Vi proponiamo sul nostro sito www.ripensaremarx.it un nuovo saggio di Gianfranco La Grassa intitolato Contro le “quattro ideologie” che presenta una lettura innovativa del campo sociale odierno, laddove agiscono quattro ideologie principali che con la loro azione (in buona fede o meno) obnubilano la reale natura dell’insieme capitalistico, portando alla reiterazione di vecchi errori d’interpretazione e a nuovi abbagli teorici.
Queste ideologie, per quanto agli antipodi, finiscono spesso per incorrere in inesattezze alquanto assimilabili.
In particolare, La Grassa si concentra sulla scarsa attenzione manifestata dalle correnti variamente riconducibili al marxismo e dalle scuole liberiste e neoliberiste nei confronti dei cosiddetti saperi strategici che sorreggono il conflitto interdominanti, vero “motore” che dinamicizza la formazione capitalistica generale sia nelle sua declinazione globale che nell’articolazione a livello di singole formazioni sociali.
Da questo punto di vista tanto l’ideologia di sinistra (keynesiana) che quella di destra (liberista), restano ingabbiate in una visione fortemente anacronistica (da primo stadio del capitalismo), con conseguente appiattimento dell’analisi o verso il ruolo di redistribuzione della ricchezza sociale da parte di un organismo (lo Stato) considerato super partes, nel primo caso, o nella direzione di una fantomatica mano invisibile riequilibratrice del mercato, nel secondo.
Entrambe queste due ideologie, non prendono in considerazione la politicità del conflitto strategico che penetra le diverse sfere sociali: quella economica, quella politica (con le sue propaggini militari) e quella ideologico-culturale. La caratteristica precipua del sistema capitalistico deriva primigeniamente dal conflitto politico tra agenti decisori che si incunea direttamente nella sfera economica innescando una spinta centrifuga atta a “spezzare la produzione in tanti organismi separati”, determinando, al contempo, la frammentazione dell’intero corpo sociale e la sua stratificazione in classi o gruppi nient’affatto omogenei.
L’economico quindi prende il davanti della scena con i suoi specifici attori e prodotti (le imprese, la merce, il denaro, il mercato) ma non esaurisce l’universo capitalistico. Tuttavia, è sempre difficile stabilire in assoluto quali, e di quale sfera d’appartenenza, saranno i gruppi strategici predominanti, poiché esistono elementi di compenetrazione tra ambiti sociali e grandi differenze tra congiunture storiche che possono favorire l’ascesa ora di alcuni gruppi ora di altri. Ad esempio, come sostiene La Grassa, ci sono fasi storiche dove il dominio di classe è più unitario ed il conflitto più strisciante per cui sono gli agenti politici (in alcuni gruppi particolari) che prendono il sopravvento. In altre situazioni, come l’attuale caso italiano dove si registra una sottomissione dei gruppi strategici autoctoni ai gruppi dominanti della potenza centrale (Usa), i margini di azione politica sono ristretti per gli agenti decisori che operano in tale sfera, per cui sono gli agenti strategici economico-finanziari a condurre ad unità (momentanea) la formazione capitalistica nostrana, legando più che mai i propri interessi a quelli della formazione predominante a livello globale.
Entrambe le ideologie citate (di destra e di sinistra) si sono disinteressate dello iato esistente nel capitalismo tra conflitto strategico per il dominio (che comporta un confronto/scontro tra gruppi di agenti strategici nella formazione nazionale e in quella globale) e razionalità strumentale (trasformazione di dati input in dati output in rispondenza alle leggi dell’efficienza economica).
Dato questo quadro è chiaro che qualsiasi analisi teorica che prescinda da tali elementi – 1. l’articolazione spaziale dei gruppi dominanti nelle formazioni particolari; 2 lo scontro tra gruppi dominanti all’interno di una nazione o di un’area ad omogeneità culturale – sarà incapace di cogliere la vera natura del capitalismo. Secondo La Grassa, alcune correnti teoriche che inizialmente si erano presentate come rivoluzionarie e antiborghesi, hanno trascurato il punto 2, tanto da ritrovarsi alleate con il grande capitale (i cosiddetti rivoluzionari dentro il capitale) optando infine per una pura politica di potenza di tipo imperialistico (fascismi). Le altre (quelle comuniste) hanno invece volutamente tralasciato l’analisi del punto 1 – convinte che dalla impossibilità del Capitale di ricondurre a sintesi la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e irrigidimento dei rapporti di produzione sarebbe maturata, nelle viscere stesse della vecchia società, la nuova società a modo di produzione socialista – deviando verso forme di natura statalistica, o di tipo lassalliano (statalismo autoritario) o di tipo simil-keynesiano (statal-riformismo). Quando queste due correnti, che si sono ferocemente fatte la guerra per un’epoca molto lunga, sono collassate, specie nella debole Europa, si è aperto un vuoto politico che è stato immediatamente occupato dalle attuali correnti di “destra” e di “sinistra”, portatrici di altrettante ideologie sintetizzabili con le espressioni “keynesismo sociale” e “neoliberismo globalizzato”. Mentre la prima, immemore di quello che rappresenta lo Stato in una società divisa in classi, continua a sostenere un non più possibile intervento del pubblico a favore dei settori più deboli (welfare, politiche assistenziali ecc. ecc.) – cosa decisamente antistorica visto che siamo fuorusciti dalla fase monocentrica del capitalismo “occidentale” nella quale si era coagulato un fronte comune in funzione anti-sovietica – i secondi premono per una riduzione della spesa statale e per l’eliminazione di lacci e laccioli pubblici all’intrapresa privata ignorando (o fingendo d’ignorare) che senza lo Stato “di classe”, con i suoi apparati coercitivi e ideologici, tutto il sistema finirebbe per scollarsi; non a caso Gramsci parlava di “egemonia corazzata di coercizione”, dice La Grassa.
Quindi il campo sociale attuale sarebbe diviso e attraversato in/da quattro ideologie, due assolutamente egemoniche quali quella liberista (di destra) e quella statal-keynesiana (di sinistra) e da altre due ideologie in stato di apnea, ovvero quella che sostiene la vecchia divisione in classi (sfruttatori e proletari) del capitalismo (i cosiddetti rossi) e quella della mera politica di potenza (i bruni) che ha sì allargato il campo delle convergenze culturali ben oltre il nomos nazionalistico dei fascismi d’antan ma in funzione di altrettanto immaginarie comunità organiche ed autarchiche.
Il consiglio di La Grassa è quello di liberarsi di tutte queste ideologie le quali anche qualora non facessero danni (ma li fanno eccome!) sono comunque completamente inutili per far avanzare l’indagine sulla società attuale. Soprattutto occorre convincersi che il nucleo principale di una nuova teoria anticapitalistica deve risiedere nella comprensione del conflitto strategico interdominanti e nel suo dipanamento attraverso le sfere sociali che compongono le diverse formazioni capitalistiche.
La Grassa ribadisce che non si tratta affatto di eliminare l’ideologia tout court per cercare la completa trasparenza sociale bensì di superare le ideologie vetuste che impediscono di avere un quadro più chiaro dell’oggetto di studio.
E ora vi invito alla lettura.