Fascismo e antifascismo

In una intervista a Sergio Zavoli (https://www.youtube.com/watch?v=UiMVz-KtKCw), risalente all’estate del 1970 (l’unica della sua vita), pochi mesi prima di morire, Amadeo Bordiga racconterà episodi e situazioni molto interessanti del periodo precedente, e subito successivo, all’ascesa del fascismo. Innanzitutto, ribadirà un concetto già espresso da Gaetano Salvemini. Così Bordiga: “…La fradicia impalcatura statale italiana che chiunque avesse distrutto avrebbe fatto una cosa positiva”. Ricordiamo che, parimenti, si espresse Salvemini: “S e Mussolini arriverà a spazzare via queste vecchie mummie e canaglie, avrà fatto opera utile al paese. Dopo che lui abbia compiuto questo lavoro di spazzature, verranno avanti uomini nuovi, che spazzeranno lui…Se Mussolini venisse a morire, e avessimo un ministero Turati, ritorneremmo pari pari all’antico. Motivo per cui bisogna augurarsi che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando non muoiano tutti i Turati, e non si faccia avanti una nuova generazione liberatasi dalle superstizioni antiche”.

Un’altra affermazione importantissima di Bordiga riguarda il cosiddetto antifascismo che avrebbe preso vita in quella fase ma, come noi sappiamo benissimo, soprattutto dopo. Per Bordiga l’antifascismo sarebbe stato un fenomeno ancor più deleterio del fascismo stesso in quanto male più grave “che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”.

Ancora oggi dietro l’arco costituzionale unico antifascista si celano i peggiori mostri della storia nazionale, quelli che hanno svenduto l’Italia allo straniero e hanno fatto strame del suo tessuto industriale, politico, sociale e culturale.

Inoltre, Bordiga meglio di Gramsci, comprende che il fascismo è un movimento moderno e non arcaico di tipo agrario. Esso si appoggerà ad “una industria che giovanilmente”, almeno per un paese ancora arretrato come il nostro, prova ad emergere dalla vecchia società contadina. Certo, non si tratta di quella formazione veramente innovativa che andava sviluppandosi negli Usa, quella dei funzionari manageriali del Capitale, ma è in ogni caso qualcosa di meno atavico del potere della terra, addirittura con cenni simil-feudali.

Infine, fatto altrettanto significativo, Bordiga considera l’occupazione delle fabbriche inadatta in quel momento storico a fare la differenza. Sarebbe stato più efficace “dare l’assalto alle Questure e alle Prefetture statali” di uno statu quo ormai debolissimo. Di fatti, Giolitti, “ritenne allora che lasciare nelle mani degli operai il possesso degli stabilimenti significava lasciare ad essi un’arma del tutto inefficace a minacciare e rovesciare il potere e il privilegio delle minoranze capitalistiche”.

Lasciamo la parola a Bordiga:

“L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi, ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, Bava Beccaris e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori, provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica. I testi dei miei discorsi citati, possono essere rinvenuti nei resoconti dei congressi mondiali, e certamente saranno ripubblicati dalla nostra corrente in avvenire.

[Al contrario di Gramsci che considera il fascismo un fatto agrario] noi consideravamo il fascismo un fatto industriale, moderno e, in certo senso, anche democratico. Il fascismo era un tentativo di dare una funzione originale nella società italiana, alla media e piccola borghesia, artigiani, professionisti, studenti…

…La fradicia impalcatura statale italiana che chiunque avesse distrutto avrebbe fatto una cosa positiva

Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non
si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che dal fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici.

 

Sviluppando tutti gli argomenti di principio, negavamo che la rivoluzione comunista potesse aprirsi con la conquista delle officine e della loro gestione economico-tecnica da parte del personale operaio, come veniva sostenuto da Gramsci. Secondo noi, le forze politiche dei lavoratori avrebbero dovuto prendere l’iniziativa di dare l’assalto alle Questure e alle Prefetture statali per avviare la grande agitazione che doveva giungere, attraverso la proclamazione di un vittorioso e totale sciopero generale ad instaurare la dittatura politica del proletariato. Questa visione prospettica fu evidentemente bene intuita dal sagace ed abile capo delle forze borghesi italiane, Giovanni Giolitti. Questi infatti lasciò cadere nel nulla le richieste degli industriali perché la forza pubblica intervenisse con le
armi ad espellere gli operai occupatori e a restituire le officine ai legittimi padroni. Giolitti ritenne allora che lasciare nelle mani degli operai il possesso degli stabilimenti significava lasciare ad essi un’arma del tutto inefficace a minacciare e rovesciare il potere e
il privilegio delle minoranze capitalistiche, mentre la gestione operaia degli strumenti di produzione non avrebbe certamente aperto le porte ad un regime non-privato della produzione sociale. La nostra linea tattica chiedeva dunque che il partito proletario di classe mirasse anzitutto ad assicurarsi l’influenza ed il controllo non già sui Consigli di fabbrica e sui Collegi dei commissari di reparto, preconizzati dall’ordinovismo, ma sulle tradizionali organizzazioni sindacali della classe lavoratrice. Ciò, dunque, mi divideva nettamente da Gramsci in quella fase; e mai ammisi che l’occupazione generale delle
fabbriche ci portasse, o potesse portarci, vicini alla rivoluzione sociale da noi desiderata”.

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