COL TURISMO E CON LE PICCOLE IMPRESE NON SI VA DA NESSUNA PARTE
I liberali frignano per le stupide libertà perdute, quelle più insignificanti, e il Governo continua sulla sua linea “conservativa” (per usare un eufemismo), conseguenza di un’assenza di strategia contro la pandemia. Nuovamente “tutti a casa”, mentre la disfatta avanza. Ormai si è capito che se avessero fatto i tamponi a tutti, anziché nascondere la situazione e raccontare balle agli italiani, adesso non saremmo relegati in casa, non avremmo avuto così tanti contagiati e altrettanti poveretti andati al creatore. Hanno sbagliato metodo dal principio ed ora sono costretti a mettere pezze insufficienti in buchi diventati voragini. Che dio ce la mandi buona. È intollerabile però che questo Paese adesso piagnucoli per i mancati guadagni dopo aver, per decenni, esaltato le virtù del “piccolo è bello” e quelle della nazione a vocazione turistica o artistica. Non che questi settori non contino ma non possono diventare elementi centrali nello sviluppo di un Paese. Senza il “resto”, queste “rendite posizionali” diventano fattori di debolezza, soprattutto in presenza di crisi epocali o eventi eccezionali. Parlavano di nicchia i “ninchioni” democratici, lillipuziani nel cervello e grandi solo in balordaggine mentre intorno all’Italietta del sole, del mare e della cultura, crescevano i giganti industriali degli altri Stati. Anzi, noi ci davamo la zappa sui piedi mettendo i bastoni tra le ruote a quelle poche eccellenze, in genere pubbliche, che ancora ci resta(va)no (Eni, Enel o Finmeccanica) con pretesti ecologisti o di altra infingarda specie. Col turismo e le piccole imprese non si tiene in piedi un sistema nel mondo multipolare. Adesso arranchiamo più dei nostri competitori che hanno coltivato i campi dell’industria, della tecnologia e dell’energia, per citarne alcuni. Noi ci raccontavamo favole bucoliche e loro spingevano sull’acceleratore del progresso. Made in Italy? Mad Italy! Qualcuno però lo deve dire, con queste scemenze non si va da nessuna parte.
Quelle che consideravamo opportunità erano frutto di arretratezza. Aver creato certe mode turistiche, gastronomiche, “monumentali” e manifatturiere ha favorito molte degenerazioni dopo i piccoli vantaggi di breve periodo. Si è giunti, trasportati da una ideologia ribassista, al paradosso di credere ad una possibile sostituzione tra produzioni all’avanguardia e processi scarsamente tecnologici e di poter competere con la grande dimensione attraverso tante minuscole unità produttive disperse sui territori. Come ha scritto La Grassa: “Le PMI hanno sopperito alla carenza di grandi gruppi industriali, mettendo però in evidenza i limiti del modello di sviluppo italiano, affetto da ‘piccolismo’ che non è affatto ‘bello’ quando sui mercati internazionali si ha a che fare con giganti meglio equipaggiati, pronti a sbaragliare la concorrenza o a dettare le proprie condizioni a chi sconta dimensioni ridotte”.
In ogni caso, le speculazioni sulla specificità italiana, che non è affatto solo nostra, iniziano a diventare parossistiche. Così in una saggia riflessione: “Il cocktail esplosivo di regionalismo, salutismo e crisi del modello industriale mise in moto la macchina dell’invenzione della tradizione, che in pratica non si fermò più. Gli studi sui singoli prodotti o sulle tradizioni gastronomiche dei più sperduti paesini di montagna, di collina, di pianura, di lago e di mare si moltiplicarono a vista d’occhio…Ogni sindaco, ogni presidente di provincia e ogni governatore di regione voleva il suo piatto tipico, la sua sagra, generalmente antichissima, e la sua associazione per difendere (da chi?) quel determinato prodotto. Furbi imprenditori fiutarono l’affare: la parola d’ordine divenne “eccellenza”. L’Italia si riempì di eccellenze delle quali avevamo ignorato l’esistenza fino a pochi giorni prima e la cui perdita sarebbe stata una tragedia nazionale, o quanto meno regionale, provinciale e comunale. Poi arrivarono le sensibilità ambientali ed economiche e quindi si lanciarono nuove parole d’ordine: “biodiversità”, “lotta alle multinazionali” e finalmente “territorio”. Eccola la parola magica: territorio. Secondo una vulgata ormai di uso comune, l’Italia sarebbe fatta di territori e nemmeno ci si rende conto dell’autoironia che si nasconde dietro questa definizione. Come se la Spagna, la Germania o la Francia, ad esempio, fossero fatte di satelliti o, al contrario, fossero un’unica entità omogenea dal punto di vista culturale e alimentare”. (Denominazione di origine inventata, Alberto Grandi). In verità, parliamo di mercati in cui, nonostante il nome che ci siamo costruiti negli ultimi anni, è facile farsi scavalcare dai competitori o essere sostituiti da altri esportatori altrettanto bravi. Pensate, per esempio, dopo le sanzioni come la Russia abbia provveduto a sostituire i nostri prodotti dop, doc, docg con i propri o con quelli di altri non aderenti alla restrizioni internazionali comminate dall’Occidente.
In tempi caotici come i presenti, con il virus che sta colpendo duramente la nostra economia, i servizi segreti hanno lanciato l’allarme su possibili scalate ai danni di nostre attività di punta. Se ne parla su La Verità di oggi: “[c’è] il rischio di scalate ostili dall’estero ad aziende strategiche italiane. Tra le manovre indagate c’è anche quella di banche che concedono prestiti a società estere per scalare le nostre imprese. Il Comitato starebbe riflettendo se sentire anche i rappresentanti italiani di Deutsche Bank, oltre ai vertici di Unicredit, Generali, Mediobanca, Ubi, Crédit Agricole Italia, Intesa SanPaolo e Mps. I servizi già nella relazione annuale del 2018 avevano sottolineato il fenomeno dell’incunearsi nei consigli d’amministrazione o tra i dirigenti di soggetti infiltrati da Stati esteri. La relazione non indica le nazioni in ballo ma è noto che alcuni Stati hanno un sistema di intelligence economica molto aggressiva…” E noi? Alcuni di noi fanno i liberali col culo degli italiani.
Come affrontano simili problemi i liberali di casa nostra? Come Paolo Becchi su Libero che invoca Montesquieu contro questo governo delle serrate e contro il “tiranno di Palazzo Chigi”, sostenendo che “per contrastare gli abusi di potere [Montesquieu] pensò di dividere il potere. Potere legislativo ed esecutivo dovevano condizionarsi e limitarsi a vicenda”. Peccato che il filosofo francese non volesse limitare il potere tout court (separandolo in tre, comprendendo il giudiziario) ma trovare ”collocazione” ai dominanti dell’epoca (Monarchia, Aristocrazia e Borghesia rampante), lui che era figlio di baroni ma che aveva sposato una neo-nobile. Le sue teorie rispondevano ad una esigenza storica e non ad un palpito del cuore. Il nostro Capo dell’esecutivo non è un despota, semmai è un burattino nelle mani dei marciti dominanti italiani e, soprattutto, di potentati stranieri che vorranno approfittare della situazione per farci ancora più male. Ma un liberale è troppo ingenuo per comprendere questa fase politica, lui spera sempre di essere risollevato da una mano invisibile mentre sta per prendersi in testa un pugno di ferro.