CONSIDERAZIONI DI FASE E ATTENZIONE ALL’ITALIA, di GLG, 24 marzo ‘14
1. Anche quando c’è stata fame e miseria, il bisogno di forti moventi ideologici ha avuto una funzione insostituibile nei mutamenti importanti di fase storica. La fame porta al subbuglio, alle sommosse, ma consente facili repressioni e il riconsolidarsi di vecchi gruppi dominanti. Occorrono altri moventi, da non prendere come pura idealità. I coltivatori di puri ideali fanno la stessa fine della “masse” affamate; salvo che magari la loro effigie viene conservata e riverita, serve per bandiere (o magliette, ecc.). Occorre la passione ed è indispensabile la ragione, che lucidamente pensa opportune strategie per il successo. E questo successo deve, sia pure attraverso la tensione ideologica, agganciarsi a propositi concreti, che non sono solo “sporchi” e “miserabili” interessi (personali o di gruppo); sono ampie visioni di mutamento che comunque portano al potere nuovi gruppi rappresentanti il cambiamento ormai necessario poiché la società si è, nella sua vecchia configurazione, imputridita, è marcita “impaludandosi” in un “ordine” ormai decrepito, coltivato da personaggi meschini e da ceti intellettuali privi di qualsiasi intelligenza e ignobili nei loro bassi moventi di ambizione da merciai.
Nel cosiddetto “occidente”, siamo da quasi mezzo secolo in una di queste fasi in mano agli infami di basso conio. L’invenzione e la diffusione di nuovi strumenti di informazione e di diffusione di una sedicente cultura favorisce la sempre più accelerata putrefazione. L’insofferenza sembra tuttavia in crescita, ma non mi sembra trovi ancora canali adeguati. Soprattutto, però, non trova un’appropriata nuova “investitura” ideologica, dotata della forza necessaria a superare questo sconcio interminabile. Una ricerca sembra in atto, ma ancora molto confusa; d’altronde non potrebbe essere diversamente, e anche chi si rende conto della limitatezza dei nuovi propositi non è in grado attualmente di proporre nuove soluzioni. Tuttavia, la lucidità critica deve restare – almeno quella – a vigilare. Non a pretendere di insegnare, non a fare soltanto da “grillo parlante”, ma comunque a manifestare i più seri dubbi circa date soluzioni.
Quello che resta fondamentale è la ricerca di nuove forti spinte ideologiche. Senza usare a vanvera del parolone “ideale”, che è per pochi “eletti”; i quali devono rassegnarsi al ruolo di martiri, di meri simboli da usare perché, per la gente “semplice”, è più facile nutrire passioni ideologiche identificandole in persone esistite (anche se il “martire” ha solo l’immagine di quella persona esistita, per il resto è pura creazione pur essa ideologica). In definitiva, per le “masse” non basta la fame, occorre la passione vestita di pregnante ideologia. Il mutamento avviene quando a dirigerle vi sono le cosiddette “avanguardie”. In realtà mi sembra meglio, al momento, definirle con il più verace termine di élites. Pur esse devono nutrire quella passione, unita tuttavia alla lucidità strategica, che prenda le mosse da un’analisi razionale delle concrete, empiriche, condizioni esistenti.
Tutte le vecchie ideologie otto-novecentesche, alcune delle quali almeno in parte “rivoluzionarie”, sono da mettere in soffitta. Questo va detto innanzitutto della lotta di classe con quella operaia (o proletariato), che avrebbe rovesciato il capitalismo e creato il socialismo (prima fase) e poi il comunismo (seconda fase) di una nuova società (formazione sociale). Si è trattato di una bella illusione, da non rinnegare, e soprattutto da non disprezzare come fanno ignobili personaggi dell’establishment (economico-politico e intellettual-giornalistico) di questi tempi di semplice marciume; tuttavia, va ormai considerata un bel pezzo d’antiquariato. Se qualcuno la vuol tenere come preziosa reliquia, va bene lo stesso, basta che la conservi in una teca. Del resto, simile ideologia era già scaduta a conflitto-capitale lavoro, un pensiero da impiegato al catasto, buono per alimentare una nutrita schiera di parassiti, detti sindacalisti, ormai divenuti da qualche decennio autentici farabutti e imbroglioni di piccola tacca.
Si metta da parte, per favore, anche il nazionalismo: la Nazione, la Patria (per alcuni affabulatori unita a Dio e famiglia). Non parliamo della Razza. Poi c’è stato l’antimperialismo, di cui sono ancora cultori alcuni rimasugli dei soliti nostalgici (alcuni, per la verità, pur essi mascalzoni e imbroglioni di minimo calibro). Intanto, non si era capito nulla del vero significato del concetto di imperialismo. Si era tornati a concezioni del primo marxismo, che lo confondeva con colonialismo. Vi si è soltanto aggiunto un “neo” davanti, lo si è poi chiamato terzomondismo (anche quando il cosiddetto terzo mondo andava ormai differenziandosi in non so quanti “mondi”), spesso tentando di utilizzare un misero marxismo economicistico di riporto con le chiacchiere intorno allo “scambio ineguale” et similia.
Tutto da buttare a mare; anzi già buttato salvo che per pochi sopravvissuti, ormai morti che camminano. Sono rimaste in piedi alcune ideologie religiose, di dubbio significato e trasporto passionale salvo il fondamentalismo islamico, che ha alimentato in “occidente”, nei poveri sopravvissuti di un comunismo moralistico e religioso, la credenza della difesa di poveri diseredati, oppressi e via dicendo, chinandosi “cristianamente” di fronte ai “sofferenti”. Ha pur esso ormai mostrato la corda, l’emergere di gruppi dirigenti particolarmente fanatici e fortemente inadatti a combattere la “modernità”, pur putrescente, del capitalismo.
2. Si parla infatti sempre, assai genericamente, di capitalismo. Si è accusato a sproposito il marxismo di determinismo economico. Può essere (o essere stato) esatto con riferimento ad alcuni pseudo-marxisti, che sono l’esatto contraltare di quelli comunistico-religiosi di cui appena detto. E’ indubbio che l’economicismo degli apologeti e dei critici del capitalismo è decisamente povero e miserello. Si sproloquia sulla globalizzazione mercantile del capitalismo, che si identifica appunto con il mercato e l’impresa. Talvolta, si pretende di distinguere un capitalismo “buono”, quello produttivo, magari quello che affronta la concorrenza nel mercato globale; e un capitalismo “cattivo”, di carattere finanziario affidato a gruppi misteriosi, a vere massonerie, che controllerebbero subdolamente tutto il mondo.
Non si è capito che è esistito un capitalismo borghese, soprattutto ottocentesco e durato al massimo fino alla prima guerra mondiale, fondato grosso modo, pur se con indubitabili semplificazioni (tipiche di ogni teoria scientifica che non semplicemente “riproduce la realtà”), sulla contrapposizione tra borghesia (proprietaria dei mezzi produttivi) e operai (lavoratori salariati delle fabbriche). Ed è esistito un diverso capitalismo, di matrice soprattutto statunitense, che ha avuto caratteristiche assai diverse. La struttura economico-imprenditoriale non si limita a quella della fabbrica. Si è andata formando nella sfera dell’economia un’articolazione sociale, alla cui sommità sono collocati i funzionari/strateghi della politica condotta dalle imprese; politica che è difficile immaginare attraversata da un antagonismo semplificato in senso soltanto duale. Inoltre, il fatto che il vertice di tale configurazione sia rappresentato da “soggetti” delle strategie implica un intreccio ben altrimenti complesso tra le diverse sfere dell’economia, della politica e dell’ideologico-culturale.
Questo capitalismo ha conosciuto una notevole flessibilità, che la semplice proprietà di quello precedente, una volta giunta a dati livelli di centralizzazione, non consentiva. L’affidarsi soprattutto alla funzione strategica nella concorrenza interimprenditoriale ha consentito la frammentazione della proprietà, con il diffondersi dell’ideologia della democratizzazione del potere economico e del farsi da sé meritocratico anche partendo da posizioni di bassa ricchezza, grazie appunto alle proprie capacità “manageriali”; anche se queste ultime, pur nella loro più avanzata teorizzazione (quella del Burnham ad esempio), sono state pensate soprattutto nella loro veste di capacità (tecniche) nella direzione dei processi produttivi o nella ricerca di sbocchi di vendita mercantile. Tale ideologia è stata comunque un punto di forza della “democrazia” americana e del suo diffondersi nei paesi entrati nella sfera d’influenza degli Stati Uniti.
Si è colto, con il concetto di “rivoluzione manageriale”, il rinnovarsi della concorrenza che i teorici della centralizzazione monopolistica (legata al puro concetto proprietario del capitalismo) – teorici che vanno dai marxisti (tipo Hilferding) ai neoclassici come Schumpeter – avevano pensato in affievolimento con tendenza del capitalismo ad entrare in crisi di stagnazione, di perdita di velocità ed infine di trasformazione “socialistica”. Non ci si è addentrati invece nella più profonda “essenza” di tale capitalismo, la cui caratteristica fondamentale è appunto l’affermarsi ai vertici della sfera economica di quegli agenti strategici che, in precedenza, allignavano quasi esclusivamente alla sommità di quella politica, in particolare negli apparati statali addetti all’uso della forza.
3. Da ormai un bel po’ di tempo quell’ideologia fintamente democratica è andata incontro ad un crescente logoramento e l’american dream è un ricordo del passato. Resiste ancora la potenza (soprattutto “di fuoco”) di quel paese, i suoi centri strategici hanno tuttora carte da giocare, soprattutto per una ricchezza di mezzi che consente di controllare media, di perseguire attente politiche lobbistiche e di creazione di gruppi servili in vari paesi del mondo. Tuttavia, l’arroganza e la prepotenza, sempre più scoperte man mano che l’ideologia già ricordata sbiadisce sempre più, stanno conducendo ad alcuni passi falsi e a fidarsi di forze troppo scopertamente delinquenziali o comunque antinazionali rispetto ai paesi in cui agiscono.
Stanno crescendo, sia pure lentamente, forze in grado di contestare la supremazia statunitense. In questo senso si nota una tendenza latamente multipolare. I paesi antagonisti sono ancora relativamente deboli – e il crollo del sedicente campo “socialista” con l’Urss in testa è stato evento negativo in tal senso – ma sembra diffondersi la consapevolezza della necessità di opporsi alla smania di predominio di quel paese, in cui si constatano inoltre alcune titubanze circa la migliore strategia da perseguire in questa fase di mutamento dei rapporti esistenti tra le varie aree mondiali. Dove si nota tuttavia una persistente incapacità di comprendere la necessità di contrastare più decisamente gli Usa è proprio la nostra zona, l’Europa. In “occidente”, tanti decenni di sudditanza hanno creato una pericolosa insensibilità di fronte al degrado provocato da tale subordinazione alle scelte del paese d’oltreatlantico. A “oriente”, il crollo del falso e sclerotico “socialismo” ha dato la stura a risentimenti antirussi che giocano pur essi a favore del paese predominante.
Si è comunque entrati in una fase in cui il predominio Usa sta causando profondo disagio e fenomeni di arretramento dei sistemi economico-sociali esistenti in Europa. Le necessità strategiche statunitensi in aree come il nord-Africa, il Medio Oriente e ormai nelle zone confinanti con la Russia diventano sempre più incompatibili con la stabilità di paesi europei (tipico il nostro) trattati quali basi d’appoggio di dette necessità. Del resto, perfino in Inghilterra, da lungo tempo una pedina del gioco statunitense, sembra essere cresciuta la preoccupazione di conquistare una maggiore autonomia. Tuttavia, per vari motivi – a volte di reale incomprensione del problema, altre volte per motivi tatticistici tesi ad evitare lo scontro diretto con la potenza statunitense, altre ancora perché alcuni gruppi, collegati sotterraneamente agli Usa, mirano a dirottare potenziali forze autonomiste verso vicoli ciechi e di insuccesso – si stanno manifestando nella nostra area sommovimenti di protesta per null’affatto ben indirizzati. Basti pensare adesso alle spinte autonomistiche di stampo localistico e regionale, che rischiano poi di dover ricorrere proprio all’appoggio di forze ambigue, magari collegate in vario modo con ambienti del paese ancora per noi centrale.
Tatticamente, può essere considerato positivo l’attuale diffondersi di sentimenti antieuropeisti se diretti principalmente contro le istituzioni e strumenti che hanno contribuito alla nostra subordinazione agli Stati Uniti. Tuttavia, va prestata attenzione alle strategie di fondo. Non credo che il nostro compito sia attualmente la costruzione di organismi politici indipendentisti (o sovranisti o come li si voglia chiamare). E’ necessaria però un’analisi più puntuale di quelli già esistenti, dei mutamenti dei rapporti tra paesi, della possibile configurazione di nuove alleanze (al momento di grandissima labilità come in tutte le epoche di iniziale e soltanto tendenziale multipolarismo). Bisogna seguire quanto avviene nel paese ancor oggi più potente nel mondo. Se continua nelle sue aggressioni (dirette o utilizzando sicari con manovre del tipo di quelle poste in atto nella cosiddetta “primavera araba”), è necessario non deflettere dall’indicarlo quale nemico principale di ogni minimo appeasement; quanto meno per un periodo sufficiente a consentirci di uscire dal disastro provocato dagli ultimi tre governi (Monti, Letta e adesso, quasi il peggiore, Renzi) con la prolungata permanenza di un “Governatore” di provata fedeltà atlantica (già quando sembrava ancora lontano il cambio definitivo di campo del Pci) e la complicità sempre meno nascosta dell’ex cavaliere.
Un disastro molto sospetto. E’ indubbia l’impreparazione crescente di questo ceto politico, e l’imbambolamento di tecnici scaraventati allo sbaraglio. Tuttavia, se questo è quanto accade come minimo dal 2010-11, è evidente l’intenzione degli Usa dell’attuale Amministrazione – consigliata da determinati centri di strategie a tentare manovre piuttosto avventuristiche – di avere a disposizione un paese, la cui struttura sociale si disgreghi sempre più affinché il suo territorio possa diventare pura base di partenza di tali manovre. Su questo processo occorre fissare l’attenzione. Dobbiamo, tuttavia, prestare pure ascolto ai moventi ideologici che cominciano ad agitarsi in modo assai confuso e con esiti che potrebbero anche essere tali da facilitare, a causa del caos e smembramento di dati paesi, le attuali mene statunitensi. Entriamo comunque in una fase chiaramente nuova, in cui sceverare il grano dal loglio diventerà via via più difficile.