CHI HA IL CANCRO? di G.P.

(a proposito delle critiche del Prof. Pagliarone) 

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Il capitalismo ha il cancro (ormai da qualche secolo, oserei aggiungere). Con questa affermazione, un certo prof. Pagliarone pretende di ripulire il campo dagli ammassi ideologici altrui, ergendosi a gran demolitore dei luoghi comuni e delle fuoriuscite, non autorizzate, dalle leggi imperiture del marxismo economicistico. Così, imbracciando la scure del vendicatore dell’ortodossia, si scaglia contro la Turchetto e La Grassa, entrambi rei di aver azzardato interpretazioni, sulla crisi finanziaria, discostantisi dai bollettini ufficiali diramati dai sacerdoti dell’apocalisse sistemica.

 La cosa incredibile è che questo signore, dopo aver dato della incompetente alla Turchetto e dell’invasato a La Grassa (non ha usato esplicitamente tali epiteti ma nella sostanza voleva intendere ciò) ci propone una interpretazione nuovissima ed una teoria copernicana dell’imminente fine del capitalismo che avrà, più o meno, “centomila anni”. Davvero non ci sono paragoni con le “litanie leniniste” che il sunnominato sente ripetere da dieci lustri almeno. Ma quali banche! Quali responsabilità delle istituzioni finanziarie! Quali Stati! Quale incidenza del policentrismo! Sono le “dinamiche in atto” che squassano il mondo (questi sono i soliti logaritmi gialli, come li definiva Marx, con i quali il prof. Pagliarone vorrebbe farci ripiombare nell’ottocento).

Benissimo, cerchiamo allora di sciogliere cotante dinamiche, al fine di individuare l’origine delle forze che le provocano. Qui ci imbattiamo nella grande scoperta del prof. Pagliarone, “inattesa” quanto la pioggia scrosciante durante l’estate boreale: “la caduta tendenziale del saggio di profitto”. Sono “secoli” che il saggio di profitto tende a cadere mentre i nostri amici pseudo-marxisti aspettano che il cadavere del capitalismo gli passi accanto. Per restare nell’ambito delle interpretazioni deterministiche, così care ai residuati ideologici “fu comunisti” che hanno smesso di pensare da un bel pezzo (si può ancora parlare di “leggi” economiche, quantunque definite tendenziali, se il loro grado di prevedibilità dei fenomeni sociali è pari a zero? Che ce ne facciamo di una legalità così indefinita che agisce alla stregua di una profezia? Non si tratta di un altro inganno per alimentare sogni ed illusioni che, come diceva Lenin, sono la sorte dei deboli?), come non annoverare anche quella relativa alla concentrazione e centralizzazione dei capitali.

Anche qui ci si arrovella sul solo versante economico della questione travisando completamente il pensiero di Marx. Come sostiene La Grassa, non si capirà mai nulla della centralizzazione “…se non si fa riferimento al lavoratore collettivo e alla posizione ormai sostanzialmente parassitaria occupata dal capitalista (proprietario di azioni e “tagliatore di cedole”). La centralizzazione non è fatto economico esattamente come il capitale non è cosa ma rapporto sociale. Chi parla di centralizzazione en économiste non riesce proprio a capire il processo mentale di Marx, la sua vera rivoluzione che ha aperto alla conoscenza scientifica, per dirla con Althusser, il Continente Storia. In definitiva, il monopolio – di cui Marx parla nel passo sopra citato del cap. XXIV de Il Capitale – non è nemmeno il tendenziale formarsi (secondo le tesi ultraimperialistiche di Kautsky, accettate nel marxismo ridotto a dottrina antiscientifica perché dogmatica) dell’unico trust mondiale”. Ma nel momento in cui il lavoratore collettivo associato, dall’ingegnere all’ultimo giornaliero, non si forma nell’ambito del processo produttivo, decade tutta la teoria che individua in questa alleanza naturale il soggetto del passaggio intermodale da una formazione sociale (quella capitalistica) all’altra (quella comunistica). In più, la proprietà non diviene affatto parassitaria ma, anzi, continua a detenere una funzione attiva tanto nel controllo della produzione che nell’espletazione delle strategie conflittuali per primeggiare sugli omologhi concorrenti.

Questi temi, evidentemente, non sfiorano nemmeno Pagliarone il quale trova un abominio tentare di spiegare la crisi in atto come un fatto non soltanto economico. E se, invece, alla base di queste ripetute crisi ci fosse un sommovimento geopolitico che scuote ogni sfera sociale a causa di una riarticolazione dei rapporti di forza tra dominanti? Tale ri-articolazione della formazione globale capitalistica, nella sua segmentazione spaziale (ormai sotto gli occhi di tutti) è un’assurdità solo per Pagliarone che pensa il capitalismo come una astrazione totale. Ma quanto hanno in comune, per esempio, il capitalismo russo o cinese con quello americano ed occidentale in genere?

Mi sembra che, alla fine, le uniche banalità siano quelle dette da Pagliarone il quale si limita a dare voce alle stesse profezie di sempre, puntualmente disattese dalla Storia.