccolta di merci. La centralità dei mercati, sostenuta dal (neo)liberismo, da cui è oggi scaturita la globalizzazione mercantile, fa parte di questa visione superficiale. Tale approccio, in conseguenza dei suoi postulati, dà grandissima (troppa) importanza al “denaro”, quale equivalente generale, poiché esso “paga” il prezzo di tutto e chi ne dispone a sufficienza può comprare cose e persone da utilizzare nello scontro con gli avversari. La narrazione dominante obnubila, inoltre, il vero conflitto per la supremazia, che avviene tendenzialmente senza esclusione di colpi ma “riparato” sotto le virtù “concorrenziali” e “competitive” che, ispirate dalla mano invisibile, consentirebbero al più abile o meritevole – perché capace di fornire alla società beni e servizi di alta qualità a costi contenuti (il principio della razionalità strumentale, il minimax, minimo mezzo e massimo risultato) – di accedere ai più alti ranghi del benessere e del prestigio. Il neoliberismo crede, pertanto, che tutto debba essere lasciato al mercato, con decisa riduzione dell’intervento dello Stato in economia, in quanto i suoi meccanismi intrinseci sono in grado di auto-correggere gli eventuali squilibri tra domanda e offerta, portando prosperità a tutta la civiltà. Questa è una posizione ingenua per due ordini di ragioni. Presuppone che la razionalità strumentale risolva ogni orizzonte umano (ignorando che i saperi strategici precedono e indirizzano le scelte economiche e non solo quelle), inoltre, occulta il ruolo svolto dai Paesi più avanzati, militarmente e tecnologicamente, nel dettare le leggi che influenzano i rapporti mercantili. La potenza, invece, permette a chi la detiene di fare e interpretare le regole a proprio favore e piacimento. Peraltro, non è affatto vero che il mercato sia il deus ex-machina che vogliono farci credere. In un saggio notevole, l’economista coreano Ha-Joon Chang tratta il tema del rapporto imprese-mercato in questi termini:

Con lo sviluppo del capitalismo, settori sempre più vasti dell’economia sono stati dominati da grandi società. Questo significa che è cresciuta l’area dell’economia capitalista coperta dalla pianificazione. Per fare un esempio concreto, oggi una porzione compresa tra un terzo e la metà del commercio internazionale, a seconda delle stime, è fatta di trasferimenti tra differenti unità all’interno di società transnazionali. Herbert Simon, un pioniere degli studi di organizzazione delle imprese, riassunse sinteticamente questo punto nel 1991 in Organisations and Markets, uno degli ultimi articoli da lui scritti. Se un marziano, senza pregiudizi, venisse sulla terra e osservasse la nostra economia, scherzava, penserebbe forse che i terrestri vivono in un’economia di mercato? No, diceva, concluderebbe quasi certamente che i terrestri vivono in una organizational economy (economia organizzativa), nel senso che il grosso delle attività economiche della terra sono coordinate, all’interno delle aziende (organizzazioni), piuttosto che tramite transazioni di mercato tra aziende diverse. Se le aziende fossero rappresentate dal verde e i mercati dal rosso, diceva Simon, il marziano avrebbe visto “grandi spazi verdi interconnessi da linee rosse”, piuttosto che “una rete di linee rosse che connettono spazi verdi”. E noi pensiamo che la pianificazione sia morta. Simon non includeva la pianificazione statale, ma se l’aggiungiamo le moderne economie capitaliste sono ancora più pianificate di quanto suggerito dalla prospettiva del marziano. Tra la pianificazione all’interno delle imprese e i vari modelli di pianificazione statale, le moderne economie capitaliste risultano essere pianificate in misura molto elevata. Un punto interessante da sottolineare è che i paesi ricchi sono più pianificati dei paesi poveri, data l’ampia presenza di grandi società, e spesso la più diffusa presenza dello stato (anche se in genere meno visibile, dato il suo approccio più sottile). ( Ha-Joon Chang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, Il Saggiatore).

In questa sede non ci interessa tanto l’aspetto della cosiddetta pianificazione capitalistica, che pur è rilevante, ma un altro tema che l’economica dominante tende a ideologizzare con spiegazioni di comodo: il rapporto tra imprese e mercato, “appianato” ricorrendo a sotterfugi quasi spiritistici, come la mano invisibile di smithiana memoria, quale specie di “orologio biologico” del sistema economico che regola tutti i suoi ritmi. Per l’economia mainstream le imprese operano nel mercato ma risultano separate da questo. Sono immerse in esso come corpi avulsi che ne subiscono gli impulsi e i condizionamenti ad ogni livello. Il primo sarebbe pertanto l’ambiente esterno delle seconde, un habitat che con le sue leggi universali e imperiture, prima fra tutte la concorrenza, norma le attività di tali apparati privati. Ma è proprio così? Simon, con il suo esempio delle zone verdi (imprese) interconnesse da linee rosse (mercati) coglie intuitivamente qualcosa in più anche se non giunge al punto. Almeno però respinge l’idea superficiale del mercato come ambiente altro dagli attori collettivi che vi opererebbero “dentro”. Ma esiste realmente un dentro ed un fuori dal mercato? Per l’economica ufficiale, che intende lo spazio mercantile come superficie piana su cui si collocano singolarità imprenditoriali fondamentalmente speculari, ed aventi un potere tendenzialmente equivalente (valendo le leggi quasi perfette della competizione), ovviamente sì. Ma se tale “spazio” viene inteso come una sfera nella quale si snodano trame conflittuali tra più soggetti che operano per conquistare una posizione di predominio (tanto sociale e politico che economico), allora no o non del tutto. Se la seconda ipotesi è verosimile anche l’interconnessione simoniana appare inadeguata a spiegare tutta la “faccenda”. L’economia organizzativa, comunque fondata sulla razionalità strumentale (minimo mezzo – massimo risultato, con opportuni correttivi che tengano conto degli obiettivi di lungo periodo, in ossequio ai quali è lecito e possibile accettare piccole perdite immediate per una maggiore stabilità futura, quindi contravvenendo occasionalmente al modello per un miglioramento organizzativo), non coglie il vero lavoro strategico che le imprese svolgono per affermarsi sulle altre. Le sole strategie economiche risultano insufficienti per spuntarla sui competitori essendo i profitti, in un contesto capitalistico pienamente sviluppato, uno strumento per confliggere e primeggiare e non l’obiettivo “esistenziale dell’impresa” tout court. Un’impresa dominante (parliamo soprattutto dei grandi giganti del mercato) non resta mai tale se non è in grado di innovare continuamente ma pure se non è capace di far fuori gli avversari con manovre extraeconomiche. Anche a questo serve la sua “intelligence” interna. Carpire i segreti del “nemico”, elaborare strategie “di guerra” servendosi di tutti i mezzi a disposizione, inclusi i legami istituzionali, e, perché no, quelli “delinquenziali” ecc. ecc. La Grassa, invece, illustra magistralmente questi concetti. Egli dice che nell’impresa operano due diversi tipi di razionalità. I marxisti, ma anche gli economisti “sistemici”, hanno sempre pensato che ruolo precipuo dell’impresa (nella sua riduzione a fabbrica) fosse quello di garantire la migliore combinazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) al fine di produrre, con le risorse a disposizione, il massimo possibile. Questa razionalità del minimax agisce, senza ombra di dubbio, dal lato tecnico-produttivo, essendo la stella polare che orienta l’azione dello “strato” che si occupa degli esiti della produzione e nella quale sono implicati (in maniera subordinata) anche i lavoratori (più e meno qualificati). Già questo mette in evidenza che il gruppo dei tecnici e degli ingegneri, deputati agli indirizzi produttivi, è direttamente collegato al comando del management strategico, dal quale riceve precisi input che devono essere convertiti lungo gli anelli della catena dell’impresa (riorganizzazioni processuali con impiego di tecnologie sempre più avanzate, ma anche per la realizzazione di nuovi output) con lo scopo di aumentare la produttività del lavoro.

I lavoratori subordinati, meri esecutori degli ordini provenienti dal settore tecnico-ingegneristico, non hanno alcuna possibilità di intervenire su questi processi poiché sono inseriti in attività lavorative fortemente parcellizzate o direttamente guidate dalla combinazione “macchinica”. La conoscenza globale del processo produttivo (i c.d. saperi produttivi), dal lato tecnico, è prerogativa degli specialisti della produzione, almeno per quel che concerne intere sezioni o dipartimenti nei quali l’impresa è scorporata; questo sapere non è uniforme e si ripartisce, a sua volta, tra i vari specialisti che dirigono tecnicamente i diversi settori aziendali. Anzi, contrariamente a quanto affermava il marxismo economicistico, il sapere all’interno della produzione non tende ad omogeneizzarsi e a diffondersi capillarmente lungo la collana dei profili lavorativi, “lo specialismo” tende, invece, a moltiplicarsi con una progressione geometrica. La razionalità strategica, al contrario, attiene esclusivamente ai gruppi di comando che guidano le imprese (proprietà o disposizione sui mezzi produttivi), i quali gestiscono il coordinamento tra le varie parti (dipartimenti) ed orientano le risorse esitate dal lavoro sottostante nella lotta per la preminenza nell’ambiente “esterno”. Questo ambiente esterno non coincide semplicemente col mercato ma è qualcosa di molto più complesso che comprende anche la politica e le influenze ideologiche. Il mercato stesso non è il luogo che comincia dove finisce l’impresa o, più scarnamente, quello dove le imprese si scontrano per vendere i loro prodotti (senz’altro anche questo). Il mercato è direttamente nell’impresa così come l’impresa è immersa nel mercato:

[…] nelle relazioni tra le sue varie parti (sezioni, dipartimenti, divisioni) che sono di tipo sia più propriamente gerarchico sia caratterizzate da determinate forme di decentramento e flessibilizzazione dell’organizzazione intera; per cui quest’ultima si basa su ordini imperativi, sul coordinamento imposto dall’alto verso il basso, ma anche su rapporti interimprenditoriali.

Come si può ben capire, La Grassa sposta completamente il fulcro dell’analisi dalla fabbrica – intesa come organismo unitario che si limita a trasformare dati input in dati output, secondo la combinazione dei fattori produttivi e i metodi del plusvalore (in primis “relativo”) – all’impresa, che è invece “un aggregato, internamente coordinato dal gruppo di comando, di entità produttive, disposte generalmente su linee collaterali, ma che nel loro complesso configurano una piramide gerarchica di funzioni e ruoli sociali.” (La Grassa, Microcosmo del dominio, CRT). Dunque,

non è né l’ottimale combinazione dei fattori produttivi, secondo i dettami dell’economica neoclassica, né il massimo profitto da ottenere con i metodi del plusvalore soprattutto relativo… così come sostenuto dal marxismo tradizionale. A parità di ogni altra condizione, si persegue l’efficienza economica, cioè il principio della massima economizzazione dei mezzi, ma solo se questa è in accordo con l’efficacia dell’attività svolta per prevalere nell’ambiente mercantile, uno spazio i cui confini e la cui trama interrelazionale interna sono tracciati dalle azioni conflittuali delle varie imprese in reciproca lotta. L’efficienza tende a conseguire il massimo profitto (plusvalore) che rappresenta il fondo cui attingere per svolgere con efficacia la competizione interimprenditoriale. Essendo però il successo in quest’ultima il fine principale perseguito da ognuno dei molti capitali in conflitto per la preminenza, l’efficacia è prioritaria rispetto all’efficienza…  l’efficacia nella lotta, e dunque la prevalenza conseguita tramite questa, è il fine supremo di ogni funzione capitalistica; l’efficienza nell’organizzazione interna ad ogni impresa – e dunque il perseguimento di quello scopo secondario che è il massimo profitto da conseguire con il miglior uso di dati mezzi (economica neoclassica), o con l’estrazione del massimo plusvalore da una data forza lavoro (marxismo) – è un semplice mezzo in relazione allo scopo principale, di carattere strategico e decisivo. Accade spesso che l’efficienza… entri in contraddizione con il fine principale, quello della migliore strategia per… conseguire la supremazia. In questo caso, si può ben sacrificare l’efficienza, si possono “sprecare” risorse, non seguendo perciò il principio (neoclassico) dell’economicità né quello (marxista) dell’estrazione del massimo pluslavoro/plusvalore (G. La Grassa, Gli Strateghi del Capitale, Manifestolibri).

Questo è, onestamente, un passo avanti nel tentativo di comprendere le categorie essenziali dei capitalismi odierni che gli economisti di “regime” trasformano in idòla, utili alle loro carriere ma inutili al resto dell’umanità.

5. Il discernimento della situazione nel “campo di stabilità” è una questione complessa che non si rende intelligibile ricorrendo alle “specifiche” della razionalità strumentale; occorre invece la capacità di orientarsi nel mondo dell’agente strategico. Per raggiungere la preminenza, in ciascuna delle sfere sociali in cui si è suddivisa la realtà, ci vuole “scienza, conoscenza e arte”, in quanto non è sol(tanto) questione di calcoli, di analisi costi-benefici, anzi, lo stratega può lungamente derubricare l’utilità immediata per raggiungere obiettivi più alti, appunto strategici, in momenti successivi. La razionalità strumentale procura sicuramente le risorse con le quali è poi possibile scontrarsi coi nemici per primeggiare. Ma non è il nocciolo della questione, l’elemento vitale che avrebbe acceso la divaricazione “bipolare” (lavoratore collettivo cooperativo, inglobante il gran numero delle funzioni e degli individui vs speculatori sparuti ma controllanti la “bestia statale”), tra classi nemiche a prescindere dai contesti nazionali o culturali, contrariamente a quello che pensava Marx, il quale è comunque lungimirante da scorgere: Il costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti (Karl Marx, Teorie sul plusvalore, vol. II). Lo svolgimento preventivato da Marx non si è concretato, la società odierna non ha visto affatto scomparire i suoi corpi intermedi perché assorbiti dalla classe “sottostante” (a sua volta non unificatasi e allargatasi agli alti ranghi ingegneristici ma ridottasi persino di numero nelle sue schiere operaie), il “diaframma” delle classi medie si è mostrato molto flessibile, consustanziale all’esistenza dei capitalismi e non destinato a dissolversi, offerente agli strati superiori, e non a quelli salariati di infimo status, le sue teste preparate. Il concetto stesso di “medietà” di tali corpi è divenuto ripostiglio di incomprensioni e di scarsa propensione allo studio dei cambiamenti sociali. Il conflitto strategico cerca di afferrare tutti questi aspetti (novità) e prova a superare l’impasse in cui è precipitato il marxismo. La razionalità strategica, il conflitto strategico (precipuamente quello nei gangli del comando) schiude finalmente la Storia a inconsuete e originali esegesi, sempre meglio della solita “solfa” sulla lotta di classe che non rende più perspicua la nostra contemporaneità e garantisce rifugio a molte canaglie, sedicenti rivoluzionarie ma passate al nemico senza autocritica. Il sol dell’avvenire non viene ed è meglio farsene una ragione piuttosto che insistere utopisticamente con teorie fintamente emancipative e degradate a religioni, professate da approfittatori della credulità popolare. La Grassa, comunque, ammette che in Marx, esisteva un elemento oggettivo convincente (la proprietà, il potere di disposizione, o non proprietà dei mezzi di produzione) che stabiliva in anticipo (e non come discettava Althusser durante il reciproco confronto) gli schieramenti sociali e le modalità di trapasso da una formazione sociale all’altra (schiavismo, feudalesimo, capitalismo). La Storia (era) esattamente storia di lotte di classe. Ma i processi storici di transizione, che vengono colti ex-post, non sono una necessità oggettiva della Storia medesima. Sono accaduti e vengono riscontrati ma è improbo definirne lapalissianamente la “ragione” causante. Forse la nostra ragione è più adatta a scorgere l’intersoggettività sociale, anche quella dei conflitti, per quanto debba sforzarsi di porre un “principio originario” (che non è semplicisticamente un mito fondativo), come ha fatto Marx elaborando la nozione dell’accumulazione originaria. Il conflitto strategico può essere allora coerentemente posto al centro dell’evoluzione storica delle formazioni sociali. Il conflitto dà “tono” all’agire e crea le masse d’urto per le “battaglie” dalle quali, infine, escono vincenti e perdenti, con conseguente riparametrazione dei rapporti di forza i quali, tuttavia, non si danno una volta per tutte col medesimo “settaggio”. La Storia non muore mai, non si placa, perché lo squilibrio incessante del “reale” è il suo motore. Tale squilibrio, dettato dal fluire caotico del reale, può ben essere, mutatis mutandis, la nostra “accumulazione originaria”. Il flusso è pensato, o meglio, immaginato (con la creatività delle forme artistiche) ma non può essere attraversato. Immersi in esso ci sentiremmo alla deriva, come nel cosmo sconfinato. Per agire nello scorrimento del tempo e dello spazio (sociali) i gruppi devono creare campi di stabilità in cui muoversi (razionalmente) con l’intento di conseguire scopi. Meta delle mete è la supremazia sugli altri contendenti che nasce dalla convinzione di avere convinzioni più adatte al progresso particolare e generale. Le élites o avanguardie sorgono su questi presupposti. I drappelli decisori (i quali devono, in ogni caso, associare alla propria progettualità blocchi consistenti di popolazione per avere “massa” d’impatto), che egemonizzano un dato campo di stabilità, avvertono il pericolo di potenziali rivali pronti a scalzarli, sentendosi anche questi portatori di sorti ancor più magnifiche e progressive di quelle istituite. Si alimentano così “movimenti vari di conflitto e di alleanza (ma ai fini del conflitto poiché, come si dice, l’‘unione fa la forza’) tra gruppi vari”. Il flusso squilibrante del reale sospinge i gruppi ad affrontarsi, i conflitti diventano inevitabili a lungo andare, imponendo il traguardo della supremazia ai vari livelli: economico, politico, ideologico-culturale. La POLITICA nel senso di serie di “mosse strategiche” è, pertanto, il perno di questo “gioco” senza fine (della Storia).

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La sinistra e i comunisti…di O. Schena

                                                                                       

La sinistra e i comunisti tra buon senso e senso comune,

tra Manzoni e Gramsci

«(…) Sinistra è una parola che non amo, si è usurata» (…) «Comunista.Saremo vintage, ma qui all’ex-Opg ci definiamo così (…)».

Questa è una risposta di Viola Carofalo, portavoce di PAP, in un’intervista all’Espresso del 22/8/18. Ma sarà questa la risposta del«buon senso» o del «senso comune»?

Sergio Cararo, sul giornale comunista online Contropiano del 28/10/18, osserva che Viola Carofalo, «con quel suo dirsi “comunista e non di sinistra, ha (fatto) saltare molti sulla sedia (…)».

S. Cararo potrebbe aver visto giusto, anche se non è stato lì a spiegare, al colto e all’inclita, neppure uno dei possibili perché di quei “salti”, quasi si trattasse di salti evidenti per se medesimi, cioè uno di quei “dati empirici con il carattere di intuitiva evidenza lockiana. S. Cararo ha rivelato se, per caso, sulla sedia non sia saltato anch’egli. Quei saltipotrebbero anche dipendere dal fatto che l’affermazione: «comunista, enon di sinistra» verrebbe a palesarsi, almeno secondo il «senso comune»,come una grossa, grassa bestemmia, una gigantesca contraddizione in termini, perché il male, si sa, è sempre dall’altra parte.

Quali che siano le cause di quei “salti”, quali che siano le ragioni, palesi o misteriose, giuste o sbagliate, che potrebbero avere spinto Viola Carofaloa quell’affermazione, la portavoce di PAP, di sicuro ha avuto coraggio. Per andare contro il «senso comune», infatti, pare ci voglia coraggio, perché il«senso comune» fa paura, parola di Alessandro Manzoni, e  … e pure del P.d.R. Mattarella.

Antonio Gramsci nei Quaderni dedica numerose pagine al sintagma «buon senso», a volte per contrapporlo al sintagma «senso comune», che consiste nel credere che quel che esiste oggi sia sempre esistito, credenza che ha per Gramsci una connotazione prevalentemente negativa, e, in ogni caso, provvisoria.

Ma chi non ha fatto “salti” alle parole di Viola Carofalo sarà comunista o no?

 

Nel Quaderno 8 (XXVIII) § (19) Gramsci annota:

Senso comune. Il Manzoni fa distinzione tra senso comune e buon senso (Cfr. Promessi Sposi, Cap. XXXII sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c’era pur qualcuno che non credeva agli untori ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa, aggiunge: «Si vede che c’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».

Il «buon senso» conteso

Arriva il 19 luglio 2018 e il Presidente Mattarella, durante la cerimonia del Ventaglio al Quirinale, impugna un fatto di cronaca per farsiminaccioso aruspice d’una barbarie ormai dietro l’angolo. E per lanciare,illuminato dal buon senso manzoniano, un severo monito agli italiani (vistianche i risultati del 4/3/2018):

 

«L’Italia non può somigliare a un Far West dove un tale compra un fucile e spara dal balcone (…).Questa è barbarie e deve suscitare indignazione. L’Italia non diventerà, non può diventare preda di quel che con grande efficacia descrive Manzoni nei Promessi sposi a proposito degli untori della peste: ‘il buonsenso c’era ma stava nascosto per paura del senso comune’». (ANSA 26/7/18)

Non è dato sapere se sia stato il fascino del «buon senso», o il timore del«senso comune», a spingere il Presidente Mattarella tra le pagine dei Promessi Sposi. I tre “non messi in fila in poche righe hanno il compito di rifiutare-contestare l’esistenza nella realtà dell’incombente «barbarie», e dicono molto di più d’un semplice scongiuro.

In ogni caso, per vincere l’ansia della tenaglia manzoniana, si può fare una visita a Gramsci:

Il tipo generale si può dire appartenga alla sfera del «senso comune» o «buon senso», perché il suo fine è di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, sbeffeggiando, correggendo, svecchiando, e, in definitiva introducendo «nuovi luoghi comuni» (…)

Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» e il suo «buon senso», che sono in fondo la concezione della vita dell’uomo più diffusa. (…)

Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche entrate nel costume. [QUADERNO 24 (XXVII) § (4). (p.2270-71)]

Insomma, i luoghi comuni / il «senso comune», il «buon senso», vanno vengono /ogni tanto si fermano, / sono comeLe nuvole di De Andrè. Non bisogna, però, lasciarsi vincere dall’angoscia, il lavoro del disvelamento dev’essere costante, anche perché tutto si trasforma in continuazione, linguaggio compreso.

L’eco manzoniana nelle vibranti parole del Presidente Mattarella appare un esorcismo simile a quei gargarismi rituali sulla “libertà”, offerti in saldo dalle massime autorità dello Stato, nelle ricorrenze ufficiali, ad un popolo ignaro o smemorato. O potrebbe significare semplicemente: giù le mani dal Manzoni”. Ma qui è forse il caso di fare un processo alle intenzioni? Chi può dire che il riferimento della pubblicità leghista sia al Manzoni, e non invece a Gramsci?

Non si può neppure escludere che il monito presidenziale, con l’invocazione del manzoniano «buon senso», voglia rappresentare la dura risposta all’on. Matteo Salvini per quell’invito agli italiani a votarlo il 4/3/18 – per la Rivoluzione del «buon senso». Sempre Manzoni dunque (o Gramsci?), e ancora il «buon senso», in questo nostro Paese un tempo di “eroi, di santi di poeti, di navigatori”, e ora anche di aspiranti manzoniani in aspra, ma democratica (?) contesa per il «buon senso».

È opinione di molti, e forse fondata, che sia stato proprio il predicatore leghista del «buon senso», peraltro in buona compagnia, a realizzare, con il suo manifesto elettorale 2018, grazie a parole e concetti opportunamente destoricizzati, destrutturati e smemorizzati, la perdita di senso delle notazioni manzoniane sul «buon senso».

La missione della classe politica, intanto, riesce ancora una volta. Ma questo significa forse che il popolo, un giorno dopo l’altro, ha  imparato a vivere nell’insensatezza dove gli sembra di trovarsi a proprio agio, mentre il manzoniano «buon senso» continuerà a restarsene nascosto incurante del monito mattarelliano?

Di certo non dev’essere semplice fare il Presidente d.R. d’un Paese in cui il 1 maggio 1947 la strage di Portella della Ginestra (ovvero della prima Strage di Stato) inaugura la modernizzazione coloniale offerta dai liberatori-vincitori. Ovvero da quegli autentici barbari a stelle e strisce, sempre in giro per il mondo con la “pazza idea missionaria, nell’era postatomica, di esportare le loro miracolose pozioni di democrazia al veleno, umanitario s’intende, nelle  varianti al napalm, all’uranio, all’Orange, al fosforo bianco, eccetera.

Un compito difficile, oggettivamente servile e, dunque, pocoentusiasmante, meno che mai per un Presidente della Repubblica, il qualesi ritrova sotto i piedi un territorio nato e cresciuto in stato di palmareservitù politico-economica, per di più seminato da mezzi e truppe colonizzatrici e da ordigni nucleari, senza neppure la simulazione d’una sia pur pallida procedura parlamentare.

Ed è così che dal sacrificio delle libertà e delle dignità nazionali, sacrificio dopo sacrificio, si è potuto giungere a spacciare per scelta di «buon senso» persino il sacrificio di Aldo Moro, e a trasmutare, senza troppa fatica, un fagotto rattrappito e impiastricciato di sangue in un rassicurante,folgorante sintagma di «buon senso» e insieme di «senso comune», che recita così: «… la repubblica è salva!».

Ai fini di questa trasmutazione risultano fondamentali i suggerimenti, ai confini tra la sciatteria e il cinismo, che, sul caso Moro giungono daivertici politici e istituzionali del Paese: «Non è lui», «inautenticità sostanziale», e poi ancora «Moro per noi è morto» (E. Berlinguer al generale A.F. Cornacchia).

Intanto i media, giorno dopo giorno, divorano la vittima e consumano pure i terroristi. Il cibo buono per i media si sa, anzi il migliore, è il pastocruento.              

I terroristi avranno mai avuto il tempo di leggere un po’ di Marx, un po’ di Gramsci?

 

Caro Francesco (Cossiga)

(…) Soprattutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. i più affettuosi saluti (firmato) Aldo Moro

Nico Perrone “De Gasperi e l’America” – Sellerio 1995 – (p. 247-48):

(…) Questo dovette fargli mantenere un interesse vitale del paese, resistendo all’offensiva che veniva dagli Stati Uniti. Il problema petrolifero allora poteva apparire di non grande sviluppo, dunque egli si sentì incoraggiato nella sua politica di difesa. In prospettiva esso si rivelerà di primo piano per l’ascesa dell’Italia a potenza economica, e quella difesa attuata da De Gasperi varrà a bilanciare, in parte, una politica che si era sviluppata «sotto un dominio pieno e incontrollato» 79 dell’America.

Nota 79: Questa espressione tremenda matura tre decenni dopo, in un contesto non scevro, forse, di manovre straniere: Moro, [Al ministro dell’interno F. Cossiga (lettera databile tra il 17 e 29.III.1978, durante la prigionia delle BR]

 

Arriva San Silvestro 2018

E qui, forse dimentico del suo stesso monito manzoniano, vuoi per sfiducia nel «buon senso», vuoi per andare incontro, con sagacia, al «senso comune», il Presidente Mattarella infila 7 volte nel suo breve discorso diSan Silvestro la parola «sicurezza». Si vede che il «decreto sicurezza» haproprio lasciato il segno. Un segno tale da guadagnarsi addirittura l’intestazione del discorso presidenziale, un segno nascosto, un po’ come il«buon senso», ma qui da una negazione linguistica:

«Non dobbiamo aver timore dei buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società» (www.quirinale.it)

Chissà, però, se basta una firma presidenziale per coprire l’inconfondibile tanfo securitario del «decreto sicurezza» (peraltro in linea con i precedenti storico-politici), e per rendere migliore questa nostra società, che, invece, potrebbe anche soccombere al timore dei buoni sentimenti, come sembra temere lo stesso Presidente di tutti gli italiani nella sua accorata esortazione.

Pare che in giro vi siano fin troppi untori, e troppe pecorelle. E gli “sfoghi segreti della verità si saranno di sicuro intasati e, comunque potrebberoben poco, almeno oggi, contro l’opinione volgare diffusa.

Al Presidente d. R. e al Ministro degli Interni, supposti fedeli discepoli del cattolicissimo e moderatamente conservatore A. Manzoni, l’arduo compito di riuscire a coniugare, tra un Ave Maria e un requiem (“prima gli italiani, però,  ça va sans dire), il «buon senso» con una politicasecuritaria, sulla scia del loro illustre mentore.

In merito ecco due pillole di storia di Sebastiano Timpanaro su fatti di appena 3 secoli addietro, ma pur sempre attuali:

 

In fatto poi di carestie (con conseguente aumento di prezzi dei generi alimentari di prima necessità) e di disoccupazione,  l’“economia classica” aveva come tutti sappiamo, idee chiare: si tratta degli effetti di dolorose ma ineluttabili leggi economiche, e ribellarvisi è non solo condannabile perché sconvolge la gerarchia sociale, ma, prima ancora, stupido, perché sarebbe come ribellarsi a un terremoto o ad un’eruzione vulcanica.  

Il Manzoni, nei famosi capitoli dei Promessi Sposi sulla carestia e sui tumulti popolari, aveva dato a questi principi economico sociali quella più ampia diffusione e forza di persuasione che veniva loro dall’essere inseriti in una grande opera narrativa e fatti oggetto non solo di enunciazione dottrinaria, ma di rappresentazione artistica: aveva definito il rincaro «doloroso» ma «salutevole», aveva ironizzato sull’inefficacia dei calmieri (con ragione, ma con una perentorietà che ne escludeva anche qualsiasi utilizzazione transitoria) e non aveva nemmeno preso in considerazione l’ipotesi del razionamento;aveva, in quei capitoli, dimenticato quasi il suo cristianesimo, per far sua una dura etica borghese, «scientifica», «laica», ma in senso antipopolare.

(daNuovi studi sul nostro Ottocento” – Nistri-Lischi 1995 – p. 79-80)

 

Com’è noto, alle parole d’un Presidente d.R. è garantita la più ampia diffusione mediatica. Forse non saranno una grande opera narrativa, né una rappresentazione artistica, ma la loro forza di persuasione èaccresciuta dall’essere un solenne pronunciamento rituale. Il Presidente d.R. sostiene che l’appuntamento del discorso: «non è un rito formale», formula sin troppo simile al famoso: «non è mia madre» di Freud. All’ampia diffusione del discorso si aggiungono il crisma e il carismapropri della più alta carica dello Stato e “le jeu est terminé.

Il P.d.R. proclama di voler «andare incontro ai problemi con parole di verità» e fa scivolare, in una contiguità da brividi, l’ammissione del «la mancanza di lavoro che si mantiene a livelli intollerabili», insieme alla verità del «l’alto debito pubblico che penalizza lo stato e i cittadini e pone una pesante ipoteca sul futuro dei giovani».

Il Debito Pubblico è un totem. Metterlo in dubbio è un grave peccato. Negarlo è un gravissimo delitto: è «tabù». Esso difende, con una cortinafumogena, re, regine, presidenti, ministri insieme al codazzo di quasi tutti i sacerdoti e dei tanti chierichetti del culto dell’economia.

I totem, ai quali si giura fedeltà per tutta la vita, sono purtroppo tanti.

A tutela delle gerarchie sociali e contro le dissacrazioni totemiche chepossono minarle, anche il pessimismo manzoniano costruisce la sua digaanti estremismo, che s’incurva fin quasi a spezzarsi, come nell’elenco delle cose che Renzo, nota «testa calda», dichiara d’aver imparato dalle sue traversie: «ho imparato a non mettermi nei tumulti», «a non predicare in piazza», «a guardare con chi parlo». Più che una filosofia del «buon senso» queste, però, sembrano tre pillole della filosofia di don Abbondio, che, se alfine risulterà vittoriosa, lo sarà grazie al provvidenziale (!) flagello della peste, per ammissione dello stesso Don Abbondio.  

Ora, mischiare le verità, come fa il P.d.R. Mattarella, quelle secondo l’etimo greco di aleteia, con verità parziali e con verità indimostrabili(cioè di fede nei totem e nelle parole di economisti, più o meno titolati, pochi o tanti), può rivelarsi un’operazione rischiosa, non fosse perché chiascolta può finire col perdere il senso della verità… che, perché no, potrebbe anche essere quello della parabola dei pani e dei pesci raccontata nei Vangeli. Ovvero: se si distribuiscono con giustizia i beni disponibili ce n’è per tutti e nessuno resta senza. Questa sarebbe la “verità”, o almeno, la verità secondo il “miracolo” del Nazareno, che di certo sarebbe condivisa dal Manzoni e dal P.d.R., se non fosse per lo sconvolgimentoche essa provocherebbe nelle gerarchie sociali, la qualcosa non sarebbesemplicemente tumultuosa, ma assai biasimevole e prima ancora stupida,perché sarebbe come ribellarsi a un terremoto.

Ma poi, se davvero la mancanza di lavoro fosse oggi a livelli intollerabili, il Massimo Garante della Costituzione dovrebbe aver già dato fiato alle trombe e chiamato i cittadini alla ribellione, o starebbe per farlo. Perché il lavoro è il primo fondamento della Repubblica, e se questo fondamento crolla, addio Repubblica! Ma qui, in assenza di squilli urbi et orbi e di antifrasi nell’art. 1Cost., si preferisce supporre che il Presidented.R. si sia clamorosamente sbagliato, o abbia scherzosamente esagerato, può capitare anche a un Presidente d. R.. Oppure la capacità di resistenza del popolo italiano è invece in grado di tollerare l’intollerabile e il Presidente lo sa, ma non lo dice.

Resta da brividi, invece, il silenzio nel discorso presidenziale sui dati statistici degli infortuni sul lavoro (Nel 2018 sono stati denunciati 641.241infortuni di cui 1.133 mortali, 104 in più dell’anno precedente, più 10,1%).

Si dirà che le statistiche vanno e vengono, che sono come le nuvole … intanto i morti restano e crescono uno sull’altro, anno dopo anno, esarebbe inutile ribellarsi, e prima ancora stupido, perché quei morti sono come quelli d’una eruzione vulcanica, sono una svergognata fatalità.

Sono fuori dal computo, come sempre, tutti quanti i morti per reati ambientali, che sono proprio tanti, come sono tanti i marinai morti d’amianto sulle navi e i sommergibili della nostra Marina militare. È sicuramente vero che è un peccato sciupare l’euforia di S. Silvestro solo perché alcuni pezzi della nostra classe imprenditoriale risultano non soloesperti in paradisi fiscali e nell’uso-abuso delle banche, ma pure nell’ammazzare almeno tre lavoratori ogni 24 ore, mentre dimostrano di sapere ben poco di strategie d’impresa rispettose delle leggi (ahinoi, c’è la crisi!), mentre tutti se ne sbattono degli artt. 41 e 43 Cost., già disusati, ma ancora fior di conio.

Ricordo che qualcuno ha scritto da qualche parte che è: «compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua». Se quel qualcuno, stavolta, avesse indovinato, mi sa tanto che dovremmo rassegnarci … o sperare nella Provvidenza, e che stavolta, almeno stia ben attenta a non portarci la peste! Così pure tutti (o quasi) dovremmo ricordare che A. Einstein, il più grande scienziato del XX secolo, ha accumulato una quantità enorme di errori, di predizioni sbagliate, di cambiamenti d’opinione … vorrà pur dire qualcosa o no?

 

Le reazioni del «senso comune»

Adesso, però, è tempo di ritornare da Viola Carofalo, per provare a capire, se possibile, il perché la parola “Sinistra si sia usurata e perché all’ex-Opg, incuranti del “rischio vintage”, abbiano preferito definirsi “comunisti.

Sempre Gramsci affronta la questione del deterioramento d’un termine:

(…) Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta di una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il «senso comune» è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere. [Quaderno 8 (XXVIII) §(28)p.958]

Chi decide di rivisitare le vicende del 1914, del voto SPD a favore dei crediti di guerra (il più grande crimine della socialdemocrazia, che regalerà così al mondo la madre di tutte le guerre), potrà scoprire i corpi franchi (poi Sturmabteilung) assoldati, dal ministro dell’Interno socialdemocratico Gustav Noske, per attaccare gli spartachisti, assassinare Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e centinaia di altri rivoluzionari. Ed allora la degenerazione, la marcescenza della socialdemocrazia europea, il suo tradimento, potrebbero spiegare ben più d’una semplice «usura» della parola “sinistra”.

In quei giorni del 1914, infatti, va in frantumi una pagina fondamentale della storia ottocentesca, la pagina della fratellanza operaia internazionale in nome del socialismo. Con la conseguenza che l’Internazionale socialista si sfascia e i lavoratori socialisti, di ciascun paese, vengono resi nemici dei lavoratori degli altri paesi, secondo le linee di frattura del conflitto politico-militare voluto dalle classi borghesi. Da allora la Sinistra resta vittima della coazione a ripetere il tradimento, ovvero, come scrive G. La Grassa, «la Sinistra è quella cosa che ha sempre tradito» (C&S), o, per dirla alla Gramsci, la sinistra ha finito con l’assorbire in toto la forza degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere.

Senza dimenticare che fino al tradimento dell’Internazionale Socialista del ’14, anche rivoluzionari come Lenin e Rosa Luxemburg si autodefiniscono socialdemocratici.

Per la “Sinistra, dunque, anziché di usura,  sarebbe più sensato parlare di tradimento, un tradimento antico e tuttora in corso, sui temi della guerra e dei diritti sociali. Un tradimento non già per un passaggio da posizionirivoluzionarie a riformiste, ma per scelte repressive (es. la legge Reale) e di aperto, impudente appoggio al capitalismo e alle sue leggi. Come esempio del livello di subordinazione, innanzitutto culturale, ai potenti, al modo di produzione capitalistico e ai suoi dogmi, raggiunto dalla Sinistrain Italia, si consiglia la lettura dell’intervista a Luciano Lama, a cura di Eugenio Scalfari, pubblicata da la Repubblica il 24 gennaio 1978:

«Sì, si tratta proprio di questo: il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali».

Ovvero, per i lavoratori gli anni ’70 saranno stati un tempo d’oro! L’indecenza della Camusso, viene dunque da lontano, ha vecchie e bensalde radici, che fanno bella mostra di sé anche nella CGIL di Landini,con l’esibizione impudica del depotenziamento del Contratto Collettivo Nazionale e la maggiore rilevanza assegnata agli accordi al livello d’impresa. È questo l’ennesimo sfregio, dopo il Jobs Act, ai diritti deilavoratori. Perché, allora, confindustriali e confederali, dopo la passeggiata unitaria del 9 febbraio scorso, non mettono in calendario un’unica organizzazione, con un’unica tessera e con sedi unificate?

E vai a capire se dirsi comunisti, quantunque oggetti di culto, sia oggi una cosa di «buon senso» e quale sia il «senso comune» in merito.

Dovrebbe essere noto come Marx non abbia mai avuto la passione di «mettersi a prescrivere ricette (comtiane?) per l’osteria dell’avvenire», così come i socialismi, cosiddetti reali, siano stati tutto fuorché socialismi (nel senso marxiano). Il travisamento sarà stato tutta colpa delle bandiere rosse, della falce e martello, e del sogno d’un assalto al cielo, che hanno abbuiato la vista e la mente? Sia come sia, oggi, di nostalgici del comunismo, di militanti identitari e creduloni in giro per il mondo, qualcuno per autentica passione, qualcun altro a caccia di poltrone, non pare ne siano rimasti in tanti a dirsi comunisti come Viola Carofalo e quelli dell’ex-Opg.

Ma il problema non sembra tanto quello della nostalgia, quanto piuttosto, per tirar giù la testa dalle nuvole e restare con i piedi ben saldi per terra,quello della mancata elaborazione del lutto per la classe rivoluzionaria mai nata, ovvero per quel lavoratore collettivo cooperativo” (dal dirigente della produzione fino all’ultimo dei semplici esecutori), di cui sino ad oggi non si è vista e non si vede traccia all’orizzonte, ma a cui Marx aveva legato la possibile nascita reale del socialismo. Anche gli scienziati, però,possono sbagliare previsioni.

La “Critica al programma di Gotha” è in buona parte venuta giù per colpa di F. Lassalle. Nella “Critica” Marx delinea due fasi per il passaggio al comunismo ma, nonostante i buoni propositi intorno alle osterie dell’avvenire, il Moro stavolta gioca d’azzardo e sparge, in giro per il mondo, alcune dosi di metafisica consolatoria. Tanto che si può trovare più capacità veritativa nel Manzoni della straordinaria Storia della Colonna Infame” e nella sua visione della “natura umana”, che non nel Marx di “Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” .

Manzoni sembra descrivere in quella Storia, forse per puro caso, ma con buona approssimazione, fatti e misfatti a venire dei Paesi del  socialismo reale e non solo:

«Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o, accusarla.» (A. Manzoni – “Storia della Colonna Infame” – Feltrinelli 2011 p.7)

Manzoni non è tormentato soltanto dal pozzo nero dell’universo umano, ma anche da unimprovvida Provvidenza che lo spinge sull’orlo dell’eresia.

Avesse infilato un “nonprima di “son due deliri”, quella sua osservazione sulla natura umana l’avrebbe sottoscritta persino Paul Thiry d’Holbach, che mai si stancò di «contrapporre le idee naturali alle idee soprannaturali»  (“il buon sensoGarzanti). Ma d’Holbach l’ha letto Leopardi e non Manzoni, e si vede!

Il socialismo reale è stato un sogno affannoso e perverso, talvolta addirittura un incubo con una scissione totale tra l’essere e il fare. Un incubo dal quale molti comunisti non sono riusciti a riscuotersi, mentre altri non se ne sono neppure accorti.

Di certo se ne saranno accorti Guido Picelli, Emilio  Guarnaschelli, Camillo Berneri, S. M. Ėjzenštejn, e Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Albert Camus eccetera.

Domenico Losurdo in “Marx e il bilancio storico del Novecento p. 189 – 2009 Diotima, la mette giù così:

«La rivoluzione d’Ottobre, se per un verso è una pagina grande dell’efficacia antitotalitaria svolta dalla teoria di Marx, per un altro verso ha aperto un nuovo capitolo della storia del totalitarismo»

 

Il sogno di una cosa

È il 26 gennaio del 1962 e Pasolini resta folgorato dalla citazione di Fortini: “Il sogno di una cosa”, tanto da chiedergli la pagina di Marx da cui è stata tratta.:

« () Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede [nel senso di custodisce, ha in sé] il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente».

(dalla terza lettera da Kreuznach di Marx a Ruge settembre del 1843. La frase diventerà il titolo del romanzo di Pasolini Il sogno di una cosa”.)

Dopo Marx e dopo Lenin, il pensiero di alcuni comunisti sul socialismo reale, «cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, si è trovato, con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie che sono due deliri», bestemmie e deliri secondo la dottrina ossificatasi religiosamente nei diversi partiti comunisti: negare il comunismo, o, accusarlo.

E tra la negazione e l’accusa il grande mare della confusione. C’è stato chi, per non negare la possibilità del comunismo, ha pensato di sognare.

Ad Ernest Bloch (come al giovane Marx) son sempre piaciuti i sogni, i sogni ad occhi aperti, i sogni possibili, e quindi non i sogni mandati da dio, o dal demonio, né quelli mandati dal mal di stomaco (S. Agostino):

 

« (…) L’oggettivamente possibile, a cui il sogno deve attenersi se vuol servire a qualcosa, trattiene in maniera preordinata anch’esso. Il sogno ad occhi aperti d’una vita piena, sogno oggettivamente mediato e proprio perciò non rinunciatario, supera la sua propensione all’autoinganno né più né meno che la mancanza di sogni.

Quest’ultima, legata ad un tenersi a se stessi o ad un realismo, che sembra ancora non essere altro che rassegnazione, è senz’altro la condizione preponderante di molti uomini che pensano, sì, ma poco conoscono, in una società povera di prospettive (e ricca d’imprecisione). Tutti costoro hanno una certa avversione per l’andare in avanti, e per il guardare in avanti, anche se in misure diverse e con diverse intensità di timore». (E. BlochK. Marx” – p. 50Ed. Punto Rosso)

Intanto, per tornare all’oggi, avanzi di comunisti, da tempo sull’orlo del disfacimento totale, si vanno preparando per le elezioni europee e sognanosogni, non si sa bene se mandati da dio o dal demonio, nei quali i comunisti tornano a sedersi sulle lucrose poltrone delle istituzioni europee.Per questo motivo pare si raccoglieranno sotto le insegne del prodecondottiero Luigi De Magistris, un bacia teche al pari di Di Maio, che non ha però in programma affinità elettive con i comunisti. Una notizia, insomma, che dovrebbe far saltare sulla sedia tutti quanti i comunisti rimasti!

                 

È pur vero che Ernest Bloch ha scritto che non bisogna nutrirsi di sola speranza, che bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare, che l’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà, e che la sua utopia «non èfuga nell’irreale, ma scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione».

Saprà, dunque, la coppia De Magistris + San Gennaro rappresentare la blochiana utopia concreta «per andare in avanti» e «guardare in avanti»?Ma sì, forse la liquefazione del sangue sarà un po’ troppo oltre l’orizzonte della realtà, ma sotto la loro guida i comunisti riusciranno di nuovo a trovare qualcosa da cucinare: “primum vivere.  

Con queste notizie del «buon senso» finito in cucina può succedere di andare a letto e di sognare un grande cartello, proprio come quei “VIETATO FUMARE” nelle sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie, solo che qui c’è scritto: “SI PREGA DI CHIUDERE GLI OCCHI (Freud). Chiuderli solo per il tempo necessario a non vedere, nella vigilia elettoraledel maggio 2019, un macabro bacio al sangue. Di certo questo sogno non è un desiderio, ma è interpretabile. Sarà il sogno del «buon senso» che vorrebbe liquefare fanatismi e superstizioni e, gramscianamente, provare a diventare «senso comune»? O sarà, invece,  soltanto il sogno di uno che credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro? (Qualcuno era comunista – Gaber – Luporini)

https://www.youtube.com/watch?v=G24bmNtcoVU

CLAUDIO LOLLI “Quello lì (Compagno Gramsci)”

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