CHIACCHIERE ITALIANE E DISTINTIVO AMERICANO
Un tempo i rivoluzionari erano barbuti e trasandati e non sbarbatelli casual con la lingua lunga e la vista corta. Inoltre, i rinnovatori del mondo, visionari dentro o fuori il capitalismo (perché i modernizzatori stanno anche nel sistema), rischiavano in proprio rimettendoci salute, affetti e patrimoni. Oggi l’idealista si fa bello con i quattrini altrui, che se non finiscono nella cattiva causa finiscono direttamente nelle sue tasche, e con le spalle coperte dai prepotenti. Siamo al punto che un commercialista canadese può farci la morale sui difetti degli apparati nazionali che mettono in ceppi la libera iniziativa ed impediscono di fare affari al solo fine di nascondere altre e più basse preoccupazioni. Quest’ultime nulla hanno a che fare con lo sviluppo e la crescita dell’impresa e dell’ambiente circostante, ma tanto hanno a che vedere con gli affaracci suoi e con quelli dei suoi padroni nordamericani. Per la stampa, per la politica e per gli analisti di mezzo mondo, Sergio Marchionne è l’uomo che ha impresso una svolta alle relazioni industriali di questo paese, rompendo gli schemi padronali e sindacali e portando la Fiat al centro della globalizzazione. Peccato che dopo le critiche roventi non vengano mai le fatidiche sette camicie sudate, ed alle buone intenzioni sbandierate non seguano mai i risultati promessi. Marchionne starà pur lasciando l’Italia agli italiani ridotti a straccioni ma di mollare il bottino statale proprio non ne vuole sapere. Nonostante egli affermi che il Lingotto sia ormai fuori dai circuiti assistiti dal pubblico continua a succhiare sangue ai contribuenti, anche per impianti che saranno dismessi. Dalle parti di Torino si parla molto di ripartenze e di riprese per recuperare il terreno perduto sui mercati ed effettivamente qualche movimento si è intravisto. Ma niente che si metta in moto ed assomigli lontanamente a qualcosa che si sposti su quattro ruote. Scissioni aziendali, operazioni sui conti, improbabili coalizioni, giochini finanziari, liti con le parti sociali ma ancora zero prodotti e scarsa attenzione al core business che resterebbe, fino a cambiamento dichiarato dello scopo aziendale, la produzione di macchine. Così mentre le piazze e le agenzie di rating continuano a bocciare Torino, Marchionne prosegue nella sua sterzata verso l’America ma con i soldi dei connazionali. L’unica certezza sono le sue stock options che vanno a pieni giri, sospinte dall’illusione dell’alleanza con Chrysler. Restano invece fermi in box immaginari i nuovi modelli annunciati e mai realizzati. Ma i versamenti dello Stato, dell’Europa e delle amministrazioni locali dove Fiat si è insediata arrivano puntualmente alla velocità delle fuoriserie, come riportato in un articolo de Il Fatto Quotidiano a firma di Giorgio Meletti (http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/marpionne-mani-bucate-lad-della-fiat-disse-non-abbiamo-mai-chiesto-aiuti-e-con-30471.htm). L’Italia, come dice Marchionne, sarà pure una nazione col motore ingrippato ma alla Fiat conoscono solo le partenze in quarta a parole e le retromarce industriali e commerciali nei fatti concreti. Lui non è l’uomo della trasformazione ma piuttosto un mutante che parla italiano dietro un distintivo americano.