COMPARSE, PRIME DONNE E DIFESA DEGLI INTERESSI NAZIONALI di G.P.
Il Presidente del Consiglio Berlusconi ha detto esplicitamente che non andrà a rendere omaggio ad Obama, nuovo presidente degli Usa, il quale, il 20 gennaio, si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca.
Berlusconi ha ricordato, ad un gruppo di giornalisti che lo hanno fermato nel centro di Roma durante una passeggiata, di non aver partecipato nemmeno alla cerimonia di investitura di Bush Jr., in quanto egli non si sente un uomo di corte ma un attore di primo piano sullo scenario internazionale.
Ci fa piacere che qualcuno in Italia si ricordi di possedere, almeno in alcuni momenti, una cosa che si chiama dignità. Tanto più che questi uomini rappresentano il nostro paese al di fuori dei suoi confini ed hanno il dovere di preservare e far valere, non una loro caratteristica caratteriale (in questo caso pesa certo il narcisismo ipertrofico berlusconiano), ma la rispettabilità di tutto il corpo della nazione.
Porgere i propri inchini alla “maestà” dei vari presidenti Usa non si addice alle nazioni libere e non è certo il modo più valido per far sentire il proprio peso all’interno della comunità internazionale, a meno di non voler incarnare, anche nelle semplici manifestazioni esteriori, il ruolo del servo sciocco e supino.
Probabilmente, solo i sinistrati infatuati in maniera ossessiva dalla democrazia americana, (così come essa viene messa in scena dal circuito mediatico ufficiale), o quelli che sono ancora ingabbiati nel mito stantio della terra delle mille opportunità (quanto ha rinvigorito questo mito l’elezione di Obama?), possono credere che
Del resto, le prime mosse del neo presidente americano sulla crisi economica, le premesse dei suoi interventi sui conflitti in Afghanistan o in Palestina, nonché il nugolo di consiglieri clintoniani dei quali si è circondato, attestano, lapalissianamente, che se pur la strategia americana sta cambiando non è di certo per abdicare al ruolo di gendarme del mondo.
Tuttavia, questi gesti e sussulti di orgoglio berlusconiani, che hanno, al momento, il solo gusto estetico, andrebbero resi maggiormente conseguenti con una politica realmente indipendente, in grado di portare l’Italia al di fuori dell’alveo dei paesi a sovranità limitata, coltivando, al contempo, un proprio spazio decisionale sulle questioni geopolitiche più "calde", insieme a quei paesi che si stanno sganciando dal giogo Usa (in primis la Russia).
La questione israelo-palestinese, con le prese di posizione dell’intero governo di centro-destra (e con gli ex-fascisti che si sono distinti per essere i più accesi assertori di un servilismo cieco e senza pudore nei confronti di Israele e degli stessi Usa) e con l’astensione italiana sulla risoluzione approvata dall’Onu, quella che ha sancito la condanna dell’attacco israeliano su Gaza, ci dice ancora che tale corrispondenza è lontana dal concretizzarsi.
Tuttavia, abbiamo visto che quando sono in ballo gli interessi strategici di alcune nostre grandi imprese, il premier è in grado di prendere, quasi in solitudine, posizioni coraggiose smentendo il coro unanime di tutti quelli (nel suo entourage e al di fuori di questo) che non si lasciano scappare nessuna occasione per ripetere, come una nenia, le falsità imperiali.
Solo per citare un esempio, anche la stampa più reazionaria di casa nostra riesce a discernere tra mistificazione ideologica e verità quando il paese predominante tenta di mettere i bastoni tra le ruote alle imprese nazionali più innovative che sono in procinto di stringere importanti accordi all’estero.
Ieri sul Giornale è apparso un articolo redazionale con un titolo molto esplicito: “Il successo dell’Eni in Libia dà troppo fastidio alle compagnie americane”.
Il pezzo in questione riportava la notizia di un possibile futuro accordo tra l’italiana Eni, la russa Gazprom e la libica Noc, le quali potrebbero presto sopraggiungere ad una fusione per sbaragliare la concorrenza e gestire con grande proficuo, per sé stesse e per le nazioni di provenienza, una risorsa fondamentale come il petrolio.
Questo ha generato i profondi malumori degli americani i quali hanno subito fatto scattare le loro accuse : “Putin e Berlusconi sono due dittatori, alleati per prendersi il petrolio libico”.
Come si può ben capire, anche i reazionari si rendono conto di come funzionano le campagne denigratorie statunitensi, soprattutto laddove i vantaggi di queste alleanze, sempre squilibrate verso il partner più potente, in tempi di crisi, cominciano a ridursi notevolmente.
Ma il giornalista continua con una chiosa inequivocabile che potrebbe essere estesa ad ogni evento prodottosi sulla scena mondiale in questi ultimi decenni, laddove chi non si allinea ai diktat statunitensi viene bollato come Dittatore di uno Stato Canaglia (Rogue State): “Se invece Gheddafi buttasse fuori l’Eni, Berlusconi, Gazprom e quanti altri per dare il petrolio a chi di dovere, be’, allora tutto si appianerebbe”. Perfetto! Pensate allora a cosa accadrebbe se tutti quegli Stati Mediorientali, Africani o dell’est Europeo, oggi sostenuti dagli Usa, dovessero decidere di recidere i loro infami legami con la superpotenza nordamericana. Israele smetterebbe di essere l’unica democrazia del Medio-Oriente, l’Arabia Saudita sarebbe una fucina di sceicchi despoti che affamano il popolo e
Tutti fatti inequivocabili sui quali, da parte statunitense, è legittimo soprassedere perché si tratta di fedeli alleati, mentre, invece, si può puntare il dito contro la Cina che non rispetta i diritti umani o contro la Russia che vorrebbe riportare le lancette della storia ai nefasti della Guerra Fredda, con il rischio di far scoppiare una guerra nucleare.
Essere o non essere al fianco (ma sarebbe meglio dire sottoposti) degli Usa, è questa la linea di demarcazione con la quale gli statunitensi segnano il confine tra mondo libero e mondo incivile.
Adesso gustatevi pure questo articolo:
Il successo dell’Eni in Libia dà troppo fastidio alle compagnie americane
di Redazione
Mamma li turchi: o meglio, mamma i libici, l’Eni, Gazprom e Berlusconi. Tutti sulla stessa barca, quella dei cattivi. Cosa non si fa per un po’ di petrolio. Il Washington Times ha fatto una scoperta: in Libia c’è il petrolio, e non solo il colonnello Gheddafi. Il leader libico è stato sdoganato dagli Usa dopo che ha accettato di pagare il dovuto per risarcire con un miliardo e mezzo di dollari le vittime americane dell’attentato di Lockerbie, dove nel 1988 un aereo della Pan Am venne fatto esplodere da una bomba libica. Le compagnie petrolifere americane si aspettavano di trovare non solo la porta aperta, ma anche di veder cacciati a pedate tutti i concorrenti: e in parte hanno avuto soddisfazione. Dopo l’apertura di Tripoli ai gruppi Usa, questi hanno infatti vinto praticamente tutta la prima tranche di gare per l’esplorazione di nuovi giacimenti. Ma l’appetito vien mangiando: così adesso vorrebbero continuare nell’abbuffata di contratti. C’è però un problema: in Libia lavora da anni l’Eni, che senza chiasso ha instaurato da decenni rapporti di buon vicinato con il nostro dirimpettaio dall’altra parte del mediterraneo.