Complotti e strategie
Non è il titolo della nuova testata in via di gestazione.
A ben pensarci potrebbe essere quello appropriato di una apposita sezione dedicata, potenzialmente la più affollata.
L’ambito, oggetto d’attenzione, sarebbe particolarmente esteso; si spazierebbe dagli scenari internazionali più distanti, per arrivare al gossip quotidiano casereccio con intrecci e concatenazioni più o meno diretti tra di essi.
Nel primo, a titolo di esempio, si potrebbe collocare la recente richiesta da parte della Sec americana e del fantoccio libico all’ENI, alla Total francese e alla Marathon americana della documentazione necessaria ad accertare eventuali casi di corruzione e di rapporti illeciti con il defunto governo libico.
Tralascio il banale particolare di una istituzione americana la quale, sulla base di leggi americane (Helms-Burton, D’Amato), si permette e pretende di indagare giudiziariamente extraterritorialmente su rapporti tra stati o tra aziende e stati diversi dal proprio e, sulla base di accertamenti più o meno attendibili, contribuisce ad alimentare il gioco strategico del proprio paese con l’armamentario degli embarghi, delle sanzioni, delle condanne, del rispetto dei diritti.
Tutto ciò rientra perfettamente nelle ambizioni messianiche della potenza dominante a scapito del pragmatismo legato al principio di sovranità degli stati, ormai largamente in disuso.
Tralascio anche la personale amara soddisfazione di trovare tra gli oggetti di simili attenzioni anche la compagnia petrolifera del più solerte e vanaglorioso complice dell’avventura americana in Libia.
Nell’economia dell’articolo un tale evento, però, quello della Sec, non è facilmente catalogabile come complotto, piuttosto che, più generalmente, segmentazione tattica di un più generale disegno strategico.
Si avvicinerebbe alla categoria del complotto il successivo ipotetico intervento di quel funzionario statale italiano il quale, con il consueto clamore e la necessaria noncuranza, arrivi ad indagare l’ENI in maniera tale da comprometterne e condizionarne le scelte e la collocazione strategica, sulla falsariga di quanto successo a Finmeccanica.
Si tratta ovviamente di pura fantapolitica, del tutto improbabile in un paese trasparente e democratico, privo di “misteri” come il nostro; ma anche in questo caso il confine tra tattica e complotto non sarebbe ancora perfettamente definito.
Tra i tanti fattori costitutivi del complotto, mancherebbe l’accertata consapevolezza e adesione al disegno di quel funzionario.
Nel gossip è relativamente più facile definire i contorni di una trama diretta.
Il caso di Rosi Mauro, Vicepresidente leghista del Senato, si avvicina maggiormente alla casistica della cospirazione, a partire dalla debolezza del personaggio.
Non conosco la senatrice, ma da Vespa era l’unica esponente politica a guardare negli occhi l’interlocutore, è apparsa credibile nelle sue dichiarazioni; l’attuale elenco delle sue proprietà rivela più la propensione a sacrificare buona parte dei cespiti per la propria organizzazione piuttosto che il contrario; la sua resistenza, sempre che riesca a mantenere per qualche tempo il diritto di parola, potrebbe diventare il classico granellino in grado di bloccare un ingranaggio dal meccanismo approssimativo. La tensione emotiva e la sprovvedutezza le hanno impedito, tra l’altro, di ricordare ai suoi inquisitori le prerogative di uno stato liberale, l’obbligo dei giornalisti di denunciare le approssimazioni delle costruzioni inquisitorie, non solo le debolezze degli inquisiti, il fatto che sino a ieri tutti i sindacati hanno goduto del sostegno finanziario in valuta nazionale ed estera delle varie correnti di partito
Forse per questo sta tardando il suo inserimento nel registro degli indagati e la sua defenestrazione dall’incarico parlamentare.
Quanto alla Lega, più che artefice, mi pare una organizzazione del tutto permeabile all’attività di avventurieri e faccendieri di basso rango se non di veri e propri infiltrati.
La permanenza prolungata di un suo esponente a capo del Viminale pare, addirittura, averla resa più vulnerabile piuttosto che guardinga.
Al suo cospetto la vicenda di Tangentopoli, ormai vent’anni or sono, è apparsa una operazione decisamente più sofisticata.
Le indagini preliminari furono, allora, molto più accurate e supportate dal lavoro dei servizi italiani e stranieri; le fughe di notizie furono molto più dosate e centellinate; il fulcro della vicenda poggiò nei dibattiti processuali; buona parte dei magistrati fecero quello che avevano sempre fatto in passato con la differenza che allora trovarono improvvisamente spalancate porte in precedenza sbarrate; la stessa opinione pubblica e la sua manipolazione rivestirono un ruolo importantissimo nella dinamica degli eventi.
Fu, in pratica, una vera e propria battaglia politica dove le trame ordite da alcuni gruppi dovevano fare i conti con le resistenze e le reazioni di altri gruppi, dovevano adeguarsi al mutare delle situazioni, dovevano in qualche modo seguire le procedure istituzionali; dove i blocchi sociali avevano un qualche peso significativo.
Quella battaglia, infatti, offriva comunque una prospettiva che giustificasse lo scempio in atto delle privatizzazioni e delle dismissioni, della subordinazione di un paese mantenendone integra la struttura parassitaria; era la prospettiva dell’Unione Europea e del risanamento e della moralizzazione del paese.
Una strategia ed una tattica che trovarono anche i loro ostacoli significativi.
La battaglia odierna ha gli stessi obbiettivi di allora e pare esserne il compimento; ha, però, accentuato il suo carattere complottardo e crepuscolare.
Nella stesura della trama pare sottesa la convinzione che sia determinante il ruolo degli individui nell’agone politico; che sia, quindi, più che sufficiente azzoppare quegli stessi individui posti in qualche maniera in primo piano ad ostacolare il conseguimento dei risultati prefissi.
Di modo che tutta la tenzone pare risolversi nella pubblicazione di qualche intercettazione che, in un paese civile, dovrebbe essere custodita in atti riservati, nella visione di qualche filmato clandestino, nel gossip di presunte tresche amorose e familistiche.
È la visione tipica dei tecnocrati incapaci di offrire un futuro e capaci solo di assecondare prospettive eterodirette; incapaci, quindi, di mobilitare e aggregare positivamente i settori dinamici della società proprio perché si sono posti da soli i limiti e i confini ristretti della propria azione politica, mascherata paradossalmente spesso da cosmopolitismo.
Il loro successo dipende dal carattere amorfo e passivo della società e dalla debolezza endemica e dalla subordinazione remissiva del ceto politico incaricato di organizzare il consenso e i conflitti.
Ma è anche la loro debolezza costitutiva.
Per costoro è quindi essenziale distruggere sul nascere ogni focolaio suscettibile di raccogliere alternative e frapporre ostacoli, se non di incendiare la prateria.
L’Italia, almeno nello scenario europeo e atlantico, rappresenta sempre più il paradigma di questa situazione e l’anello debole della catena.
A dare a costoro una mano, ci sono sul versante opposto e complementare i complottisti; coloro, cioè, che vedono nel ruolo degli individui, sempre più svincolati dalla funzione, dal ruolo e dalla espressione sociali, la causa dell’azione e l’oggetto delle reazioni, per di più pianificate freddamente a tavolino.