COMMENTO AL PEZZO DI ENNIO ABATE di G. La Grassa

1. Ritengo un corretto e denso scritto quello di Ennio, non solo di illustrazione di alcune mie tesi. Logicamente, avrei una serie di puntualizzazioni (minori) da fare; il che è normale, sempre avviene così. Tuttavia, vorrei intervenire solo su due-tre punti perché mi si offre il destro di evidenziare alcuni nodi non inessenziali. Per primo parlerò del meno importante. Se tornassi indietro, non cambierei sostanzialmente giudizio su Craxi e Amendola. Così come non lo cambio nemmeno, in generale, sulla socialdemocrazia. Certo, molte affermazioni di un tempo – tipo quelle che di essa facevano la “corrente riformista del movimento operaio” (mentre il comunismo ne sarebbe stata quella rivoluzionaria) – andrebbero riviste radicalmente; a partire da quella denominazione: “movimento operaio”. Ma tralascio un simile compito che implicherebbe molto tempo e spazio; non certo persi, ma tale compito non mi sembra adesso così urgente.

In ogni caso, la polemica antisocialdemocratica (anti-“riformista”) di allora aveva un suo senso; e, lo ripeto, se tornassi indietro non la dismetterei, non rivaluterei quella corrente e i due “spezzoni” d’essa (nel Psi e nel Pci) che si movevano in Italia all’epoca. Tuttavia, non si era capito che si stava sviluppando una degenerazione molto più grave: la sedicente “sinistra radicale”, che nel Pci era rappresentata dagli “ingraiani”, mentre fuori del partito (ma come sua diretta filiazione) si manifestava ne…..Il Manifesto, e poi in molte delle correnti sessantottarde (e successive) del tipo dei sedicenti “operaisti”, “lottacontinuisti” e via dicendo. Ho già scritto e non solo nel “Panorama storico” il perché della mia idiosincrasia. Questa gente appoggiava indifferentemente il maoismo (della rivoluzione culturale) come i fermenti filo-occidentali (e filo-americani) in Cecoslovacchia, in Polonia (ancora peggiori per le loro caratteristiche di cupo reazionarismo “cattolico”).

E’ oggi evidente il “lato nascosto”, filo-atlantico, della “sinistra radicale” che, visto il suo fallimento, si schierò – a ondate successive (l’ultima è quella che vede personaggi “manifestaioli” in appoggio infame dei mercenari di Bengasi) – con il Pci berlingueriano ormai in pieno tradimento del suo “naturale” schieramento internazionale, quello schieramento che gli “amendoliani” tennero nella sostanza. Craxi stava già in origine nell’altro schieramento, ma lo interpretò in modo più sfumato e un po’ meno servile dei rinnegati piciisti. Comunque, non ripetiamo adesso quanto detto e quanto si dovrà ancora dire in futuro. Aggiungerò che approvo il giudizio di Pasolini dal punto di vista della “natura” e psicologia di questi farabutti che si fregiarono di “movimento rivoluzionario”. Non sono d’accordo con l’insieme dei suoi giudizi; soprattutto con il solo sentimentale favore manifestato verso il “poliziotto” in quanto “povero cafone” meridionale da contrapporre al piccolo-borghese studentello (fra l’altro, fior di capetti e intellettualoidi di quel movimento erano figli di media e alta borghesia, proprio come oggi certe “principessine” si trovano nel Pd).

Odiosi questi ambiziosi, e preparati alla “bell’e meglio”, capetti e intellettualoidi, giusto guardarli anche allora con sospetto. Io così in effetti li avvicinai e trattai; perché io pure sono figlio di una medio-alta borghesia industriale ma, guarda caso, non mi sono trovato, e meno che meno mi trovo adesso, ad occupare, come questi laidi personaggi, posti importanti nell’editoria, nei giornali, nelle Università, ecc. Per non parlare del personale politico: i più corrotti e ignobili sono proprio loro, i sessantottini e successivi. Da questo fenomeno evidente non si dovevano però trarre le conclusioni che ne trasse Pasolini, più sentimentalmente che politicamente. A quel tempo pensai che, tatticamente, questi schifosi (che vedevo e valutavo come tali) fossero da appoggiare; e proprio per contrastare le correnti socialdemocratiche. Qui l’errore. I porci (“senza ali”) si allearono, sotterraneamente prima, con i berlingueriani – così come fecero alcuni “amendoliani”, anche di alto livello (non intellettuale e morale, solo politico) – preparando la “grande svolta”: il tradimento aperto del “dopo crollo socialistico”.

Quindi sbagliai. Sentivo antipatia istintiva e profonda per questi personaggi, sia i politici che certi sindacalisti emiliani innamorati di Ingrao e del Cardinal Martini insieme. Mentre invece avevo buone amicizie fra gli “amendoliani”, con persone che avvertivo di buon livello intellettuale e morale. A partire da Amendola – che quando arrivava ad una riunione (lo vidi a quelle tenute a “Critica marxista” nei gruppi di studio sui “modi di produzione”), era come quando in un film si vedeva entrare in scena Humphrey Bogart o Jean Gabin (parlo dei miei tempi ovviamente) – per andare al mio Maestro, a gente come Sereni o altri similari. Politicamente, però, era diverso; bisognava combattere questi ultimi in quanto riformisti, mentre gli altri, insomma, erano per la “Cina è vicina”, contro il “socialimperialismo” sovietico, ecc. Beh, non rivaluto le posizioni politiche amendoliane, dico solo che gli altri erano peggiori; erano <<‘na schifezza, ma ‘na schifezza de ’na ‘schifezza>> come dice Eduardo in “L’oro di Napoli”, quando prepara gli “adepti” all’esecuzione d’<<‘o pernacchio>>. Erano gli antesignani degli aperti traditori, ne preparavano la strada, anche intellettualmente, con tutto lo strame che hanno sparso in questi ultimi trent’anni tramite i loro ignobili, ma “colti”, libelli, sempre però manifestando il loro spirito da mafia o massoneria, sempre a incensarsi e leccarsi fra loro, istruendo sempre nuovi giovanetti opportunisti (anche ora ce ne sono in gestazione, già vicini al “passaggio”; non li nomino, ma li tengo d’occhio).

Quanto a Craxi, aggiungo che commise errori capitali che lo persero. Il suo anticomunismo era (o sembrava) viscerale e ottuso, vedeva complessivamente nel Pci un concorrente; mentre il compromesso storico fu opera soprattutto dei berlingueriani con settori fra i più opportunisti e corrotti della Dc (magari “di sinistra”, come i vermiciattoli “cattolici” che sono oggi nel Pd, loro degni eredi). Craxi fu addirittura infantile e incolto quando volle rilanciare Proudhon contro Marx, fra l’altro pensando che ancora la maggioranza piciista si ispirasse alla scienza sociale dell’autore de Il Capitale, mentre veniva avanti il più totale dissesto della teoria marxiana da parte dei rancidi e ignoranti intellettualoidi del “Movimento”, passati al Pci in appoggio ai rinnegati degli anni ’70 e successivi. Craxi fece la battaglia sulla scala mobile (il referendum) e credé di aver battuto il Pci, mentre quella “sconfitta”, come quella del 1980 alla Fiat (dove Berlinguer, buon “fintone tattico”, si recò “in appoggio” agli operai, accettandola di buon grado), preparò proprio la vittoria del Pci del “passaggio di campo”. Le mosse di Craxi servirono semplicemente a rendere impossibile l’asse con i “socialdemocratici” di quel partito (che non erano filosovietici come un Cossutta, ma certamente favorevoli ad una ostpolitik tipo quella dei socialdemocratici tedeschi).

Fu in realtà sconfitta l’ala che avrebbe potuto quanto meno rappresentare una maggiore indipendenza italica, cui Craxi non fu poi tanto interessato (solo nelle interviste da Hammamet sembrò poi così) in quanto, proprio come un Berlusconi qualsiasi, poteva avere qualche mossa di autonomia (soprattutto a causa della tenaglia Dc-Pci berlingueriano che tendeva ad eliminarlo, esattamente come dopo “mani pulite” accadde al Cavaliere con i voltagabbana piciisti e democristi, al soldo di Usa e Confindustria agnelliana; e ricordo, per ulteriore “analogia”, le polemiche tra Craxi e Agnelli, tra Craxi e De Benedetti-La Repubblica), ma era irrimediabilmente filo-atlantico e dunque filo-americano nella sostanza (come, appunto, l’attuale premier). Incredibile poi ricordare l’esultanza (al contrario di Andreotti che aveva compreso la fine della sua epoca) quando “crollò il muro”. Fu convinto della vittoria della socialdemocrazia sul “comunismo”; e quindi di lui stesso sul Pci. Possibile non sapesse dei risultati ottenuti dall’“ambasciatore” Pci nel suo “viaggio” del 1978 negli Usa? Possibile non capisse che maturavano definitivamente, a quel punto, i tempi del voltafaccia piciista già preparato a partire dai primi anni ’70 (causa non ultima, anzi!, del sedicente “terrorismo”)? Perché allora si differenziò da Dc e Pci sull’affaire Moro, concomitante alle manovre filo-atlantiche dei “cambiacasacca”? Mah, tutte cose da spiegare! Certo che qualche idea ce l’ho, ma non ci sono le prove documentali; alcuni personaggi sono morti, altri smentirebbero “indignati”, magari affermando che io sono un “complottista” (sì, lo sono e a ragion veduta; si complottò eccome!).

Beh, fermiamoci qui.   

2. In un recente commento al blog ho scritto: <<vorrei risultasse chiaro (ancora vedo che non lo è) che considero “il tradimento” un processo oggettivo, con le sue ben specifiche cause e, spesso, non evitabile dati i rapporti di forza instauratisi in determinate contingenze storiche. Tuttavia, ogni processo sociale deve avere i suoi portatori in dati “soggetti”, che sono individui, persone, o non so come altro chiamarli. E contro i portatori è d’uopo sollevare l’odio in quanto “nemici”; altrimenti in quale altro modo si combattono?>>. Lo si fa con l’amore? No. Allora comprendendo che sono solo portatori di un processo con cause, concause, ecc.? Non si conduce così la lotta politica, che richiede certo a monte la teoria (asettica, ma decisiva per tracciare le linee generali del “campo” d’azione), ma poi anche la passione; in particolare l’odio per il nemico, perché i portatori soggettivi vanno combattuti e, in specifiche e ristrette congiunture, uccisi ed eliminati nel più gran numero possibile.

Devo dire che la religione ha più buon senso di molti di noi. Esiste la “predestinazione” a cui noi, non potendo sostituirci a Dio, possiamo solo opporre lo studio di certe cause oggettive dei processi, formulando sull’andamento di questi ipotesi passibili di revisione in base all’azione pratica. Tuttavia, vi è anche il “libero arbitrio”; i peccatori sono peccatori, devono pentirsi ed espiare. La predestinazione non assolve i portatori soggettivi della stessa, che si assumono la loro responsabilità. Altrimenti, pensiamo ad un meccanismo autosufficiente, ad un automa cui tutti noi saremmo soggetti passivamente ed incolpevolmente. No, cari miei, siamo anche “soggetti” attivi, operanti; alcuni scelgono in un senso, altri si oppongono a questo senso, lo combattono, lottano per un altro senso. Per i traditori, il tradimento è scelta giusta, opportuna, magari cinica ma che fa gli interessi di…..loro stessi secondo la mia opinione. Allora, li tratto come tali e le invettive che lancio contro di loro non hanno alcuna particolare animosità, li dipinge come li vedo.

Non mi interessa il rancore e lo sfogo per lo sfogo. Indico semplicemente che, dal mio punto di vista, questi sono individui pericolosi, che hanno tradito e tradiranno ancor di più, che non credono in nulla, hanno rinnegato per puro interesse di gruppo sociale di parassiti e malversatori dei nostri destini. Andrebbero uccisi, ma lo si può fare solo durante vasti sommovimenti, quando finalmente li si combatte senza requie. Al momento puoi solo denunciarli: sono da odiare, da tenere a distanza, si tratta di gentaglia abituata a pugnalare alla schiena, il cui animo è ormai deteriorato irrimediabilmente. Appena potrete – non con infami omicidi individuali, oltre a tutto errati giacché suscitano la pietà per chi non la merita affatto – li eliminerete, perché le cellule del cancro vanno sterminate appena ce ne sono i mezzi. Attualmente, sono soltanto da individuare suscitando nei loro confronti il massimo disprezzo possibile. Almeno questo.

Aggiungo qualcosa sul “Grande Chirurgo”, cui accenno talvolta. Non mi si fraintenda; so bene che al momento nulla del genere si vede all’orizzonte. Il casino è però grande e credo aumenterà sempre più; mi sembra quasi incredibile che nulla accada entro il 2012. Certo, al presente, è più facile che arrivino soluzioni negative (secondo i nostri desideri e convinzioni). Tuttavia, con il “Grande Chirurgo” intendo segnalare che stiamo arrivando comunque “alla frutta” e oltre. Io faccio semplicemente presente che, dal nostro punto di vista, solo una forza che metta da parte le ipocrisie “democraticistiche”, che faccia strame del “politicamente corretto”, che usi metodi di violenza inaudita – e magari perfino efferata, non proprio la nostra preferita – sarebbe in grado di mettere termine a questo sconcio cui assistiamo; e di cui, purtroppo per motivi confusi, pasticciati, in larga parte errati, sono stanchi ormai in moltissimi nel nostro paese.

Si stenta a prendere coscienza che l’origine del “Male” è negli Stati Uniti. Anche noi però contribuiamo alla confusione perché non distinguiamo nulla salvo “gli Usa” e basta; addirittura prediligiamo la formula “gli Usa e Israele”. Temo che si sia ormai troppo rudimentali, perché ci sono comunque differenziazioni non ancora tutte comprensibili. Io parlo di “vecchia” e “nuova” strategia; non credo che la seconda abbia già prevalso definitivamente. Gli Usa sono gli Usa, sono una nazione complessivamente unita, non un bazar come l’Italia. Tuttavia, vi è uno scontro reale tra quelli che, in modo semplicistico (scusatemi), definisco gli “asiatici” e quelli che mi sembrano vogliano fare i mastini in Europa, differenziandola in scherani di primo (Germania e Francia) e di secondo tipo; e magari con ulteriori differenziazioni (Inghilterra e Italia come stellette della bandiera Usa) e con il “recupero” della Turchia, ecc.

Oggi vedo sui giornali – di “destra”, non della verminosa “sinistra” di puri rinnegati e traditori al soldo degli Usa (quelli di Obama, è chiaro?!) e dei “poteri forti”, che li guidano dall’epoca di “mani pulite” – una certa animosità contro Germania e Francia, che tendono a voler assumere la guida dell’Europa, non certo per interessi detti “comunitari europei”, ma per i loro. Manca, come al solito, l’indicazione che gli “interessi ultimi” sono quelli degli Usa di Obama-Clinton. L’eventuale “Grande Chirurgo” (di cui mi auguro si colga infine il semplice carattere indicatore) dovrebbe eliminare la “sinistra” – che non è tale, vogliamo prenderne atto? E’ solo la rappresentanza politico-giudiziaria dei “cotonieri” italiani al servizio degli Usa (quelli più orientati a favore di un deciso servaggio europeo) – con una persecuzione sistematica, diretta pure contro buona parte dei “poteri forti”; si tenga comunque presente che, ingiustizia a parte, il nemico si annienta distruggendone le truppe più che i “vertici”, incapaci di alcunché quando togli loro la “carne da cannone”.

Se ci fosse un “Grande Chirurgo”, dovrebbe riprendere i contatti con la Russia (in cui venga però rieletto presidente Putin), e cercare forze indipendentiste, e dello stesso orientamento internazionale, in Germania e Francia. Lasciamo tutto in sospeso; certi eventi stanno maturando, ma in quale direzione è largamente ancora imprevedibile. I pericoli sono comunque tanti, le cose non sembrano andare bene. Tuttavia, aspettiamo e cominciamo ad attrezzarci meglio nelle nostre analisi: interne e internazionali. E smettiamola per sempre con il “politicamente corretto” e le sue manie. Lasciamo ancor più perdere i “comunisti” (che non sono certo i comunisti di una volta) e i “marxisti” (spesso, purtroppo, come quelli di una volta), con le loro “masse in rivolta”, i “proletari”, il conflitto “capitale/lavoro”, ecc.; e invitiamo a smetterla con le loro inutili menate quelli, delusi, che credono alla “rivolta della Natura” contro il Capitale (ovviamente delle Multinazionali). Basta, è cambiato il mondo, si vuol capirlo?!

In ogni modo, per riprendere il discorso da cui ero partito, è assolutamente corretto indicare con virulenza quali sono i “peccatori”, in possesso di “libero arbitrio” e dunque di “responsabilità” precise, invitando a condannarli senza mezzi termini. Ciò non esime dallo studio accurato della “predestinazione”, delle sue cause, formulando opportune ipotesi al riguardo, fondamentali per muoversi in un campo che abbia connotati riconoscibili e praticabili; ipotesi da mutare, e campo da ristrutturare, ove si manifesti, nello svolgimento della politica, l’obsolescenza e/o gli errori della precedente analisi.

3. Quanto appena detto, apre su un altro problema di cruciale rilevanza. Non credo proprio di aver posto una frattura tra scienza e pratica. Si tratta di due ambiti molto diversi, semplicemente questo. Non vi è derivazione immediata e diretta dalla scienza alla prassi (politica in specie), e nemmeno però la traduzione in termini teorici di azioni pratico-politiche. Marx scrisse Il Capitale (sia le pagine pubblicate che le molte lasciate ai posteri) studiando per una quindicina d’anni circa, dodici ore al giorno, al British Museum. Non frequentava allora le riunioni dell’Internazionale, non partecipò alla Comune di Parigi (da cui trasse alcune conclusioni teoriche sullo Stato da semplice osservatore).

Se Lenin, nelle giornate della Rivoluzione, avesse tenuto discorsi “meditati” sui modi di produzione, sulla formazione economico-sociale, ecc. oggi leggeremmo indubbiamente sui libri di storia pagine molto diverse; forse anche che l’avevano linciato. Egli tuttavia dedicò molto tempo agli studi sugli argomenti appena indicati e su altri ancora più “astratti”. Nel 1914 si dedicò alla hegeliana Scienza della logica, nel 1916 si sbafò un mucchio di studi sull’imperialismo (fra cui quelli di Hilferding, marxista, e di Hobson, in fondo un liberale). Nel 1917, in estate, si impegnò nella scrittura di Stato e Rivoluzione; ecc. ecc. Tutte questioni che non poteva trasferire pari pari nella prassi dell’Ottobre sovietico, ma che facevano da sfondo alle sue varie prese di posizione. Se però non ci fosse stata la prima guerra mondiale, lo sprofondamento della Russia zarista con tutte le sue istituzioni, l’impasse completa della Duma “borghese”, ecc., né il Lenin teorico né quello pratico-politico avrebbero combinato qualcosa.

Egli pensava addirittura la teoria quale “rispecchiamento” della realtà. Personalmente non ci credo affatto. Comunque, la teoria è un sistema articolato (e deduttivo) di categorie generalizzanti (tratte per “astrazione” da un’osservazione empirica, non sempre diretta, spesso invece derivata dalle descrizioni di altri) che mirano a “immaginare” la configurazione del campo in cui si deve agire (non sempre direttamente, ma trasmettendo l’immagine del campo ad altri). Immagine di cui alla fine verrà vagliato il realismo in base al successo di una data prassi (non semplicemente empirica e concreta, non una “pura azione”). E il vaglio può anche durare molto tempo; si può reiterare (a volte stoltamente e cocciutamente) l’applicazione di quella configurazione “immaginata” del campo “d’azione” (azione sempre intesa lato sensu). Quando però si verificano eventi che richiedono un più diretto intervento pratico (politico), non si agisce in strettissima aderenza, secondo un semplice rapporto di causa-effetto, alla teoria nel suo più “alto” livello categoriale (“astratto”).

Di fatto, esistono in pratica tre livelli di azione da condurre quando si fa politica. In basso, sta l’attività di agitazione tra quelle che si denominano “masse”; semplicemente perché appaiono in particolari (e in genere brevi) periodi storici destrutturate rispetto ai gruppi sociali che pur sempre le costituiscono. Sono momenti di “crisi” (mai quella soltanto economica). Se le masse vengono lasciate agire allo stato “naturale” (esistente nella specifica contingenza), esse provocano solo guasti e strappi a volte non facilmente ricucibili. Tuttavia, di solito, s’inseriscono in esse gruppi organizzati, che tuttavia sono in possesso di ben differenti gradi di coscienza e conoscenza della situazione (il “campo” da configurare per agire). Solo quelli che riescono a porsi nei più “alti gradi” danno comunque un senso al movimento. Tuttavia, tali gruppi (i loro vertici) si inseriscono tra le “masse” con linguaggio agitatorio, elementare, che fa appello alla loro “pancia”. Lo ripeto, coloro che hanno coscienza della situazione hanno alle spalle una teoria, ma non si mettono certo ad agire esponendola nei suoi termini incomprensibili ai più; e inoltre “freddi”, “stranianti”, rispetto al “calore”, spesso incandescente, raggiunto dalla crisi.

Nell’organizzazione vi deve essere però un numero non proprio indifferente di individui (i cosiddetti “militanti”), a conoscenza almeno dei rudimenti della teoria elaborata per muoversi in quel determinato campo d’azione, da cui si spera di realizzare – sempre però in conflitto con altri progetti di altri gruppi – un dato obiettivo; che sarà certamente diverso da quello perseguito e voluto, anche qualora si esca vittoriosi dallo scontro, proprio perché risulterà da molti complicati intrecci verificatisi nel conflitto tra gruppi. Al vertice dell’organizzazione, infine, sta solitamente un gruppo di comando che non sempre ha il controllo adeguato di una teoria, così com’è stato invece nell’esperienza più felice dei movimenti comunisti di orientamento marxista. Tuttavia, sullo sfondo di ogni pratica effettivamente innovativa e trasformatrice esiste un impianto teorico che fornisce il quadro d’insieme d’un’epoca storica, e nel contempo della congiuntura in cui ci si muove; un orientamento teorico in grado di “costruire” quella configurazione del campo d’azione indispensabile ad ogni movimento concreto che non voglia essere puro sfogo cieco e distruttivo.

I bolscevichi erano sicuramente delle élites professionali rivoluzionarie, non innamorati della pura teoria. Dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905, quando molti d’essi andarono in giro per l’Europa, si dedicarono alle letture e alle scritture. Essi (ad es. Lenin e Bucharin, ecc.) chiarirono che, quando le condizioni oggettive sono massimamente sfavorevoli ad imprese di prassi concreta e trasformativa, è necessario che si dedichi un tempo adeguato alla riflessione teorica. Essi la intesero soprattutto come critica delle teorie (dei) dominanti e difesa del marxismo; senza accorgersi che quello che difendevano era soprattutto il marxismo nella versione datane da Kautsky. In ogni caso, essi apportarono pure una serie di contributi originali, legati alla fase storica in cui erano immersi. Su questi problemi ho già scritto molto; ci tornerò in altro contesto, non in questa sede. Qui mi interessa semplicemente porre in evidenza come, persino dei sicuri “professionisti” di pratiche rivoluzionarie, riconoscessero la necessità in dati momenti di dedicare la massima attenzione alla teoria. Oggi non si tratta semplicemente di difendere il marxismo, con una serie di novità comunque radicali rispetto all’impianto originario; vi è bisogno di riflessioni di maggior momento e che tengano conto di un più rilevante e definitivo mutamento d’epoca.

Chi ha letto uno degli ultimi articoli del gen. Laporta (Italiaoggi), da me fatto circolare, si rende conto che il nostro blog ha “indovinato” almeno i quattro quinti di quanto avvenuto (e che sta avvenendo) nel mondo negli ultimi anni (e in questo momento). E il Laporta non ha certo “copiato” le nostre “intuizioni”; sono convinto, fra l’altro, che egli sia in possesso di molte più informazioni di quelle poche che siamo in grado di avere noi con i nostri mezzi limitatissimi. Ho quindi motivo di ritenere che “quelli del blog” debbano provare soddisfazione; e mi auguro che ciò li spinga ad un sempre maggiore impegno. Tuttavia, bisogna riconoscere una nostra carenza, riguardante proprio l’elaborazione teorica. Ci siamo fatti fin troppo prendere dalla situazione, certo ormai drammatica e colma di gravi rischi di “esplosioni in superficie” (terremoti), provocate però dai sommovimenti profondi che stanno portando caos nel mondo.       

Dobbiamo invece prendere maggiore consapevolezza che il mutamento di fase storica è profondo (più di quanto riusciamo a capire); non vi è stata semplice sconfitta di una “rivoluzione tipo 1905”, ma la vera fine di un’epoca lunga oltre un secolo. La rielaborazione teorica deve quindi essere profonda e radicale. Non possiamo mica stare ad attendere che tornino i Marx o altri come lui. Aspettiamo “i geni”? Sarebbe un brutto modo di procedere. Non c’è alcuna frattura tra teoria e prassi posta dal sottoscritto; la frattura è “nelle cose”. Impossibile trarre immediatamente e spontaneamente dai tumultuosi avvenimenti odierni una nuova teoria; anzi tutti, così agendo, cadono nel più vieto “giorno per giorno”, che non consente nulla più che un’agitazione scomposta di cervelli in ebollizione. Bisogna fermarsi, riflettere, formulare nuove ipotesi e poi modificarle; e non sempre perché si sono provate direttamente nella prassi, ma perché il pensiero, nella sua “relativamente autonoma” considerazione della concretezza, si accorge che certi mutamenti teorici sono indispensabili. A volte capita persino che i mutamenti siano richiesti non dalla “spinta degli avvenimenti”, bensì dalle esigenze di coerenza, completezza e semplicità; caratteristiche irrinunciabili di ogni teoria. Non esiste teoria senza queste caratteristiche, ma solo conoscenza “a spizzico”, superficiale, momentanea, instabile e pasticciata. Nel fare teoria si assumeranno certo anche le spinte che vengono “dal basso” (dal mondo empirico), ma deve trattarsi di un’assunzione secondo le modalità tipiche del pensiero astraente che costruisce i campi in cui muoversi.

D’altra parte, sarebbe ridicolo credere che una volta arrivati ad una certa stabilizzazione dell’ordine teorico, si possa subito mettersi a provare i nostri costrutti cacciandoci in un bel “movimento pratico”, da orientare con le nostre “sublimi” categorizzazioni, estremamente “lucide e coerenti”, “logicamente molto consistenti”! Incontreremmo un flop dopo l’altro, saremmo portatori di una bella “rigidità cadaverica”. Insomma, non c’è alcun passaggio diretto, comodo, lineare, dalla teoria alla pratica e viceversa. Dobbiamo riuscire a tenere l’equilibrio tra le due “relative autonomie”; ed avere la sensibilità (che hanno avuto in pochi, tipo Lenin o Mao ad esempio) di cogliere quando infine le cosiddette condizioni “oggettive” – la cui oggettività è fatta del molteplice incrociarsi delle azioni compiute da “soggetti”, ognuno dei quali è portatore di una “particola” del movimento interattivo conflittuale complessivo – sono arrivate al “calor bianco” di una possibile precipitazione trasformativa.

4. Questa è la sedicente “frattura” tra teoria e prassi: il riconoscimento della loro autonomia pur nel reciproco collegamento. La teoria implica la preliminare sospensione di una solo scomposta partecipazione alla prassi. Quando un leone non riesce nell’agguato, e si mette allora a rincorrere un branco di gazzelle che fuggono in tutte le direzioni terrorizzate, rischia di andare dietro all’una o all’altra in base al più immediato stimolo della vicinanza. Ammettiamo che riesca infine a fissarsi su una di esse; in genere, però, cambia direzione ogni volta che la gazzella nella sua fuga la muta. Così facendo si sfianca e la gazzella magari riesce a salvarsi. Il pensiero serve a fermarsi, osservando il movimento caotico della preda che fugge, così da tentare una qualche generalizzazione (“astrazione”) in merito ad esso. Mediante la riflessione, non dico che si potrà stabilire un percorso perfettamente rettilineo e uniforme, ma comunque si cercherà di compiere il minimo possibile di movimenti diversivi che disperdono energie. Un minimo, tuttavia, pur sempre subordinato alla finalità (strategica) di afferrare la preda e di sottometterla alla propria supremazia (nel caso preso ad esempio, di mangiarla). Questa è la teoria, che implica sempre un tempo di arresto, di osservazione, di fredda analisi del campo d’azione.

Sarebbe ora che questo blog comprendesse fino in fondo tale problema. Sarò sincero: non mi sembra che tutti i suoi collaboratori, commentatori, lettori lo abbiano afferrato. Non posso non notare che quando mi dedico ad una elaborazione teorica (ultimo esempio particolarmente rilevante: “Il capitale è un rapporto sociale, ma quale?”), questa non è ben capita. La si prende come un esercizio artificioso, che serve ad impreziosire il quadro con qualche ghirigoro carino, ma di cui si può benissimo fare a meno. Nemmeno si è compreso il senso della mia affermazione – invece ben colto, questo, da Ennio – che è necessario “uscire dal marxismo”, ma uscendo proprio da quella porta.

E’ “necessario uscire dal marxismo”. Ho chiarito che quest’ultimo ha posto in modo realistico – nient’affatto utopico come ancora ripetono i cretini che non ne hanno sondato la “profondità” d’analisi – il problema del socialismo e comunismo. Nulla a che vedere con le chiacchiere intorno ad un generico socialismo (o comunismo) come lo capiscono i dominanti o anche certi superficiali critici “del sistema”, i quali, magari inconsapevolmente, corroborano le convinzioni dei dominanti al proposito. Il socialismo sarebbe dovuto nascere da una peculiare dinamica del capitale (come rapporto sociale di uno specifico tipo storico) che ho mille volte descritto e che si supponeva avrebbe condotto alla formazione della base sociale indispensabile (i “portatori soggettivi di un processo oggettivo”) nella figura della classe operaia, che in Marx era il lavoratore collettivo in quanto unione coordinata e cooperante di potenze mentali produttive e di attività lavorative esecutive. Tale supposizione si è dimostrata errata; ed oggi è possibile individuare l’“errore” (teorico, scientifico, non utopico) commesso da Marx. Niente formazione di questa classe operaia (di gruppi operai, sì, ma non nel senso del lavoratore collettivo marxiano); quindi nessuna possibile trasformazione socialistica o comunistica.  

Siamo entrati in una nuova epoca che esige ormai l’abbandono delle vecchie categorie teoriche; quindi dal marxismo (in particolare dalla sua deformazione kautskiana, che è quella affermatasi subito dopo la morte di Marx, in cui la classe operaia era semplicemente quella dei lavoratori esecutivi di fabbrica) bisogna uscire, capendo il succitato “errore”: dal presunto principio dominante del minimax (minimo sforzo e massimo risultato) bisogna passare al reale principio che guida l’azione dei “gruppi sociali” anche nel capitalismo e che è quello delle strategie applicate nel conflitto per la supremazia. Il principio precedente è rilevante solo quale strumento di questo principio predominante.

Bisogna tuttavia uscire dalla porta del marxismo; in tal caso, dal marxismo nella sua particolare versione leniniana, relativa all’individuazione del conflitto tra dominanti (alla fin fine, tra paesi imperialistici) con tutti i corollari che ne seguono: sviluppo ineguale, anello debole, alleanze tra raggruppamenti sociali diversi dalla semplice classe operaia, ecc. Fino a quando tale conflitto non raggiunge l’intensità dovuta (che non è certo matematicamente stabilita), è vano cianciare di rivoluzione, di lotta delle “masse lavoratrici” che affosserebbe o trasformerebbe il capitalismo (il quale già muta per dinamiche sue specifiche). Solo nel 1914-18 maturarono le condizioni per l’azione dei dominati. Prima, ci si dovette rassegnare ad agire nell’ambito del crescente conflitto tra dominanti. Sapendo, però, che si aveva a che fare con “banditi” imperialisti in lotta per la supremazia mondiale. Ecco perché oggi si deve uscire dalla porta del marxismo. Anche nel presente, si deve sapere che americani, russi, cinesi, ecc. sono tutti “banditi” imperialisti. Solo che al momento non sono di pari forza; c’è ancora un tratto di storia, che appare lungo (non so quanto, non sono profeta), prima di arrivare a quel regolamento di conti (tra “banditi”) che consente pratiche realmente trasformative (quelle che pensiamo come realmente rivoluzionarie).

Chi non esce dalla porta del marxismo immagina che si debba con convinzione appoggiare i russi o i cinesi (o altri) contro gli americani. Sì, si deve farlo e anche per un lungo periodo di tempo, ma con la coscienza che sono tutti “banditi” imperialisti in azione; e che le strategie di questi ultimi mutano ad ogni mutare di “corrente d’aria”. Ci si illude ancora su Erdogan e la Turchia? Perché appunto non si è usciti dalla porta del marxismo! Si crede che adesso l’Egitto sia diventato anti-americano e anti-israeliano? Non si è capito un mutamento avvenuto negli stessi Usa (ma non nel loro complesso; anzi il Pentagono sembra non proprio d’accordo con la nuova strategia), quindi si cade nella credenza che l’Egitto – in cui è oggi possibile il prevalere dell’islamismo moderato (e di fatto in appoggio a certe linee della nuova strategia statunitense) – abbia ripreso la politica nasseriana, un’autentica assurdità. E così via. Non si è affatto usciti dalla porta del marxismo. O non si è mai entrati nel marxismo o se ne usciti snobbandolo completamente.

Nel primo decennio del XX secolo, vi fu malgrado tutto un minimo di tolleranza tra menscevichi e bolscevichi, tra i futuri comunisti e la maggioranza della socialdemocrazia europea. Non appena si precisò la resa dei conti tra i “banditi” dominanti, la falsa unità cessò. Perché in effetti, quando gli imperialisti arrivano allo scontro acuto per un definitivo regolamento di conti, si producono fratture non più ricucibili anche tra quelli che apparivano, nella fase precedente, abbastanza uniti e alleati contro i dominanti del capitale (nel rapporto sociale che lo caratterizza). Anche adesso, per un lungo periodo di tempo – necessario alla “uscita dal marxismo” – si manterrà un sufficiente grado di unità. Non ho però alcun dubbio – pur se sono convinto di non vedere l’avvento della nuova epoca – che, alla fine, ci si dividerà tra chi oggi esce dalla porta del marxismo e chi non sa che cosa esso sia oppure ne è semplicemente uscito da un’altra porta qualsiasi. Perché manca, a questi ultimi politici e ideologi, la consapevolezza che i dominanti sono comunque banditi e criminali assetati di predominio, in lotta acuta fra loro per rovesciare rapporti di forza consolidati e stabilirne di nuovi. Americani, russi, cinesi (e anzi ambienti americani fra loro già in conflitto, ambienti russi già fra loro in conflitto, ambienti cinesi di cui al momento non si notano le crepe), assieme ad altri ancora, sono gruppi di predominio in reciproca lotta. E anche una serie di subpotenze, di sicari cui viene assegnata una speciale funzione, ecc. entrano nel gioco complesso fra banditi.

Chi “esce dal marxismo” dalla sua specifica porta se ne renderà conto, avrà un atteggiamento di apparente acquiescenza nei confronti del conflitto tra gruppi dominanti, che occupa il davanti della scena, mentre i dominati non hanno al momento voce in capitolo. Mai sarà però così ingenuo da credere che qualcuno di tali gruppi dominanti rappresenti il “progresso” dell’Umanità, una maggiore giustizia, una riforma, in senso positivo, dell’ordine mondiale. Saprà invece che solo i correi di costoro (fra cui esistono spesso anche i fautori delle varie religioni), solo quelli che smaniano allo scopo di farsi accettare fra il personale ideologico da essi “pagato”, possono credere (o far finta di credere) che ci sono alcuni – fra i prepotenti in lotta per ribaltare i rapporti di forza globali – migliori degli altri, interessati al bene collettivo, ecc. Lo sappiamo, sappiamo che prima o poi magari ci si dividerà, ma adesso occorre una unità, e di non breve periodo, per resistere alla tormenta che infuria. In questo senso, sono per l’indipendentismo quale minima resistenza attualmente possibile. Non perché “sbavi” per il nazionalismo, per la Patria; nemmeno credo alle balle del social-nazionalismo, che rischia di divenire pura ideologia di copertura e di ricambio per date frange di ideologi dei gruppi dominanti. 

A questo serve la teoria quando la prassi non può, per ragioni oggettive e cogenti, essere rivolta subito alla trasformazione reale di quel rapporto sociale che è proprio del capitale. Nessuna frattura tra teoria e prassi, semplice consapevolezza delle funzioni della prima, che non si trova con la seconda in banale rapporto di causalità: a senso unico o “incrociata”, con la ben nota trovatina dell’interazione detta impropriamente “dialettica”, il solito termine che si crede possa sanare la propria smania d’agire per “cambiare il mondo”, anche quando è il “mondo” a prevalere e a “cambiare noi” se non stiamo attenti a quello che facciamo. Mi auguro che qualcosa sia infine chiaro a coloro cui mi rivolgo, troppo spesso avvertendo la loro incomprensione di quanto sto affermando. Comunque, grazie ad Ennio per avermi consentito le riflessioni qui sviluppate.