“CIVILTA’” E “BARBARIE”
Il congresso di fusione di due forze in una, il Pdl, si è concluso. Se alla lunga riuscirà o meno non lo so; è indubbio che al momento sembra un gran calderone in cui cuoce un minestrone di verdure indigeste. Non è però per nulla interessante dedicarsi alle profezie sulla sua buona o cattiva cottura; è un esercizio da sinistra, una sinistra che è ormai un morto che cammina, che potrà magari ancora azzannare, ma che andrebbe proprio per questo portata all’estinzione. E’ le mort qui saisit le vif; dovrebbe essere seppellita senza onori, senza lapidi sulla sua tomba per essere presto dimenticata. Una simile soluzione rappresenterebbe l’unica salvezza e la ripresa immediata della storia; ma è inutile sperarci, i tempi saranno più lunghi e quindi tormentosi.
Non mi sono preso la briga di leggere attentamente i discorsi di Berlusconi e di Fini: solo una piccola parte (si e no il 15-20% del discorso principale, scampoli dell’altro) e mi sono già annoiato abbastanza. Quello che conta sono le intenzioni, non sempre chiaramente espresse (a mio avviso), ma comunque sufficientemente decifrabili nel loro impianto di fondo. A me infatti interessavano solo le linee più generali. Il leader, al momento incontrastato, del centro-destra compie la sua netta scelta di politica estera in senso filoamericano e filoisraeliano. Non si tratta d’altronde di una novità, è quello che ha sempre fatto. Non credo quindi che tale impostazione abbia riflessi su un atteggiamento che non si porrà neppure in netto contrasto con la Russia, che appoggerà una certa strategia di alcune nostre grandi imprese di punta tipo l’Eni, ecc. Nemmeno dovrebbe essere messa in discussione una qualche politica di vicinanza con settori (moderati però) del mondo arabo. Tuttavia, la cifra più significativa resterà quella della stretta alleanza, in realtà sostanziale sudditanza, rispetto ai “campioni del mondo libero”, cioè ai prepotenti che fino ad ieri tentavano il disegno apertamente “imperiale” mentre oggi, tatticamente, ripiegano su politiche più subdole e di “ritirata strategica”, ma per prepararsi meglio a riprendere in futuro il loro progetto – che ritengo fallirà comunque nel medio periodo – soprattutto quando sarà passata la fase più acuta della buriana rappresentata dall’attuale crisi.
In politica interna, si parla – con molta enfasi e sovraccaricando i toni – di rivoluzione liberale (e ovviamente “democratica”, secondo i canoni di democrazia già da me accennati recentemente in Democrazia, ma quale?). Si capisce che, in realtà, s’insiste sul liberismo, sul mercato quale luogo di tutte le virtù (liberali), quindi sul fare sanguigno (e per nulla etico come si predica solo per mascheratura ideologica in questa fase di crisi) di chi fa della propria vita un radicale e totalmente prendente impegno di intrapresa privata. Dove privato significa semplicemente individuale (anche di un piccolo gruppo di vertice) senza reale riferimento alla stolta divisione tra “pubblico” e “privato” dell’ormai antiquata e superata sinistra. Tanto per far nomi, Scaroni e Guarguaglini (con i loro più stretti collaboratori) sono due tipici intraprendenti privati nell’accezione berlusconiana. Lo sono assai più di un Marchionne per non parlare di un Montezemolo. Eppure, è evidente che il premier vuol premiare anche individui di questo secondo tipo, appartenenti al nocciolo duro della GFeID, concedendo loro l’ultima opportunità di un compromesso onorevole, che porterà, compatibilmente con i tempi di crisi finché questi dureranno, nuovi finanziamenti ai “decotti” e parassiti. La sensazione è che il compromesso sia già accettato – non mi sembra però con slancio; invece con parecchie riserve – dal nuovo presidente di Confindustria. Fino a quando l’avventura del Pdl andrà bene, un simile compromesso reggerà in ogni caso.
Noi siamo contrari al filo-americanismo – non per preconcetto e “aristocratico” antiamericanismo, ma per ragioni geopolitiche inerenti alla preferenza accordata ad una situazione di multipolarismo ritenuta assai più favorevole, nel medio periodo, ai “nostri” interessi (di paese) – e critici radicali del liberismo, senza però alcuna propensione per il reazionario statalismo (detto spesso “keynesismo”, magari con l’aggiunta di “sociale”) della sinistra, ancorata all’altro secolo. Ci sono piccoli gruppi di imbecilli (e spesso pure peggio) – infiltrati sia nella sinistra che nella destra dette “radica-
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li” – che addirittura predicano il ritorno a due secoli fa, al periodo antecedente la “crisi dei fondamenti” a cavallo tra otto e novecento. Costoro, ci consentiamo di insultarli talvolta (solo perché è difficile immaginare un reazionarismo più stupido e cialtronesco di questo), ma di fatto li ignoriamo come residui e “pigne secche”, che nascono soprattutto (non solo) in un paese come l’Italia, sempre in arretrato quanto a “rivoluzione scientifica” (è incredibile, essendo il paese di Galileo, ma è tristemente così).
La vera sinistra, quella che tenta ancora di contare, non è così gretta, non arretra addirittura di due secoli. Di oltre mezzo secolo però purtroppo si. Si è opposta per decenni – parlo almeno del nucleo più grosso che forma questa sinistra – alla “civiltà occidentale”, all’area il cui sviluppo fu subordinato alla guerra (fredda) tra “due campi” (uno presunto socialista e guidato da altrettanto presunti comunisti), con inserimento dell’Italia in quello dominato politicamente (e militarmente) dagli Usa, e da essi comunque coordinato come sempre avviene in una fase storica monocentrica. Quando tale “campo”, in definitiva gli Stati Uniti, vinse “la partita”, questa parte della sinistra tentò di tutto – tra rinnegamenti, svendite all’avversario, offerta di divenire il miglior personale politico del capitalismo arretrato italiano (si sarà, spero, capito che cos’è stata la truffaldina operazione mani pulite e da chi fu diretta) – per divenire egemone. Sembrava quasi esserci riuscita, grazie al nostro capitalismo (non più “straccione”, ma certo un po’ antiquato) e alla nostra cultura di fondo, detta “umanistica” e in realtà solo incapace di rinnovamento e ammodernamento; alla fine, tuttavia, i suoi limiti e la sua decrepitezza, il suo essersi ormai posta fuori della storia, hanno preso il sopravvento.
Appartengo alla generazione che si è fatta più solidamente le ossa negli anni ’50 e ’60 (e parte dei ’70, per quanto detti “anni di piombo”) del secolo scorso. Dal punto di vista della mia individuale mentalità, quello odierno non è più il mio mondo. Sono però ancora in grado di rendermi conto che si tratta di un orientamento generazionale. Malgrado questa consapevolezza, sono egualmente convinto che quel mondo, di un tempo trascorso, fosse più “colto e civile”, mentre oggi ci sono aspetti di barbarie o almeno di decadenza culturale e di crollo dell’ “educazione civica”. Tuttavia, pur se avessi ragione – e penso di aver ragione – in tale giudizio, sono altrettanto convinto che questo sia un periodo di cesura e trapasso a tutt’altra epoca, su cui non posso fare il profeta ma che credo sarà di ripresa e culturale e di civiltà. Il passato, comunque, è irrimediabilmente trascorso e “non macinerà più”. Ritengo negativo che molti giovani non sappiano nulla di quel passato, perché è indispensabile conoscere da dove si proviene. Tuttavia, a quei pochi anche capaci di “voltarsi indietro”, ho sempre suggerito di rigirare poi la testa in avanti e di sforzarsi di comprendere, in alcuni tratti del presente, i possibili sviluppi per il prossimo futuro (non mai secoli o tempi lunghissimi).
Quello che mi ha sempre scatenato l’ira più incontenibile, in questi anni, è stato lo stupido antiberlusconismo in quanto disprezzo verso lo spirito “da bottegai” (alcuni dicevano “da nord-est”). Lasciamo stare i dubbi che ho su molti di quelli che avanzano simili critiche, quelli che ho spesso definito “semicolti” e presunti “progressisti”. Il vero fatto è che nemmeno a me piacciono le banda-ne, i frizzi e lazzi, le spiritosaggini grossolane, insomma l’atteggiamento poco serio di un capo di governo. Non sono però disposto a fermarmi lì; nemmeno accetto che, con la scusa di un fascismo del tutto inesistente e accampato da laidi e debosciati antifascisti (antitetici all’antifascismo che ho conosciuto da giovane), ci si dediche alle barzellette o alle accuse infamanti senza un minimo di trattazione delle questioni politiche vere e proprie. I girotondini, i nani e ballerini dell’(avan)spettacolo di sinistra, i registi che fanno la vergogna del cinema italiano, i puri demagoghi alla Grillo o alla Di Pietro, ecc. sono peggiori del peggiore berlusconismo, sono il vero “sonno della ragione”, farfalloni superficiali, arroganti e presuntuosi. Ma anche certi uomini di cultura, probabilmente vera, sono ormai del tutto sorpassati, non comprendono che, anche questa fosse vera epoca “barbarica”, si tratta comunque di transizione ad “altro” che dobbiamo sforzarci di comprendere, senza disperatamente tentare di fermare un processo ormai “lanciato”. Sappiamo bene che i “barbari” sono spesso una cesura che riapre una nuova fase di sviluppo (non solo economico e definito, da chi ci sguazza agiatamente in mezzo, “volgarmente materiale”).
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Uno dei punti centrali, in cui si constata la totale incapacità di questi ritardatari di comprendere il presente, è la soddisfazione provata di fronte all’attuale crisi che essi considerano, puramente e semplicemente, il fallimento del neoliberismo e la rivincita dello statalismo, del “pubblico”; con una visione antiquata dello Stato in quanto gestore degli affari generali dell’intera società, quale re-distributore di ricchezza e addetto a fornire assistenza sociale ai più deboli. Non intendo adesso discutere – del resto l’ho già fatto altre volte, e non poche, anche in libri e non solo nel blog e sito – le misure prese dalle varie Autorità (interne e internazionali) dell’economia, dai vari G7 o 8 o 20, ecc. Non le ritengo congrue, in generale, poiché basate sulla credenza, comune a liberisti e keynesiani, che i problemi nascano dal lato della domanda e che, comunque, la crisi sia esclusivamente un fenomeno economico, in particolare finanziario. Lasciamo qui perdere tale questione, che andrà comunque ripresa con sempre maggior forza e frequenza.
Le decisioni prese finora, al di là appunto di alcune che vorrebbero tonificare la domanda, si sono risolte in salvataggio di imprese finanziarie con sempre più massicce iniezioni di liquidità oppure in interventi nella loro gestione, perfino cambiando il management (adesso anche in imprese industriali; si vedano gli ultimi allontanamenti degli ad della GM e della Peugeot). Non si ha ancora il coraggio di arrivare a vere e proprie nazionalizzazioni. In ogni caso, queste ultime, se volessero avere un qualche significato, dovrebbero configurarsi quali interventi statali non per preservare supposti interessi generali con misure a pioggia e di Welfare, bensì per imprimere tutt’altro slancio e dinamismo all’apparato manageriale imprenditoriale, in specie al più alto livello, quello effettivamente addetto alle strategie. Qual è invece la mentalità della sinistra statalista, detta non so perché “keynesiana”? Quella del puro assistenzialismo.
Lasciamo perdere che ormai da troppo tempo, non solo ma soprattutto in Italia (in specie dopo mani pulite), l’assistenzialismo di questa sinistra si è largamente rivolto alle imprese di passate stagioni innovative più che ai lavoratori o ai “soggetti” in quanto consumatori. Tuttavia, l’idea è sempre quella della sostanziale elemosina. Basti pensare all’ultima proposta del Pd circa l’assegno ai disoccupati. Tanto vale creare spacci in cui i disoccupati vanno con la loro gavetta a prendersi un po’ di cibo (come abbiamo visto in molti film americani degli anni ’30, ambientati nel periodo della grande depressione). In Italia, abbiamo l’organizzazione capillare della Chiesa che potrebbe assolvere questo compito. Abituare la gente al riposo prolungato – per quanto obbligato in questo critico periodo – dandole un semplice minimo di sopravvivenza, non può che creare l’abitudine ad una sorta di mendicare generalizzato. Quanto meno, si dovrebbe stabilire con precisione che tali aiuti vanno a chi non ha più la possibilità di rientrare al lavoro, con limiti temporali per gli altri e togliendo loro immediatamente ogni sussidio se non accettano un qualsiasi lavoro e fanno gli schizzinosi.
Il vero fatto è che la mentalità “socialdemocratica” è quella dell’assistenza “dalla culla alla tomba”, così come si faceva (ma ora non più tanto nemmeno lì) nei paesi euronordici; esperienza che in ogni caso, malgrado tante chiacchiere, non si è mai riusciti a diffondere altrove. Inoltre, non ci si vuol convincere che un certo “modo di sviluppo”, sufficientemente regolato e solo interrotto da brevi recessioni, è tipico di un periodo fortemente monocentrico come quello avutosi nell’occidente capitalistico avanzato per buoni sessant’anni, grazie anche alla struttura bipolare di quella fase storica: una struttura che ci si è esentati dall’analizzare compiutamente grazie alla credenza ideologica che si trattasse del confronto tra capitalismo e “socialismo”. Come ci si è impigriti nell’interpretazione della risoluzione della crisi del ’29 mediante il New Deal – solo ora, finalmente, si mette in luce come la vera “cura” sia stata la seconda guerra mondiale; e non per la presunta, dai keynesian-marxisti, spesa militare a sostegno della domanda, ma precisamente perché aveva portato al monocentrismo regolatore nel campo capitalistico – così si è pensato che fosse sufficiente alimentare la domanda con assistenzialismo generalizzato per dare vita ad un’epoca di ormai stabile prosperità, salvo brevissime interruzioni.
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Finalmente, i nodi arrivano al pettine. E non semplicemente per la crisi economica attuale – che sia grave o meno grave è qualcosa che certo potrebbe riguardare drammaticamente la vita dei singoli appartenenti ad almeno i tre quarti della popolazione nei paesi avanzati e a quote ben maggiori in quelli meno favoriti – ma soprattutto perché è facile scommettere sull’entrata in una abbastanza lunga epoca di sviluppi stentati e brevi, e di più prolungate stagnazioni, salvo che per quanto concerne alcune potenze (formazioni particolari) in crescita, che comunque, assai probabilmente, non conosceranno tassi di sviluppo così alti come in passato.
Non si potrà mantenere più nessuno “dalla culla alla tomba”, a meno che la vita non si accorci drasticamente, fenomeno che richiederebbe un verticale incremento della disposizione al suicidio. A parte gli scherzi, è evidente che non tanto l’attuale crisi quanto la ben più lunga e complicata fase legata al multipolarismo insegnerà comportamenti assai diversi da quelli degli ultimi sessant’anni. L’ormai conclamato “ritorno delle nazioni” comporterà ampi interventi dello Stato. Non però in nome del falso e ideologico “interesse pubblico”, presunto generale in quanto si ciancia di “socialità” degli interventi statali, che è invece soltanto mero assistenzialismo: “ufficialmente” verso quelli “restati indietro”, di fatto fornito a molte (grandi) aziende “decotte” puramente salvate e “risanate”, dove il presunto risanamento è solo rinvio del fallimento, con tanti soldini regalati a coloro che le hanno ridotte in quello stato. L’intervento dello Stato potrà (anzi dovrà, dopo un periodo di solide “legnate”) significare soltanto l’azione di un coeso gruppo dirigente (e certo ancora dominante) ai fini dell’elaborazione e applicazione di adeguate strategie fondate sui settori di punta, che sappiano imprimere maggior sviluppo (o minor de-sviluppo, nelle situazioni critiche) con reale effetto di traino rispetto al sistema complessivo.
L’importante è che, nel frattempo, si chiuda l’epoca dell’assistenzialismo impropriamente denominato – sempre con intenti di mascheramento – “Stato sociale” (o, per renderlo ancora più gradevole, Welfare State o anche solo con il primo termine). Basta con simili fanfaluche. Questo Welfare era reso possibile da una configurazione dei rapporti tra paesi avanzati che, per sessant’anni e grazie anche al trovarsi di fronte il campo antagonista presunto affossatore del capitalismo, è stata dominata e regolata dagli Usa; e non semplicemente e non tanto per aver mantenuto il dollaro (non il Bancor keynesiano) quale moneta di riferimento, quanto per la complementarietà, pur non scevra di competizione (ma tutto sommato blanda), tra le diverse formazioni particolari capitalistiche. Quell’epoca è tramontata, ci si decida a prenderne atto. Al di là delle occasioni che offre una situazione multipolare, questo è comunque il mondo che avanza. Continuare con l’ideologia “socialdemocratica”, detta riformista e progressista (e per decenni trattata da politically correct), è ormai la peggiore forma di reazionarismo.
Sia chiaro che nemmeno esiste veramente una destra moderna. In Italia, un Fini fa concorrenza alla sinistra in fatto di “anticaglie”; una Lega popolaresca (e populista) inocula pur sempre elementi di divisione nello Stato, mentre questo dovrebbe finalmente attuare una politica nazionale (non nazionalistica) e non meramente assistenziale. Nel resto d’Europa, la situazione è pur sempre un po’ meno peggiore che da noi, ma le coordinate di fondo sono le medesime. Gli Usa si stanno adattando, tatticamente, alla fase ma certo con una ben maggiore capacità decisionale. La loro politica estera apparentemente schizofrenica, divisa tra la presidenza e il segretariato di Stato (Hillary Clinton), è in realtà, a mio avviso, una politica dei “due forni”, in cui si tenta di cucinare gli avversari, tra aperture e “asprezze” accompagnate da ampi tentativi di corruzione (lo si vede in Afghanistan, negli aiuti dati a Gaza ma tramite la sedicente Autorità nazionale palestinese diretta da veri Quisling, perfino in Iran, dove si cerca di sfruttare qualche ambigua “quinta colonna” interna, al momento poco appariscente). Non credo che certi tentativi riusciranno, perché ci si avvierà sempre più verso una politica di continui parziali accordi, e disfacimento degli stessi, tra il polo ancora preminente e le altre potenze in crescita. Questo il senso e la direzione della fase multipolare verso cui ci si avvia; in modo non lineare e non certo in un batter d’occhio, lo si tenga sempre presente.
Vogliamo opporci, in Italia, all’attuale maggioranza governativa? Va benissimo, ma ormai mandando all’inferno l’attuale “civile e (semi)colta” sinistra. Si tratta di zombi, di un’era che fu. Gli ita-
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liani di sinistra sono talmente arretrati culturalmente che ancora non se ne rendono conto. Sono fermi al secolo scorso, con puntate a duecento anni fa. E’ necessario che vengano spazzati via. Bisogna liberare il campo dai rovi e sterpaglia: si bruci tutto e, con la cenere, si potrà rifertilizzare il terreno e renderlo più sciolto rispetto a com’è oggi, così argilloso e fangoso. I “barbari” sono decisamente più avanti, ma non sembrano porsi all’altezza dei tempi per quel che riguarda una forma di statalismo, che contrasti la pesante, e pur essa antiquata, ideologia neoliberista, senza però cadere nel vieto statalismo dell’epoca monocentrica in “occidente” e del mondo bipolare. Lo Stato deve essere semplicemente rappresentato da una politica decisionista e univoca di un gruppo coeso, scevro da intenti solo assistenzialistici e capace di valorizzare la piena responsabilità individuale, in grado di affermarsi senza spirito di pura sopraffazione, imbroglio, raggiro, ecc. E senza arrivare alle forme novecentesche del nazionalismo più acceso, che sappiamo bene dove portano.
In ogni caso, stiamo entrando in un nuovo mondo; e ne sappiamo ancora molto poco, salvo che non prelude ad alcuna società di livellamento e di falsa eguaglianza, che comporta sempre la deresponsabilizzazione delle maggioranze e l’emergere di pochi “furbi”. Meritocrazia e spirito di competizione a iosa; combattendo le prepotenze e le semplici aggressioni. Si prenda comunque atto che, quanto prima ci si congederà dalla mentalità di “sinistra” – di qualsiasi “sinistra” – tanto prima si sarà in grado di affrontare con mezzi idonei una fase storica dura e complicata, ma che è quella in cui dovranno vivere le nuove generazioni; chi non se ne renderà presto conto, alla fine soccomberà.
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