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E’ piuttosto lungo, ma non richiede alcuna preparazione “specialistica”. Non parlo certamente da vero critico cinematografico (non me ne intendo troppo di tali problemi), ma cerco di afferrare il significato del film dal punto di vista di quella che è la vita in generale. Ho ovviamente una mia visione specifica, che tuttavia è del tutto comprensibile anche da parte di chi può divergerne su più punti. Un paio d’anni fa (o forse più) avevo pubblicato queste considerazioni. Qui sono però state riviste e abbastanza consistentemente ampliate.
DISCUTENDO DI QUARTO POTERE
“Quarto potere” (“Citizen Kane”) di Orson Welles è uno dei tre film da me preferiti, assieme a “La corazzata Potemkin” (il capolavoro di Eisenstein, gustosamente definito da Villaggio-Fantozzi “una boiata pazzesca”) e “La grande illusione” di Renoir. Certamente, giudico appena staccati di un’incollatura altre decine e decine di capolavori o comunque di gran bei film (del muto come del sonoro, in bianco e nero o a colori), che non elenco per l’impossibilità di ricordarli tutti; nemmeno la metà e ancora meno di così.
Parlerò qui appunto di “Quarto potere”, film assolutamente grandioso del 1941 interpretato dallo stesso regista (notevolissimo pure nella recitazione) e da una folta schiera di altri più che ottimi attori, fra i quali ricordo: Joseph Cotten, Everett Sloane, Dorothy Comingore, Agnes Moorehead, Paul Stewart, Ray Collins, George Coulouris, Ruth Warrick. Tutti inghiottiti dalla “Notte Eterna” e che pochi lettori, temo, ricorderanno ancora.
Come al solito, in youtube non si trova quasi nulla di questo giustamente famoso classico. E tanto meno il film intero. Ho recuperato una recensione non male, almeno secondo la mia opinione:
L’ho riportata soprattutto perché illustra alcuni aspetti tecnici che non saprei nemmeno ripetere dopo averli ascoltati attentamente. Non sono un intenditore in grado di espormi in simili disquisizioni. Capisco che vi è “dietro” quest’opera la lezione dell’espressionismo tedesco, mi rendo certamente conto della sua enorme potenza espressiva, ma mi soffermo esclusivamente sul suo significato generale o su quello di determinate scene.
Prendiamo, ad es., la sequenza in cui la bibliotecaria accompagna il giornalista, incaricato di indagare sulla vita di Kane, in un’amplissima stanza e gli porta tutto l’incartamento riguardante le notizie relative al magnate. L’immagine è scarna ma desta una forte impressione. Tuttavia, essa soprattutto evidenzia l’irrealizzabilità del compito, che schiaccia chi vi si accinge. Impossibile sceverare un’intera esistenza nel suo effettivo svolgersi, pur tramite una gran massa di documenti da consultare in un tot di tempo ben stabilito. L’epilogo, il giornalista che ringrazia e se ne va, sottolinea come tutta la lettura, di alcune ore, abbia appena scalfito il senso di quella vita.
Poi il giornalista si reca a trovare, via via, le persone che più erano state vicine a Kane e, progressivamente, capiamo quanto illusorio fosse il tentativo di riuscire a inquadrare la complessità, contraddittorietà, perfino incoerenza, della sua personalità. E non perché costui sia un mentitore; anzi è nell’insieme sincero nel suo percorso destinato al successo e alla grandiosità della magione che si è costruita su una altura isolata, giusto a sottolineare l’elevatezza e la perfetta solitudine del magnate. E’ proprio il vivere – implicante complicate relazioni con altri intrise di amicizia e malevolenza, di colpi bassi e adorazioni fin troppo prive di dubbi – a impedire che di quest’individuo si sappia chi realmente è stato. Nemmeno lui riesce a capirsi. Del resto, nessuno apprende gran che di se stesso poiché siamo tutti presi dall’agire, dal provare sentimenti contrastanti, dal calcolare razionalmente i risultati di certe azioni, dal perseguire dati obiettivi che spesso mutano di posizione (spazio-temporale) e inducono contraddittorie convinzioni; ecc. ecc.
Nella scena iniziale come alla fine compare l’immagine di quella sorta di Castello e, in primo piano, il cancello con la scritta “no trespassing” (non oltrepassare, vietato l’accesso). Se non ricordo male, nella recensione la s’interpreta quale definitiva sottolineatura di quanto sia preclusa agli altri una non effimera conoscenza di un qualsiasi essere umano. Non si è in grado di oltrepassare determinati limiti nell’approfondire i caratteri di una personalità, perfino della più semplice; figuriamoci quella di “citizen Kane”. Eppure, non credo che quella scritta si limiti a porre l’accento su tale aspetto. Sullo sfondo vi è la cupa, scura (perché notturna), presenza del “mausoleo” fattosi edificare dal protagonista, presenza tesa secondo me a segnalare qualcos’altro di ancora più rilevante. La potenza e ricchezza di un individuo sono intrise di solitudine e distanza dagli altri; con la giovialità e il dialogo intenso e amichevole, con l’apertura a reali incontri e vicinanze, non si giunge ai risultati voluti e acquisiti da Kane. Non vi è alcuna prospettiva di oltrepassare il recinto che il potente, perfino quasi inconsapevolmente, dispone attorno a sé, separandosi così dai possibili stretti interlocutori. Resta solo la (magra) consolazione, quando gli va bene, d’avere seguaci, ammiratori, fedeli credenti nelle sue virtù di fatto inesistenti. Nessuno oltrepassa il cancello che divide gli altri dall’uomo che è o si pensa “superiore”. Ne riparleremo alla fine.
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Veniamo all’idea forse più rilevante del film, al suo significato più profondo. Proprio nei primi minuti della vicenda, poi raccontata in una sorta di lungo flash-back, il protagonista muore e, nel mentre dalla sua mano cade un pallina di vetro con dentro un volteggio di fiocchi di neve, pronuncia la parola “rosebud” (mi rifiuto anch’io, come il recensore, alla traduzione italiana con rosabella). La parola viene incidentalmente udita da chi entra nella stanza e diventa il tormentone del film. Vi è anche un’altra fondamentale scena quando Kane ormai vecchio resta solo e in un accesso di rabbia distrugge mobilio e oggetti vari in alcune stanze del suo “mausoleo”; ad un certo punto gli capita tra le mani la solita pallina di vetro e immediatamente la sua ira scema e fa luogo ad una triste, perfino cupa, calma nel mentre anche in quella contingenza pronuncia “rosebud” nel mentre arriva, al rumore dello sfracello da lui fatto, l’intera servitù con il maggiordomo in testa, che evidentemente coglie il suono di quella espressione per lui incomprensibile.
Da qui, dall’intento di scoprirne il significato, si sviluppa in fondo tutta la vicenda filmica in una serie di ricerche giornalistiche e di interviste a coloro che gli erano stati più vicini, tutte tese ad approfondire e portare a conoscenza del pubblico la reale personalità del magnate deceduto. Si crede che appurando chi è o che cos’è “rosebud”, si riuscirà a metterla a nudo almeno in buona parte. Nessuno fra i conoscenti e amici di Kane aiuta a chiarire il mistero, che si svela invece allo spettatore del film poiché una delle scene finali mostra come vengano buttati nel fuoco molti degli innumerevoli oggetti da lui raccolti durante la vita; quasi mai ordinati, semmai affastellati in grandi mucchi. Ed ecco apparire una slitta, di quando Kane era bambino, sul cui fianco è incisa la scritta “rosebud”:
Essa brucia per tutti quelli che stanno rovistando nella vita del magnate, ma non prima di essere vista da chi assiste alla proiezione del film. Ed è fatto di estrema incisività, e vi ritorneremo, la progressiva scomparsa di quella parola, dissolta dalle fiamme, su cui insiste un primo piano sufficientemente lungo da far capire che lì si annida un evento decisivo e condizionante la sua vita. Il discorso qui si complica. Inserisco un’altra scena del film, del tutto cruciale per il suo “messaggio”, indispensabile all’inizio di una ricostruzione, sia pure per sommi capi, della vita di Kane:
E’ in inglese; grosso modo ricordo quel che vi si dice ma ammetto che, se non avessi visto il film in italiano, non capirei gran che dell’intera discussione. Credo però che il suo senso si colga per sommi capi. Il ragazzo ha una madre estremamente determinata mentre il padre è un debole, che alla fine si adegua ai voleri della moglie. Questa desidera un gran futuro per suo figlio e, avendo ricevuto un’eredità, ne cede la gestione ad una società guidata dall’uomo che sarà sempre in contrasto con Kane. Il ragazzo dovrà abbandonare la sua residenza di montagna, quasi isolata, e andare in un Collegio dove lo istruiranno a diventare qualcuno di molto diverso e soprattutto lontano dal “cattivo esempio” paterno. La madre firma il contratto – e con parole secche rivolte al marito che tenta all’inizio una debolissima resistenza – e poi chiama il figlio tutto intento ai suoi giochi con la slitta sulla neve che ricopre, assai profonda, l’intero ambiente cicostante.
In modo asciutto, che non annulla la sensazione dell’affetto da essa nutrito, gli annuncia il termine della sua infanzia; egli dovrà allontanarsi da lei e seguire “quell’uomo”, che tenta anche di rendersi simpatico al fanciullo. Niente da fare, si osservi lo sguardo duro e nemico di quest’ultimo contro l’intruso nella sua vita spensierata, arrivato proprio mentre giocava nella neve, nell’ambiente in cui è nato e cresciuto fino allora. Egli chiede alla madre se lo seguirà; la risposta è negativa e il suo odio verso quell’uomo cresce. Così gli si avventa contro e lo respinge, proprio usando la sua slitta. Alla fine viene neutralizzato, la slitta gli sfugge di mano e il suo destino si compie. L’ultima immagine è quella slitta da sola ferma nella neve, ormai abbandonata anche se sarà evidentemente poi recuperata e messa tra gli oggetti che Kane conserva e che verranno bruciati alla sua morte.
L’interpretazione più semplice dell’ultima parola – “rosebud” – pronunciata dal magnate nel supremo momento del trapasso è che egli ricordi quel momento cruciale della sua vita, in cui ha dovuto abbandonare la spensieratezza dell’adolescente e si è compiuta la rottura verso la sua futura, ma solitaria, grandezza. Il recensore prende il fatto come ulteriore dimostrazione che una parola non può servire a spiegare la vita di un uomo, il suo reale destino. Vero, ma limitato. Una persona a me molto cara, il mio Maestro (un mio secondo padre), durante l’ultimo dolorosissimo attacco al cuore che lo portò alla morte in pochi minuti, invocava con quel che gli restava di fiato sua madre, a quanto mi si disse. Quel grido strozzato non illustra la vita dell’uomo, ma non è certo senza significato (e di che rilevanza); ci rivela quale legame (molto comune fra gli umani) fosse principalmente impresso nella memoria del morente. E anche per Kane, la slitta gli ricorda intanto proprio la madre e il momento supremo della separazione definitiva da lei. L’ultimo pensiero, prima dell’addio alla vita, fu per la neve di quel giorno fatale e per la slitta con cui giocava e poi si difendeva dal destino arrivato, sotto forma di un individuo del tutto sconosciuto e subitamente odiato, per separarlo dalla persona a cui lo legava l’affetto di gran lunga più importante nutrito durante tutta la sua esistenza.
In definitiva, un solo ricordo non spiega la vita, ma ci fa conoscere il sentimento più profondo e costante che alberga in Kane e che irrompe imperioso quand’è alla fine. Evidentemente, chi era alla ricerca di notizie del tutto superficiali, e magari segrete, sulla sua esistenza d’uomo spesso presente nelle cronache dei giornali e notiziari, bramava soltanto scoprire qualche retroscena piccante. Ed è allora evidente che “rosebud”, anche se si fosse appreso che cos’era, non avrebbe spiegato alcunché; avrebbe anzi deluso al massimo grado i chiacchieroni interessati al pettegolezzo e alla notizia da cinegiornale. La parolina ci rivela tuttavia che la spinta emotiva in lui dominante non era l’arraffare potere e denaro, come poteva sembrare ad una superficiale considerazione delle sue motivazioni; questo scopo fu in definitiva realizzato, forse non coscientemente, per non deludere la madre, da lui separatasi pur di evitargli una misera sorte simile a quella dell’imbelle padre.
Tale pensiero penetra la sua mente – o forse soltanto galleggia in una sorta di nebbia – nel momento in cui la sua vita si compie, si perfeziona con l’ultimo atto. Qualcosa di non consapevole per lui è però raffigurato, simboleggiato, in quella slitta; ed è più importante ancora del sentimento che lo pervade nell’attimo finale della sua esistenza cosciente. Guardate bene la scena del ragazzo che respinge con violenza l’uomo venuto a prelevarlo, spingendogli la slitta contro la pancia e facendolo cadere a terra. Non vuole andare con lui; e lo strumento dei suoi giochi ancora infantili gli serve per fargli male e allontanarlo. Quello strumento finisce sperduto nella neve; evidentemente è stato recuperato, ma quale oggetto da ammucchiare in una montagna d’altri poiché Kane adulto raccoglie un po’ di tutto quasi maniacalmente.
La slitta, lo strumento usato nel rifiuto, viene posta in primo piano solitaria e abbandonata nell’ultima immagine di quella scena cruciale. Secondo me, il regista vuole farci capire che il carattere del fanciullo, già potenzialmente pronto a ciò che poi diventerà, è andato (non consapevolmente) oltre la ripulsa e la ribellione insorte per il triste evento della separazione dalla madre. Non c’è volontà né strumento in grado di opporsi ad un destino segnato dalla sua superiore capacità di emergere e dominare rispetto a tutti quelli che poi lo attornieranno nella vita, quelli visitati dal giornalista. Dal loro interrogatorio, per quanta simpatia o antipatia possiamo provare per simili personaggi, ci rendiamo ben conto del loro essere soltanto di contorno, delle comparse nella vita d’un grande, condannato da questa sua superiorità alla solitudine e ad essere colto, alla fine, da un ultimo momento di nostalgia che lo riconduce alla madre e al dolore della divisione da lei.
Direi che tutto il film ha scene eccezionali, ma certamente una delle più dense è quella finale che dura due minuti e mezzo. Vi è questa immane raccolta di oggetti durata evidentemente per tutta la vita di potente di Kane (quand’era ragazzo di sicuro non raccoglieva nulla). Sembra quasi che lo facesse per rendersi sicuro di ciò che stava vivendo e facendo. E il fatto che questo autentico “patrimonio di vita” venga messo al rogo ha un significato; malgrado non sia esplicitato e anzi nemmeno voluto, consapevolmente, da chi lo ordina. E’ come se si intendesse distruggere ciò che invece resterà comunque; e per il tempo dovuto, nulla più di quanto la memoria umana è capace di rammemorare. Il ricordo del “grand’uomo” non dipende affatto da quegli oggetti; e quando esso sarà completamente sbiadito, anzi cancellato progressivamente, esattamente come la scritta “rosebud” dalle fiamme, nessun essere umano delle future generazioni, anche se avesse potuto vedere l’immensa raccolta rimasta intatta, sarebbe stato in grado di riandare dalla distesa di oggetti, ormai muti, all’uomo che li aveva raccolti e custoditi. E lo stesso accade con tutti i documenti e le foto, ecc. che un qualsiasi vivente accumula nella sua vita. Non diranno alla fine nulla di lui, ma hanno una qualche importanza per la storia, in quanto sono segno di certi tempi ormai ignorati nella loro più complessa ed eccitante vivezza, quella che spinge appunto gran parte di noi a raccoglierli e conservarli.
Egualmente intensi sono gli ultimi 45 secondi. Riappare, come all’inizio, l’immenso palazzo, simile quasi ad un castello, visto dal sotto in su sulla cima dell’altura e con il camino che fuma nero intenso, il segno di quel dare alle fiamme che sembrerebbe voler dire che quell’uomo, se fosse vissuto in altra epoca, avrebbe forse meritato il rogo per la sua presunzione e il non mai cedere all’umiltà richiesta imperiosamente dalla religione (pur se spesso ignorata dai suoi massimi cultori e “amministratori”). E tuttavia, anche l’immagine di quella grande e cupamente tetra dimora sancisce in modo vivido e a mo’ d’incubo la solitudine del suo abitatore, potente ma deluso nelle sue mai godute gioie e sincere amicizie, nei suoi amori che disperde per incuria e congenita incapacità di alimentarli; esattamente come la gelida madre, da lui tanto amata e da lei altrettanto ricambiato, ma con modalità molto ben rappresentate da quei giochi solitari nella neve ghiacciata dove solo la slitta fatale gli consentiva di muoversi agilmente.
Ed infine la scritta, anch’essa evidenziata in modo molto espressivo all’inizio, con quel “no trespassing”, che è per certi versi la chiave del film. Banalmente, la scritta rappresenta la decisione di una persona di non voler essere disturbata e la minaccia verso chiunque venga con l’eventuale intenzione di furto o altra molestia poco gradita. In realtà, il suo senso è ben più profondo: l’assoluta impossibilità di penetrare la vita di un simile personaggio destinato – per sua fortuna o invece sciagura? – al successo, alla ricchezza, al comando. Deve essere solo lui a decidere quando vorrà essere in contatto con un qualsiasi altro; nessuno deve immaginarsi di entrare con lui in relazione, amichevole o anche di semplice conoscenza, se non dietro suo espresso desiderio o consenso. Anche l’amore è di sua esclusiva scelta. In ogni caso, bisognerà sempre chiedergli il permesso di “entrare”, mai prendere l’iniziativa di un qualche passo nella sua “proprietà”; poiché tutto, compresa la sua stessa personalità, è sottomesso al suo imperio e pervasivo controllo. Questo esclude una reale amicizia o amore, che implica intreccio e reciproco aprirsi all’altro. No, “no trespassing”, ogni avvicinamento avverrà solo quando, dopo opportuno “bussare del visitatore”, il “padrone del Castello” (della propria vita) vorrà “aprirgli il cancello” avendo modo di controllare, sospettoso, i suoi passi. E così, non ci sarà mai vera amicizia, vero amore. Tali sentimenti saranno sempre custoditi, intangibili e senza remore, a favore della madre; che pur essa, tuttavia, è in fondo il sogno di una felicità solitaria nella neve con la sua inseparabile slitta. E’ questa a rappresentare l’autentico mezzo per giungere alle vette di godimento da lui autenticamente desiderate. Ed è da essa che viene in realtà brutalmente separato; e la slitta resta “laggiù” solitaria come solitaria sarà ormai la sua vita. Non importa che la recuperi nell’enorme raccolta di oggetti cui si dedica con massima superficialità e senza distinzione fra di essi. Allora la slitta diventa solo un oggetto fra gli altri, salvo che nel momento supremo del “trapasso”, in cui essa sembra ridiventare simbolo della separazione dalla madre amata. Nemmeno questo è completamente vero. Si tratta in buona parte della separazione, brusca e rovinosa, dalla felice solitudine dei giochi nel freddo della neve, che lui, fanciullo, pensava sarebbe stato l’eterno stato della sua vita; senza la presenza inquinatrice degli altri, solo causa di turbamenti e difficoltà del “sopravvivere in società”, pur giungendo ai massimi gradini del potere.
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Cerchiamo allora di concludere. La nostra vita, almeno per quanto ne sappiamo, è la vicenda più complicata che si svolga nell’intero Universo. Si potrà discorrerne all’infinito, ma non c’è modo alcuno di spiegare in tutti i suoi risvolti la personalità di un qualsiasi essere umano; e mai si giungerà ad elencare tutti gli eventi che attraversano l’esistenza di ognuno di noi. Ed infatti al giornalista, e a chi lo ha incaricato di condurre l’inchiesta su Kane, non interessa un bel nulla conoscere come costui ha realmente vissuto; l’unico desiderio è di carpire qualche suo segreto, magari eccitante, oltre a quello ormai scoperto da tempo e che ha già fatto scandalo.
“Rosebud” rivela semplicemente, allo spettatore del film, il sentimento prevalente nel protagonista, il centro del suo interesse più vitale. Ci fa inoltre comprendere come questo sentimento – e l’oggetto da lui usato per respingere l’intruso, venuto a separarlo dalla sua felicemente solitaria infanzia – non potesse impedire l’affermazione della sua intelligenza e della forte personalità. Va allora ribadito che la slitta isolata, abbandonata, apparente simbolo della sconfitta del ragazzo, assume in realtà un significato opposto. Il suo sguardo d’odio, di rivolta, di promessa d’un antagonismo irriducibile verso chi viene a prelevarlo contro la sua volontà, pone in risalto un’energia incomprimibile ormai pronta ad esplodere. Di conseguenza, quella slitta scivolata e immobile nel freddo mucchio di neve ci comunica una diversa verità: la fanciullezza è finita e la vita del ragazzo compie una svolta e si avvia verso il suo destino di potenza e solitudine.
Sapere chi o che cos’era “rosebud” non serve quindi a nulla se si pretende che ci illumini in merito a Kane e alla sua vita. Quella parola ci consente soltanto di sapere qual è stato il suo ultimo pensiero, svelandoci così il suo più vitale interesse. Come probabilmente accade ad ogni essere umano nel momento estremo della fine. Quanto egli pronunzia assume duplice valenza. Da una parte, c’è la manifestazione esplicita e cosciente di un sentimento, il più prepotente da lui nutrito da sempre. Dall’altra, viene in evidenza ciò di cui lo stesso individuo nemmeno ha precisa consapevolezza: il suo carattere, la tempra della sua personalità, a quale destino è stato consegnato durante la sua esistenza (logicamente nelle sue linee generali, non certo nei particolari affidati alla casualità del vivere).
Ed è sintomatico che Kane, durante la sua vita, sia doppiamente sincero per quanto in piena contraddizione. Lo è all’inizio della sua carriera, quando sembra quasi idealista e perfino favorevole ai più deboli e diseredati, ai lavoratori. Lo è quando stila il manifesto programmatico per il suo giornale, che immagina diverso e in contrasto con tutti gli altri poiché è una promessa di verità e non inganno; un manifesto che il suo più grande amico, il quale poi si allontanerà appunto da lui deluso, prende per oro colato, conservandolo infine quasi come una reliquia. Quest’amico, buono e piuttosto limitato, non capisce che il potente, proprio quando si avvia al successo e alla scalata della notorietà e ricchezza, deve cambiare registro e dinamica pena la sconfitta e l’oblio. Kane, dunque, è altrettanto sincero quando muta ritmo e direzione di marcia rispetto all’inizio del suo cammino verso l’alto. Il suo percorso assomiglia a quello del politico; anzi, è proprio quello di ogni politico di spessore, di ogni autentico stratega del suo successo, che trascina a quest’ultimo schiere di altri, assai più limitati di lui e quindi suoi semplici seguaci e “adoratori” (finché resta vincente, per poi abiurarlo e farlo a pezzi se viene sconfitto). Tuttavia, Kane commette un errore di superbia e di non accettazione di una sconfitta ormai inevitabile. Basta un solo errore e si gioca buona parte del suo successo, pur rimanendo ricco e noto al pubblico, ma non più come prima. E soprattutto irrimediabilmente solo per tutti gli anni del prolungato esaurirsi della sua linfa vitale.
Per terminare, un grande film e una grande lezione di comportamento umano e di psicologia del successo. Oltre alla qualità filmica, pressoché unanimemente valutata al massimo e non mai superato livello; soltanto eguagliato da alcuni altri “supercapolavori”.
Gli affari si dovrebbero concludere quando sono convenienti e nel luogo in cui sono più favorevoli. Questo ci insegna la triste scienza e i suoi ancor più tristi economisti. In teoria. Ma in pratica le cose stanno affatto diversamente. Il […]