Contro i parametri della vecchia Ue
L’Ue avrebbe certamente bocciato il New Deal roosveltiano che andava oltre il lecito di una situazione di “legalità” economica, con le sue scelte espansive in deficit, in contrasto alle convinzioni dell’epoca. Infatti, i “suggeritori” della teoria neoclassica del tempo, non videro di buon occhio quelle scelte che contraddicevano i dettami di cui essi erano portatori e che toglievano loro molta credibilità. Ma la débâcle principiata nel 1929, avente davvero poco di ordinario, convinse il Paese, che più era stato colpito dai crolli in borsa e dai riflessi sull’economia reale, con le file agli sportelli bancari e poi, più tardi, con le code dei disoccupati per il pane, ad avviare, nel 1933, un piano di spese pubbliche per realizzare infrastrutture importanti, ad alto capitale fisso ed impiego massiccio di manodopera, rimasta inoperosa negli anni precedenti. Inoltre, si decise di applicare forme di salario minimo per far crescere i consumi, cioè la domanda di determinati beni da parte dei settori più colpiti dal terremoto sociale (coincidenti con quelli medio-bassi, dequalificati e naturalmente più esposti, ma anche con quelli appartenenti alla classe media, scippata delle “riserve” in borsa). Le imprese che producevano beni di consumo si rimisero in moto a loro volta, avviando un circolo virtuoso. L’impatto fu sicuramente più forte per quelle aziende che dovevano, invece, rispondere ai grandi investimenti statali ma ogni iniziativa permetteva di ”ossigenare” il sistema, da diverse angolazioni. Gli americani ricorsero, pertanto, ad una specie di “reddito di cittadinanza” ante litteram, senza intenti di generosità (e di retorica stracciona) per salvare il loro capitalismo. E’ vero, in Italia, non abbiamo ancora orde di disperati che si aggirano per le strade ma non è detto che si debba per forza arrivare a simili condizioni per invertire la rotta. Ci sono segnali sufficienti per preoccuparsi, e da lunga pezza, del difficile contesto. Se alcuni parametri stabiliti in qualche lussuosa stanzetta di Bruxelles (e prima ancora di Maastricht), dove si riuniscono sedicenti esperti, non lo permettono, è giusto ignorare bellamente detti indici che non sono stati rivelati agli economisti e ai commissari europei da un dio infallibile competente in materia.
Anche all’epoca di Keynes, c’erano quelli che, come oggi, mal interpretavano le ragioni della crisi (tra questi Pigou), imputando le sue cause all’aumento dei salari. Ma ridurre ancora di più quest’ultimi, la cui messa andava persino azzerandosi in seguito alle espulsioni dei lavoratori dalle fabbriche, avrebbe significato deprimere maggiormente la domanda. Nel capitalismo le crisi sono da sovrapproduzione e non da penuria, pertanto, è facile immaginare cosa sarebbe accaduto se si fossero seguiti siffatti cattivi consigli di insigni maestri della triste scienza. Dunque, la domanda è il vero problema, nonché un eccesso di risparmio che resta tipicamente inutilizzato in economie avanzate e mature. Ci riferiamo a date contingenze storiche, relative e non assolute. Keynes non disse che per sopperire a tutto ciò occorreva assumere operai per far scavare loro buche e poi ricoprirle, caricando sulla collettività i costi totali dell’operazione. Precisamente affermò: “Se il Tesoro dovesse riempire vecchie bottiglie con banconote, sotterrarle a profondità adeguate in miniere di carbone in disuso, riversare nelle miniere rifiuti urbani fino alla superficie, e lasciare poi alla libera iniziativa, sulla base dei consolidati principi di laissez faire, il compito di dissotterrare le banconote (dopo aver indetto una gara per le concessioni di sfruttamento di quel territorio), la disoccupazione non aumenterebbe più e, con l’aiuto delle successive spendite, il reddito reale e la ricchezza della comunità sarebbero probabilmente molto più elevati di quanto si darebbe altrimenti. Certamente, sarebbe più sensato costruire case o altro. Ma, se ci sono difficoltà politiche o pratiche nel farlo, quel che si è detto sopra sarebbe meglio che niente”. Keynes era per il mercato e la libera iniziativa, stimolate però da un intervento statale, in quel particolare momento (durato fin troppo) in cui l’attività dei privati e della concorrenza erano incapaci di autocorreggersi. Nulla di sacrilego in campo economico, nemmeno per i “puristi” liberisti di oggi.
Tuttavia, Keynes pensava che la più alta massa salariale, avrebbe accresciuto la domanda, avviando un processo positivo di ripresa generalizzata. Esattamente il contrario di quello che pensava Pigou, il quale perorava una ulteriore riduzione del costo del lavoro per permettere alle imprese di tornare ad assumere. Ovviamente, seguendo Keynes l’inflazione si sarebbe alzata (limando un po’ di quanto concesso agli stipendi), in risposta all’incremento salariale, ma la macchina produttiva avrebbe avuto il tempo di rimettersi stabilmente in atto. Piuttosto, seguendo Pigou e perdurando la crisi, il crollo dei prezzi sarebbe stato inevitabile e di ben più vasta portata, rispetto alla prima ipotesi, con le imprese che avrebbero continuato a fallire una dopo l’altra.
Afferma giustamente La Grassa: “…Va chiarito che Keynes non propugna alcun intervento per limitare la portata del “libero mercato”; non vi è alcuna indicazione di instaurare una pianificazione statale come nei paesi detti “socialisti”. Inoltre, l’economista di Cambridge non parlava di spesa con finalità sociali (tipo pensioni, sanità, ecc.). Nemmeno si sosteneva che non dovessero in nessuna misura ridursi i salari; anzi, tramite l’inflazione che, almeno inizialmente, veniva promossa tramite la spesa pubblica, una certa riduzione dei salari reali si verificava e ciò non era considerato certo dannoso, poiché alleviava comunque i compiti delle imprese dal lato dei costi di produzione. Tuttavia, la causa principale della crisi – ma nei paesi capitalistici opulenti, ad alto livello di capacità produttiva di reddito – non era attribuita all’eccessiva altezza dei salari, cioè all’esorbitante (presunta) forza raggiunta dalle organizzazioni sindacali nella contrattazione del prezzo del lavoro. Keynes non prende nemmeno in considerazione il problema del mono(oligo)polio; parte anzi dalla presupposizione di una libera concorrenza, si attiene ai concetti marginalistici tradizionali, ma si riferisce a grandezze globali, aggregate, nel senso di variabili complessive attinenti all’economia “nazionale”. Si parla, ad es., di consumo, risparmio, investimento, ecc. in quanto dati relativi alla totalità dei consumatori, risparmiatori, investitori, ecc. esistenti in un determinato territorio (in genere un paese; comunque, ci si può anche limitare ad una regione di un paese o invece allargarsi ad un insieme di paesi di una certa area geografica, ecc.). Per questo si parla della teoria economica keynesiana come di una macroeconomia, in contrapposizione alla microeconomia della teoria neoclassica tradizionale. Man mano che cresce il reddito nazionale (somma dei redditi di tutti gli individui viventi in un dato territorio, in genere quello nazionale, senza riguardo alla loro collocazione in date classi o gruppi sociali), aumenta la quota (percentuale) del reddito risparmiata rispetto a quella consumata. La teoria neoclassica tradizionale riteneva che tutto il reddito risparmiato fosse anche investito. Quando il risparmio aumentava, si supponeva che diminuisse adeguatamente il saggio di interesse (prezzo dei prestiti), per cui gli imprenditori si facevano dare a credito – con l’intermediazione delle banche – tale risparmio per effettuare gli investimenti, che sono appunto domanda di beni di produzione. Quindi, qualunque fosse la dimensione del prodotto (reddito) nazionale, la domanda era comunque della stessa entità dell’offerta, visto che quella di beni di investimento assorbiva la parte di reddito risparmiata (la parte consumata è ipso facto domanda di beni di consumo). Si sarebbe quindi realizzata la cosiddetta legge di Say per cui l’offerta dei beni (e dunque la produzione da cui dipende l’offerta) crea la sua propria domanda; non potrebbe quindi mai esserci crisi di sovrapproduzione, la merce prodotta non resterebbe mai invenduta per carenza di domanda. Per Keynes, invece, vi è un livello della produzione nazionale, nei paesi ad alto sviluppo capitalistico, in cui si verifica comunque un eccesso di risparmio, che non viene assorbito dall’investimento degli imprenditori (privati) per quanto bassi siano i saggi di interesse sui prestiti (bancari). La domanda complessiva dei privati (consumi più investimenti) non tiene allora dietro allo sviluppo (grazie agli avanzamenti tecnologici) della capacità di produrre un reddito, in cui cresce più che proporzionalmente la parte risparmiata rispetto a quella consumata. E’ quindi la debolezza di questa domanda complessiva la causa reale della crisi che poi certamente, una volta scoppiata, si avvita su se stessa facendo regredire il livello della produzione fino al punto in cui, nuovamente, l’intero risparmio, anch’esso ovviamente diminuito, trova di fronte a sé una adeguata domanda di beni di produzione (investimento). Va rilevato, ed è cruciale, che nella crisi la debolezza della domanda induce la diminuzione della produzione e questa accresce la disoccupazione dei fattori produttivi; quella del fattore lavoro ha maggiore evidenza perché è socialmente squassante, ma la disoccupazione colpisce anche il “fattore capitale”, che in questo contesto, come sempre nella teoria neoclassica, è l’insieme dei mezzi di produzione (di proprietà privata). In definitiva, la causa fondamentale della crisi risiede nella carenza, evidentemente relativa, della domanda a livelli di reddito elevati, tipici di economie con grandi potenzialità produttive, quindi tecnologicamente assai avanzate; ecco perché la crisi scoppia soprattutto nel bel mezzo di una raggiunta opulenza ed altezza del tenore di vita. Se vi è relativa debolezza della domanda privata (di beni di consumo e di investimento), è necessario che lo Stato effettui una sua spesa (pubblica) che vada a sommarsi a quella dei singoli cittadini, una spesa che quindi supplisca alla deficienza di quella dei privati. Ecco la ragione dell’intervento statale in economia; non certamente per una pianificazione della produzione…”
Ora, è vero che anche il Keynesismo, dopo gli anni gloriosi in cui aveva ragione da vendere diventò dogmatico, continuando a dire le stesse cose in un clima ormai mutato (quando cioè la crisi terminò, in seguito alla guerra che riconfigurò i rapporti geopolitici, peggiorando di molto il valore dei suoi contributi, ancora basato su ricette viepiù ineffettuali e di un periodo abbondantemente superato), ma attualmente ci ritroviamo in una fase di sregolazione internazionale, la quale richiama i singoli Stati (o aree omogenee di Stati) ad uscire da logiche “regolari” che non funzionano o sono autolesionistiche. E’ importante che la spesa statale in deficit non sia meramente assistenziale e anzi volta a sostenere i comparti più avanzati e strategici. Tuttavia, da questo non si può più prescindere se si vogliono almeno calmierare gli effetti della crisi in corso. Noi riteniamo che la scossa concreta verrà non (tanto) da un diverso approccio economico ma addirittura geopolitico, adatto a rimettere in discussione il ruolo del nostro Paese sulla scacchiera mondiale, poiché la vera crisi attiene oggi ai rapporti di forza globali, prima del resto che pure prende il davanti della scena.