CHI E’ IN BUONA FEDE FARA’ AUTOCRITICA
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Fin da quando è nato (oltre tre anni fa), questo blog ha criticato alcune tesi che sono state moneta corrente in frange “ultrasinistre” per troppo tempo. Il sottoscritto ha poi contestato le tesi in questione da sempre, fin da quando alcuni “vecchi arnesi” del ’68 (peggio ancora quelli del ’77) le hanno “tirate fuori dalle maniche” non sapendo più che cosa inventare. Agli “inventori” non concedo alcuna buona fede. Possono anche essersi fatti un po’ di galera (o di migliore vita a Parigi), ma restano solo dei piccoli ambiziosi con molte relazioni tra i radical chic italiani, che li hanno protetti e introdotti nell’establishment: quello dei salotti dei “buoni capitalisti” italiani (e stranieri) pronti a finanziare e stampare queste loro insulsaggini “ultrarivoluzionarie”, in realtà tese a servire mirabilmente gli interessi dei parassiti della finanza e “industria decotta”, semplice dépendance della supremazia americana.
L’Impero negriano e la Moltitudine (le peggiori di queste invenzioni) sono aberranti od opportunistiche, un autentico mascheramento ideologico dell’aggressione “imperiale” statunitense. L’altra banale tesi, quella della fine degli Stati nazionali, è ormai abbandonata da molti dei suoi sostenitori: quelli appunto in chiara buona fede, che avevano solo preso un abbaglio, avendo creduto che il decennio (o poco più) di apparente totale predominio degli Usa – dopo il “crollo del muro” e la dissoluzione dell’Urss – indicasse questa presunta fine. Ho preso anch’io l’abbaglio di un lungo predominio globale statunitense, ma non mi sono lasciato irretire dalla tesi suddetta; ho subito sostenuto che non era finito nessuno Stato nazionale, erano semplicemente tutti in quel periodo subordinati rispetto all’unico rimasto superpotente. Già nel 2003, tuttavia, affermai che rinasceva la Russia e tale fatto – unito alla già presente Cina, all’India, ecc. – riproponeva l’avvio di una fase diversa, precisatasi poi nella sua totale portata dopo due-tre anni e sanzionata dal cambio di strategia statunitense con l’elezione del nuovo Presidente.
Oggi, tutte le persone, e correnti (giornali, ecc.), in buona fede hanno cambiato idea; in pratica, non mi sembra di leggere nulla in giro – salvo che in alcuni derelitti ancora “negriani” – in merito a quella tesi ormai sbaraccata. Cerca invece di resistere il cosiddetto “altermondialismo”, che – con il suo obsoleto movimentismo, i no-global, i “social forum”, ecc. – rappresenta l’ultimo (o quasi) fronte degli zombi. Ho letto recentemente uno sconsolante e melanconico scritto di Lusson e Massiah (membri del Cedetim-Ipam, mi pare pure di Attac, ecc.), che mette in mostra tutta la debolezza e vecchiezza di questi residui: sembrano non “dell’altro secolo e millennio”, ma proprio di un secolo o millennio fa. Chi è in buona fede si staccherà pure da queste false alternative, che oggi appoggiano di fatto Obama (quindi gli Usa) e si rifanno ad economisti come Stiglitz, immagino anche Krugman e simili.
Sono lieto di aver da anni e anni attaccato sia il liberismo (neo) che il sedicente keynesismo, cioè un banale e smidollato statalismo, mostrando reiteratamente come fossero ideologie in reciproco sostegno antitetico -polare. Nei miei libri (ad es. Gli strateghi del capitale o Finanza e poteri), e poi nel sito, nel blog ecc., ho sviluppato mille volte questi temi, per cui mi limito qui a ricordare poche cose. Viene adesso in evidenza il limite di tutti questi movimentismi: la sola critica al neoliberismo e quindi alla politica degli Usa di carattere più aggressivo; addirittura concentrandosi su quella di Bush e perfino dimenticando quella di Clinton. Questa gente, non essendo mai passata per la lezione del leninismo, non capisce nulla di strategia e tattica, non capisce nulla dell’“analisi concreta della situazione concreta”; insomma, non capisce nulla della congiuntura o fase in cui ci si trova ad operare.
Il neoliberismo si è affermato nella fase finale dell’involuzione del sedicente campo alternativo al capitalismo. E’vero che è stata la Thatcher a dare inizio alla rivincita di tale corrente di pensiero capitalistico su quella “keynesiana”, ma è con Reagan e durante l’ultima fase dello scontro tra i “due campi” – caratterizzata dalla nomina di Gorbaciov a segretario del Pcus, segno chiaro di ormai irreversibile impasse economico-politica e di resa vicina – che il neoliberismo prende il suo pieno sviluppo. Scomparso di fatto, nel giro di due anni (1989-91), il campo avversario – rimasta la Cina
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come potenziale potenza del futuro; un futuro però ancora lontano – questa corrente di pensiero è stata l’espressione, anche pratica e non solo teorica, di quella via che sembrava del tutto aperta per gli Usa: un’autentica “autostrada” in direzione dell’Impero (americano, non quello cui ho sopra accennato, semplice frutto di un cervello fuori di senno od opportunista). Più o meno siamo caduti tutti in quest’ottica falsata. Già la crisi del 1997 poteva forse mettere sull’avviso; ma solo a patto di cadere una volta di più nel mero economicismo.
In realtà, a mio avviso, è solo con il 2003 che si comincia ad evidenziare in modo lampante come la strategia “imperiale” statunitense non fosse destinata ad un facile e pieno successo. Da un pezzo la Cina (e anche l’India) indicavano la strada, ma abbastanza lunga, della nascita di nuove potenze “ad est”. Tuttavia, è stata la rinascita russa – anticipata dalla resistenza di Primakov di fronte all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia, fatto che sembrava però solo “una rondine che non fa primavera” – a segnare la vera svolta internazionale. Già durante l’ultimo periodo della presidenza Bush si manifestarono segnali di svolta: ad esempio con la liquidazione di Rumsfeld e in fondo anche di Wolfowitz (mandato alla Banca Mondiale nel 2005 e poi da lì rimosso nel 2007, per altri motivi). Del resto, sarebbe errato non vedere che l’impresa in Irak non è poi finita così male per gli Usa come sembrava all’inizio; e ciò è dovuto appunto a mutamenti tattici. Comunque, è ovvio che un vero cambiamento dovesse verificarsi con un segnale (“pubblicitario”) più forte: l’elezione del nuovo presidente americano.
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Al di là delle persone, le svolte effettive sono sempre caratterizzate da reali nuovi indirizzi della politica perseguita. Possiamo, a seconda dei casi, indicarli come strategici (per sottolinearne la rilevanza e una certa cesura rispetto al passato) o tattici, quando vogliamo segnalare che non sono mutate le finalità di fondo perseguite dall’attore di tale nuova politica. E’ quanto è accaduto negli Usa, che si sono dovuti rassegnare a tempi molto più lunghi, e incerti, per i loro “sogni imperiali” di supremazia mondiale. Il battage dell’elezione obamiana è stato assordante e particolarmente infantile; ma ha incontrato in Europa, e in particolare in Italia, un terreno fertile costituito da servi che più servi non si può: a destra e soprattutto a sinistra. Solo che in quest’ultima, in specie in quella che si pretenderebbe “radicale”, e perfino antimperialista, al servilismo va aggiunto un sovrappiù di stupidità veramente “radicale”.
Avendo identificato – da effettivi economicisti, che abbondano a sinistra – il disegno imperiale americano con il mero neoliberismo, gli attuali cambiamenti tattico-strategici sono visti come la vittoria (almeno parziale) di quella nullità teorica e pratica che è l’altermondialismo. Allora andiamo per ordine. Intanto, constatiamo con “orrore” (per la stupidità umana, specialmente debordante a sinistra) che si è potuto credere veramente alla sottoscrizione di milioni di americani (chi magari con soli 10 dollari) come decisiva per fornire i fondi necessari alla campagna elettorale di Obama (una somma assai superiore a quella spesa dal candidato avversario: McCain). Chissà come mai allora Obama, pur dando tutta la colpa della crisi alla finanza (altra bufala degli ideologi di destra come di sinistra), ha mantenuto in carica (suprema) Geithner, amico intimo dei maggiori finanzieri con i quali continua ad intrattenere i migliori rapporti. Del resto, tutti gli uomini di Obama sono legati a vecchi apparati di potere.
Se mi si consente una digressione, è come quando già negli anni trenta Berle e Means scrivevano delle grandi corporation come di società “democratiche” con decine di migliaia di proprietari (azionisti). Poi, si è visto benissimo che tale democrazia nascondeva due fatti molto precisi: a) bastava che un gruppo avesse una piccola quota azionaria (il 10 o perfino il 5%) per controllare un’impresa al 100%, perché i piccoli azionisti – salvo che in film simpatici ma bugiardi come Una cadillac tutta d’oro, e salvo che nel “cervellino” di tipi come Grillo – non contano un c…..; b) non vi era a volte nemmeno il gruppo proprietario di questo 5-10%, e il controllo completo spettava al management (da cui le ben note tesi di Burnham sulla rivoluzione manageriale).
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Vogliamo fare un altro esempio? Un’azienda, aiutata politicamente da chi se ne serve come testa di ponte per varie influenze in sede internazionale (alludo a qualcuno? Certo che alludo) emette magari un prestito obbligazionario per 5 miliardi (di dollari o euro o yen, non c’interessa). Un milione di persone sottoscrive 1000 unità monetarie, a testa. Gli altri 4 miliardi sono sottoscritti tramite banche da vari gruppi che costituiscono una rete complicata, di cui non è facile trovare il bandolo. I creduloni metteranno in luce la “democraticità” dell’operazione che ha un milione di creditori, i quali non contano in realtà un bel nulla. Così pure, i milioni di votanti (e sottoscrittori di 10 o 100 dollari a testa) per Obama non contano nulla fra i “creditori” della “grande Spa” rappresentata dagli Stati Uniti. Sono ben altri i gruppi che imperversano. Non solo per aver fornito la stragrande parte delle somme spese per la campagna elettorale obamiana (e di cui quelle indicate pubblicamente sono solo la “punta dell’iceberg”); non siamo così scioccamente economicisti. Hanno reale influenza i vari gruppi di pressione che si battono per imporre determinati orientamenti all’azione del governo statunitense; ogni gruppo riterrà il suo orientamento il più opportuno in quella data fase storica, e il successo prevalente (o meno) dell’uno o dell’altro “produrrà” alla fine la strategia effettivamente seguita, che sarà una sorta di “vettore di composizione delle forze” in conflitto.
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Il cambiamento di politica statunitense – dalla violenta esposizione della forza ad un più vellutato aggiramento di posizioni – è intanto meno marcato di quanto viene propagandato. Stava di fatto passando sotto silenzio stampa (vergogna per questi luridi servitorelli! Solo poche notizie sull’Ansa) l’ultima strage di civili compiuta in Afghanistan. Solo che adesso Karzai (ambiguo e che desta sospetti negli Usa per certi “colloqui” con i russi) ha protestato. Per di più, lo stesso, assieme al presidente pakistano, è andato a Washington per meglio definire le nuove mosse da compiere in quella zona asiatica. Così alla strage è stata data infine un minimo di pubblicità. “Il Re (Obama) è nudo”, ma solo per chi non vuol farsi ingannare. Lascio perdere la bambina ammazzata dai nostri soldati. Il problema non è quello degli “incidenti”; il vero fatto è che la strategia americana è stata solo rivista per il minimo indispensabile; e anche i loro servitori europei (nella Nato) seguono passivamente le “serpentesche spire obamiane”. Abbiamo detto sopra: vi è un cambiamento di strategia se guardiamo ad alcune forme di manifestazione della politica, solo di tattica se consideriamo il fine che è sempre il medesimo.
Il fine resta la supremazia “imperiale”, che tuttavia è oggi ostacolata da un certo numero di potenze in rafforzamento (malgrado risentano anch’esse della crisi in corso). E’ dunque ovvio che il cambiamento (tattico o strategico) non coinvolge il “tutto”. Parti importanti della politica americana restano fondate sulla violenza militare; le attuali manovre Nato – di fatto un sostegno alla Georgia (dove si è svolto un fantomatico “colpo di Stato” assai simile ad una “bolla di sapone”, almeno per il momento) – sono un’ulteriore dimostrazione di quanto i mutamenti “strategici” della nuova Amministrazione americana siano sostanzialmente di facciata. Dichiarazioni di disponibilità verso l’Iran, non seguite da nessuna effettiva mossa di ripensamento rispetto ai diktat del passato. Strette di mano a Chavez, anche qui non seguite da nulla che vada oltre il sorriso a pieni denti. Aperture puramente verbali per quanto concerne la possibilità di discutere con la Russia dello scudo missilistico, da mettere nei paesi europei confinanti con la nuova potenza. E via dicendo. Solo la stampa europea, imbeccata dalla classe dirigente economica e politica di un’area ormai vergognosamente allo sbando (quella italiana degna di particolare menzione), sta facendo propaganda sfrenata, con la sinistra in testa, a questo Presidente la cui novità, rispetto ai precedenti, è vieppiù confinata alla sola epidermide. Il colore è diverso, la mentalità e l’appoggio ricevuto dai più potenti gruppi capitalistici (ivi compresi quelli finanziari) sono gli stessi.
Eppure, è bastato che la crisi costringesse ad interventi “pubblici” massicci per cercare di salvare il salvabile (sembra che tali finanziamenti siano di molto inferiori comunque al valore complessivo dei cosiddetti asset tossici) per far gridare i residui “keynesiani” ad una strepitosa (e definitiva)
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vittoria sul neoliberismo. Ancor più dementi i social forum, no-global, altermondialisti e “cianfrusaglie” simili, che “sbrodolano” addirittura circa la resa del capitalismo, poiché hanno sempre confuso quest’ultimo con il neoliberismo. Evidentemente, qualcuno privo di buon senso pensa che Keynes fosse un pericoloso sovversivo anticapitalista. Oso affermare che, per nostra fortuna, si trattava invece di uno studioso di grande serietà (non discuto nemmeno, è ovvio, la sua genialità e preparazione “professionale”), la cui opera teorica ha messo nel sacco presuntuosi “rivoluzionari da camera”. Liberismo e keynesismo sono due correnti filo-capitalistiche, che si alternano – in opposizione antitetico-polare – nell’ordinaria amministrazione della formazione sociale (quella dei funzionari del capitale) in fasi diverse (mono o invece policentriche) di quest’ultima.
Parlo di ordinaria amministrazione poiché anche le crisi economiche – perfino quelle del 1907 e 1929 – non fuoriescono dal quadro di tale ordinarietà come credono appunto quelli che confondono ancora il capitalismo con la sua fase monocentrica (in cui una formazione particolare fa da centro regolatore del sistema complessivo), mentre quella policentrica diventa sempre, pur in forme mutate rispetto al primo novecento, un ultimo stadio che prelude alla morte del capitalismo (o ad opera della fantomatica “rivoluzione proletaria mondiale”, oggi in disuso, o per movimenti e masse “scatenate” solo nel cervello degli altermondialisti et similia).
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Le spese statali (l’“intervento pubblico”) hanno connotati diversi: sia a seconda delle sopra citate diverse fasi attraversate dal capitalismo, sia tenendo conto di quali formazioni particolari le effettuano con scopi assai differenti. Ad esempio, l’alta spesa pubblica del neoliberista Reagan – con i “keynesiani” convinti di essere ancora almeno moralmente vincitori, poiché credevano erroneamente si continuasse a seguire i loro precetti – era invece finalizzata alla potenza in un momento di particolare, e ultimo, sforzo per approfittare dell’ormai vicina e palpabile sconfitta dell’Urss e del “campo socialista”. Non c’entrava nulla con il Welfare e con la credenza che lo Stato sia in grado di regolare l’economia ed evitare le crisi. La forte autonomizzazione della finanza, con tutti i dissesti infine manifestatisi nell’attuale congiuntura, è stata anch’essa il risultato della necessità di ingenti mezzi (in un sistema mercantile sempre espressi, in ultima analisi, nel segno monetario) da dedicare al disegno “imperiale” che gli Usa, nel decennio seguente alla fine del “socialismo” e dell’Unione Sovietica, hanno creduto ormai a portata di mano.
Anche adesso, non si creda ad un vero cambiamento di segno dei forti impegni di spesa “pubblica” presi dalla nuova Amministrazione americana. Si sono salvate banche, si sono promessi sussidi per alleviare disagi e malcontenti. Soprattutto però si stanno impiegando ancora forti risorse per operazioni militari (tipo Afghanistan) e di minaccia e ricatto (manovre Nato e altre), per effettuare sottili (si fa per dire!) penetrazioni in zone chiave in svariate parti del mondo, per ridurre ancor più in sudditanza i vecchi e fedeli servi europei (vedi appoggio alla Fiat, che è solo l’ultimo e più appariscente fatto del genere) sia al fine di contenere le potenze “ad est” sia per scaricare su di essi i costi della crisi. Chi blatera sugli Stati Uniti in ginocchio (magari per gli “asset tossici”) si illude o vuol illudere. Tale paese ha modificato la propria strategia (tattica) e sta operando con maggior vigore di prima; e sempre a tutto campo. Questa è la “spesa pubblica” del paese ancora preminente, pur se non più “imperiale”. La rivincita dei “keynesiani” sui neoliberisti sta solo nelle mistificazioni, consapevoli o inconsapevoli, di coloro che fanno da paravento alle operazioni statunitensi.
Non si esce da questa crisi con gli Stiglitz o con i Krugman, e via dicendo: semplici ideologi di una delle due correnti di pensiero della formazione dei funzionari del capitale. Se ne uscirà – e ancora non è chiaro di che tipo di crisi si tratti; propendo per la versione tendenzialmente “stagnante”, tipica delle “grandi trasformazioni” precedenti l’aperto e schietto policentrismo con il suo più acuto conflitto e “resa dei conti” – con i “nuovi” metodi statunitensi e con quelli della Russia e Cina che, pur diverse tra loro, sembrano preannunciare una differente formazione sociale. Niente Welfare, maggior presenza invece di quello che definiamo Stato, con una drastica semplificazione termino-
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logica corrispondente a quella concettuale, ancor più rozza e mistificante. Il Welfare State non è né lo Stato Usa né quello esistente “ad est”, ma più semplicemente corrisponde alla funzione “pubblica” svolta dalla sfera politica in società capitalistiche guidate da agenti subdominanti all’interno di un “campo” (quello detto “occidentale” o, con ancor più bieca ideologia, “mondo libero”) che, per circa mezzo secolo, fu subordinato ad un centro tutto sommato regolatore, costituito dal paese in mano ai predominanti funzionari del capitale.
Caduto “l’altro campo” (ideologicamente considerato socialista), gli Usa hanno per dieci-quindici anni tentato di estendere all’intero globo il loro predominio monocentrico (ecco che cos’era la “bufala” della globalizzazione, per glorificare la quale si è tentato di “arruolare” perfino Marx in una di quelle rénaissances condotte da ideologi di particolare disonestà intellettuale). Non siamo ancora usciti completamente da questa fase, ma sembra proprio che siamo in uscita verso il multipolarismo (non ancora il policentrismo, con la sua più aperta contesa tra potenze: da qui le mie perplessità sulla gravità effettiva della crisi in atto). In ogni caso, il tentativo “imperiale” degli Usa è al presente fallito, pur se tale paese sta tentando di riproporlo per altra via; e coloro che cianciano di definitivo declino degli Usa o addirittura del capitalismo tout court – identificato, appunto, con il mero neoliberismo – sono o complici consapevoli o superficiali in buona fede. Si può attendere un pochino – non però molto ancora – per sciogliere l’“enigma”. Chi è in buona fede farà presto autocritica; altrimenti, sarà semplicemente un servo prezzolato dei subdominanti italiani (ed europei) sempre agli ordini dei predominanti americani.
Occorre compiere un ulteriore passo, forse più complesso e teorico, riguardante la “questione nazionale”. Ci rifletterò ancora un po’ sopra; per oggi è sufficiente quanto detto.
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