COLONIE (di G. Gabellini)
Quando le menzogne relative alla morte di Salvatore Giuliano si fecero letteralmente colossali, il celeberrimo Tommaso Besozzi commentò il tutto con l'altrettanto celeberrima espressione "Di sicuro c'è soltanto che è morto". Parafrasando tale espressione con specifico riferimento alle "audaci" letture analitiche sciorinate da giornali, telegiornali, eruditi di corte, intellettuali da salotto, "irriducibili antimperialisti", relative all'attuale caos nordafricano, si potrebbe affermare a pieno titolo che di sicuro, c'è soltanto che il 90% di quelli che si sono espressi al riguardo non sa minimamente di cosa sta parlando. Come sempre accade nelle vicende umane, ciò che accade nel presente affonda le radici nel passato, ma la sciagurata e dilagante tendenza a snobbare la Storia fa si che tutto ciò venga ignorato, e che la realtà si analizzi solo ed esclusivamente con le miopi lenti dell'ideologia. Ma lasciando da parte queste miserie e venendo al nocciolo della questione, è bene, in primo luogo, ritornare all'epoca che suggellò il trionfo del colonialismo. Le ragioni che hanno spinto le potenze mondiali a intraprendere avventure coloniali non rientrano in un disegno monolitico, ma sono molteplici, oltre che direttamente connesse alle ideologie e alle linee di pensiero che hanno scosso le società occidentali nell'Ottocento. L'impronta illuminista di un certo tipo di colonialismo si palesò quando furono tirate in ballo motivazioni "umaniste" come l'alfabetizzazione dei "barbari", quella economicista quando i suoi moventi furono rigidamente ancorati all'accaparramento delle ingenti risorse minerarie africane ed asiatiche, quella missionaria quando si propose di estendere il cristianesimo all'intero globo, quella più marcatamente imperialista quando si trattò di soddisfare gli appetiti delle potenze in forte antagonismo reciproco. Il fondamento illuminista del colonialismo fu indubbiamente privilegiato dall'idealista Woodrow Wilson, che si propose, con i suoi "quattordici punti", di creare una comunità internazionale (la cosiddetta "Società Delle Nazioni") che non contasse più colonie ma "mandati" di cui le potenze coloniali fungessero da "tutori" finché non fosse portato a termine il processo di "educazione" delle popolazioni indigene. La verità ignota ai sepolcri imbiancati è che il velo ipocrita gettato da Wilson sulla realtà serviva a null'altro che a celare un contesto ben diverso, in cui le potenze uscite vincitrici dalla Prima Guerra Mondiale – Gran Bretagna in primis – si erano avventate come iene sulle macerie dei paesi sconfitti (si pensi alla disgregazione dell'Impero Ottomano). La brutale ed arbitraria spartizione in aree di influenza produsse però sentimenti ferocemente nazionalisti in seno alle colonie, impersonati da personaggi celebri – come Gandhi e Ho Chi Minh – e meno celebri – come Nehru e Lumumba – che beneficiarono anche del lento ma costante logoramento delle potenze imperiali e delle loro rivalità reciproche per mettere a segno i propri colpi vincenti. Potenze imperiali come il Giappone animarono sentimenti antioccidentali nelle colonie di Birmania e Filippine, mentre l'Italia mussoliniana tese la mano a rivoluzionari antifrancesi come Burghiba e antibritannici come l'indiano Chandra Bose. La Seconda Guerra Mondiale alterò nettamente lo scenario, intaccando pesantemente l'integrità degli imperi coloniali, sia vincenti che perdenti. L'Italia tolse ben presto il disturbo dalla Libia e dal Corno d'Africa, la Francia perse autorevolezza agli occhi delle colonie pagando le diversità di visioni intestine e mostrandosi pertanto disunita, la Gran Bretagna fu costretta a prendere atto del trionfo di Gandhi mentre gli Stati Uniti, dal canto loro, tolsero i picchetti dalle Filippine. Nella determinazione di tale sconquasso giocò un ruolo piuttosto importante anche il fatto che all'ondata "risorgimentale" delle colonie si era giustapposta una simmetrica fioritura, in seno a tutte le nazioni occidentali, di movimenti fortemente solidali con la causa combattuta dai rivoluzionari indipendentisti delle colonie. Tuttavia, il vero nodo della questione risultò l'atteggiamento tenuto dagli Stati Uniti, che pretesero di estendere gli ipocriti principi wilsoniani anche alle colonie. Tale atteggiamento fu motivato dalla volontà americana di ergersi a paese guida del blocco occidentale – vista anche la scelleratezza di un'Europa incapace di badare a se stessa – e dal tutt'altro che secondario timore dell'Unione Sovietica. In sostanza, occorreva appoggiare le fazioni indipendentiste interne alle colonie onde evitare che fosse l'Unione Sovietica a farlo per prima, e che si accattivasse le simpatie delle frange rivoltose così come aveva fatto Lenin in occasione del congresso di Baku del 1920, quando aveva astutamente scelto di convocare i rappresentanti dei "popoli oppressi". Poco dopo la ratifica del Patto Atlantico, il Segretario di Stato Dean Acheson sostenne apertamente le rivendicazioni indipendentiste provenienti dalle colonie, invitando i propri "colleghi" europei ad interrompere l'anacronistica politica coloniale e a riconoscere ai propri sottoposti il diritto all'autodeterminazione. Gran Bretagna e Francia, assai restie a seguire tali "consigli", fecero orecchie da mercante e giunsero a coalizzarsi, assieme ad Israele, per dare una sonora lezione all'incontrollabile colonnello egiziano Giamal Nasser, che aveva avuto l'impudenza di nazionalizzare il Canale di Suez, onde ridimensionare le ambizioni indipendentiste delle colonie e riallineare una volta per tutta l'intera area nordafricana sull'asse Londra – Parigi. Nei giorni a cavallo tra ottobre e novembre del 1956, la coalizione anglofrancese condusse in porto l'operazione militare, ma commise un clamoroso autogol internazionale, poichè l'ONU condannò l'aggressione, i paesi del Commonwealth espressero la propria aperta contrarietà e l'Unione Sovietica minacciò pesanti ritorsioni. Nel frattempo, il Primo Ministro statunitense Dwight Eisenhower, che non l'aveva presa bene, scelse di passare alle maniere forti, disponendo che il Ministero del Tesoro vendesse sterline alla Borsa di New York. Nell'arco di qualche giorno, gli USA erano riusciti ad acquistare ulteriore prestigio internazionale a scapito di un'Unione Sovietica impegnata a reprimere i moti di Budapest, Israele aveva regolato i rapporti di forza con gli ostili paesi arabi circostanti, la Francia si era trovata a fare i conti con un Fronte Nazionale algerino rinfrancato dopo il successo della linea oltranzista tenuta da Nasser e alla Gran Bretagna non era rimasto che raccogliere i cocci dell'impero che fu. In pochissimi anni, tutte le grandi potenze europee dismisero le proprie vesti imperiali. Troppo in fretta. Così come "colonizzare" era stato l'imperativo di fine Ottocento, "decolonizzare" era diventato quello di metà Novecento. Se l'opera di colonizzazione era proceduta a tappe forzate per un trentennio a cavallo tra i due secoli, quella di decolonizzazione avvenne ancor più repentinamente. E la valse per l'Africa in particolare, ove il congedo di Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna e Portogallo produsse nazioni nuove di zecca, come Nigeria, Niger, Ciad, Camerun, Mali, Mozambico, Angola, Capo Verde, Uganda, Madagascar, Somalia, solo per ricordarne disordina
tamente alcune. E' sufficiente posare per un attimo gli occhi su una cartina geografica per comprendere che il problema delle frontiere non fu nemmeno affrontato dai "decolonizzatori", che si limitarono a fare spallucce sobbarcando tale responsabilità interamente sulle spalle degli stati freschi di indipendenza. Differenze etniche e culturali non vennero prese in minima considerazione, specchio della totale mancanza di volontà di intavolare una seria trattativa sull'istituzione di reali confini. Militari e affaristi d'ogni risma – spesso sfornati da scuole ed università europee e americane – furono i primi ad approfittare di tale opportunità per insediarsi quali timonieri di queste nuove nazioni edificate sulla falsariga degli Stati nazionali europei in assenza di alcun tipo di tradizione e infrastruttura paragonabile ad essi. Pittoreschi e spesso caricaturali personaggi – da Bokassa ad Amin, da Kenyatta a Mobutu – si ersero, spesso a "furor di popolo", cosa che farà arrossire gli irriducibili universalisti democratici nostrani, a guide supreme trattando gli Stati come aziende private, accaparrandosi poteri e ricchezze da trasferire in sicuri conti svizzeri o di qualche isola del Pacifico e circondandosi di membri dei propri clan o tribù, concedendo loro tutto ciò che normalmente negano o sottraggono ai non adepti. I problemi non affrontati in sede diplomatica dalle potenze europee furono risolti in altra ben nota sede, e con altrettanto ben noti metodi, direttamente dai popoli. Conflitti fratricidi e guerre civili o di secessione scoppiarono in un batter d'occhio; Hutu contro Tutsi, Biafra contro Nigeria, Katanga contro Congo eccetera eccetera. La lista è infinita. Che conclusioni trarre da tutto ciò? Che la decolonizzazione operata in quella maniera fu probabilmente peggio del colonialismo stesso, che le potenze coloniali non compresero o non vollero comprendere la scelleratezza insita nello sbarazzarsi tanto repentinamente di regioni che avevano tenuto in pugno per decenni pretendendo che queste assumessero le medesime strutture portanti dei moderni Stati nazionali. Affrancatasi dal brutale e spicciolo dominio coloniale esercitato dalle potenze occidentali, l'Africa è istantaneamente diventata un non secondario terreno di scontro della Guerra Fredda prima, e della competizione concorrenziale tra potenze ora. Da allora, non vi è stata guerra, conflitto o colpo di stato in cui non si sia insinuata la manina di qualche governo straniero o potentato economico, con tutti i ben noti "particolari", in termini di corruzione, traffico d'armi e di organi, di contorno. Questo è quanto. Pretendere che le nazioni o i potentati economici antepongano rettitudine morale alla tutela dei propri interessi significa andare contro la Storia, e combattere contro i mulini a vento. Ogni blocco, politico o economico non fa differenza, porta avanti i propri interessi adattandosi al contesto, e il contesto dell'Africa è composto per lo più da nazioni che continuano ad esser trattate come proprietà esclusive dei propri governanti. Questa amara considerazione è resistita nel tempo, e risulta valida ancora oggi, mentre fior fiore di intellettuali continuano a interrogarsi con la faccia compunta di fronte alla "crudeltà", alla "efferatezza" di un Gheddafi che, nonostante tutto, ha fatto per il suo paese molto di più rispetto a svariati suoi "colleghi" riveriti in ben altro modo e per ben altre ragioni dalle potenze occidentali che si dicono tanto preoccupate per l'incolumità dei libici. Il fatto stesso che di fronte all'intollerabile ed inusuale arroganza ostentata da Obama la cosa più seria l'abbia pronunciata Maroni (testuale: "Gli americani farebbero bene a darsi una calmata. Noi siamo qui, l’Europa è qui, è meglio dunque che ce ne occupiamo noi”.) nell'assoluto silenzio dell'Italia e più in generale di tutti i paesi europei (o quasi) è assai eloquente sull'attuale stato degenerativo del Vecchio Continente, che presenta, grosso modo, proprio gli stessi sintomi dell'Africa; decolonizzata formalmente (neppure troppo, in realtà…), controllata concretamente e sprovvista dei requisiti minimi per camminare sulle proprie gambe.