CONTRO IL NEOROMANTICISMO ECONOMICO (E SOCIALE)
1. Sarebbe a mio avviso utile rimettere in lettura alcuni testi di Marx (a partire dal Manifesto del 1848) e lo scritto di Lenin contro il romanticismo economico. Il pensatore principale di tale corrente, obiettivo delle critiche (rivolte ancor più ai suoi seguaci; ad es. in Russia i populisti o “amici del popolo”), è Sismondi, di cui non va sottovalutata comunque l’importanza. Ci si potrebbe, per altri versi, riferire anche a Proudhon, autore tuttavia nettamente meno acuto e interessante. Non appartiene a questa schiera, invece, il notevole Saint-Simon, che è assai più moderno e potrebbe essere considerato quasi un precursore delle tesi intorno al potere manageriale in quanto carattere tipico del capitalismo (in tal senso è più avanti di tanti marxisti, perfino dei giorni nostri, che altro non vedono del capitalismo se non il suo aspetto proprietario e l’estrazione di plusvalore/pluslavoro).
E’ ovvio che rileggendo le critiche rivolte a Sismondi da Marx (che tacciò di reazionarietà quel tipo di pensiero) e di Lenin, è necessario non lasciarsi imbrigliare dalle loro specifiche argomentazioni, che risentono delle condizioni economico-sociali delle formazioni capitalistiche in cui i due rivoluzionari pensarono e agirono. Oggi, chiaramente, non esiste più l’artigiano in senso stretto, in quanto produttore di merci nella sua bottega con semplici strumenti e con il predominante lavoro personale, coadiuvato da pochi altri addetti, spesso gli stessi familiari. Egualmente dicasi per quanto riguarda la minuscola conduzione agricola su piccoli appezzamenti di terra propria e pur sempre con strumenti e lavoro in prevalenza personali e della famiglia. Non esiste più insomma quella produzione mercantile semplice che, secondo Marx, fiorì brevemente nel periodo di transizione tra feudalesimo e capitalismo, trasformandosi velocemente in quest’ultimo a causa dei processi di “espropriazione degli espropriatori”, cioè di centralizzazione del capitale susseguente alla concorrenza tra produttori di merci che condusse al successo di pochi e al fallimento di molti.
Eppure ha ancora oggi senso parlare di romanticismo economico (con l’aggiunta del termine sociale) perché – pur in completamente mutate condizioni storiche e dopo un paio di secoli di sviluppo capitalistico industriale che ha radicalmente trasformato il mondo, rendendolo del tutto irriconoscibile nei suoi connotati tecnici, nei modi di vita, e relativamente alle sue strutture sociali e politiche – le idee del “romanticismo” continuano a prodursi; certo anch’esse cambiate in profondità e difficilmente riconoscibili in base ad un approccio meramente “fenomenico” (“di superficie”). Anche la funzione di tali correnti di pensiero è trasformata. Un tempo, esse esprimevano la “nostalgia” del passato – e la paura, il timore, del futuro – di strati sociali travolti dallo sviluppo capitalistico. In questo senso, il “socialismo romantico” era reazionario, perché voleva frenare l’evoluzione storica, voleva arrestare la dinamica del capitale, protraendo all’infinito l’esistenza della piccola produzione mercantile. Ciò sarebbe stato intanto poco utile e anzi negativo, perché avrebbe bloccato la crescita (non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa) delle forze produttive, avrebbe arrestato l’avanzamento scientifico e tecnico, impedito la rottura delle limitate e asfittiche comunità localistiche di quel tempo, protratto quello che Marx definiva “idiotismo rurale”, ostacolato quello che è invece stato l’esponenziale infittirsi dei viaggi e contatti – e la loro crescente velocità e frequenza – tra tutte le popolazioni del globo. Oltre a questo, era ormai del tutto impossibile, sulla base della produzione mercantile generalizzata, mantenere regolamentazioni corporative, proibendo la concorrenza che comportava la concentrazione della produzione e dei capitali, l’aumento delle dimensioni delle unità produttive con crescente introduzione di macchine e sistemi di macchine, ecc.
Oggi, quei tentativi di arrestare l’evoluzione dei sistemi capitalistici non avrebbero più senso, nessuno potrebbe mai pensarci; solo qualche storico è in grado di ricostruire il clima di quelle epoche lontane. I viaggi e i contatti tra le più distanti contrade e popolazioni sono la norma, il localismo è un fenomeno del tutto residuale e ultramarginale. L’avanzamento tecnologico è un dato di fatto e praticamente nessuno (qualche pazzo isolato lo si trova sempre in ogni epoca) intende porsi in un orizzonte che non contempli i computer e l’informatica, le telecomunicazioni; e fra poco la robotica e un po’ più avanti magari i viaggi interplanetari, e via dicendo. Il “romanticismo” odierno esprime ben altre paure – così ben evidenziate, in ogni successiva epoca dello sviluppo capitalistico (da
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quella meccanica a quella elettrica a quella informatica e robotica), dalla letteratura e poi dal cinema fantascientifico – e su queste fa leva per ottenere comunque vantaggi a favore delle classi dominanti; e non è un caso che perfino alcuni importanti personaggi, appartenenti agli strati più elevati di tali classi, partecipino a pieno titolo alla diffusione del “romanticismo” in questione, pagando pubblicazioni, film, spettacoli televisivi e schiere di intellettuali in giro a tenere seminari e conferenze, per paralizzare e deviare le possibili reazioni di massa contro il potere, distogliendo l’attenzione dalle strutture sociali della loro dominazione, vera causa delle sofferenze, dell’oppressione, dello sfruttamento, dei dominati.
Di conseguenza, nell’epoca attuale il romanticismo economico-sociale non è fondamentalmente reazionario, non rappresenta in realtà un freno allo sviluppo. Tutto avanza comunque velocemente; i costumi e le abitudini, la mentalità collettiva, la morale, ecc. subiscono continue e veloci trasformazioni (certamente non in meglio, a mio avviso), in concomitanza con l’esponenziale e inarrestabile progresso della tecno-scienza, che molti disprezzano, criticano, sostenendo – e, sempre secondo la mia opinione, talvolta a ragione – che essa è causa di imbarbarimento, ma di cui tutti (salvo marginali e lamentevoli eccezioni) sfruttano le occasioni e le nuove possibilità apertesi. Certe correnti di pensiero “romantiche” non esprimono più, come un tempo (nella fase tutto sommato ancora iniziale dello sviluppo capitalistico), la presenza di vasti strati sociali ereditati dalla passata formazione sociale, bensì sono indice della “falsificazione” delle previsioni marxiane relativamente ai risultati “finali” della dinamica del capitale.
Come ho fatto presente ormai molte volte, quest’ultima non ha condotto alla tendenzialmente netta scissione dicotomica della società: il piccolo gruppo di rentier ad un polo, e la gran massa dei lavoratori salariati (del braccio e della mente) all’altro polo. Abbiamo una società estremamente diversificata (segmentata e stratificata) e in continua complessificazione (e complicazione). La frammentazione e dispersione dei frammenti nello “spazio sociale” (idealmente formato da segmenti e strati) è una dinamica provocata da processi di differente intensità e durata; ci sono periodiche grandi ondate di innovazioni, tra le quali si situano periodicità più brevi caratterizzate da minori onde di “progresso”. Tutto questo movimento non è semplicemente impersonale e autopropulsivo come si vuol far credere, spesso con i riferimenti al “sistema” e alle sue “leggi”. Certo, esiste un sistema ed esiste qualcosa di (assai vagamente) simile a delle leggi (vere leggi non sussistono probabilmente nemmeno in natura; oggi molti ne sono convinti). Tuttavia, le ondate innovative di diversa periodicità, ampiezza e forza, trovano – o anche creano – i soggetti che le realizzano; e le modalità di questa realizzazione rinviano al conflitto per il predominio, conflitto in cui non sono affatto tutti eguali, ma una minoranza è quella che veramente cavalca il cambiamento e ne gode i maggiori vantaggi in termini di conquista della preminenza.
In questo convulso “progredire” – che fa del capitalismo una società particolarmente “calda” – ci sono parti sociali che regrediscono e decadono e altre che avanzano e prendono il davanti della scena in ogni nuova grande epoca dello sviluppo (ondata innovativa) della società. Per evitare che in questi periodici, ma continui, “strappi in avanti” si producano gravi lacerazioni e disgregazioni del tessuto sociale, occorre la presenza di una ideologia a duplice faccia, e i cui due suoi aspetti siano in reciproca simbiosi (siano le due facce della stessa medaglia): il lato del successo e della crescita di peso sociale in quanto merito (presunto) delle proprie (pretese) superiori capacità intellettive e di veloce adattamento alle nuove condizioni; e il lato del relativo arretramento e diminuzione di rilevanza dei propri ruoli, processi attribuiti (per “consolarsi”) alla maledizione e fatalità legate al “mostruoso automa” del progresso tecnico-scientifico.
L’importante è che tale ideologia renda impossibile la visibilità, l’individuazione, dello strato sociale (minoritario) costituito da quei “soggetti” che di fatto, tramite il loro conflitto per la supremazia (e le modalità “perverse” dello stesso), sono i portatori delle funzioni che danno impulso alle suddette ondate innovative. In questo modo, viene di fatto sterilizzata ogni volontà di reale trasformazione della struttura sociale che vede il dominio di gruppi (ristretti) costituiti dagli agenti strategici del suddetto conflitto. La “lotta di classe” – che, nel marxismo, era considerata sempre più netta
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e irriducibile, di carattere rivoluzionario, poiché si supponeva la chiara scissione della società in due raggruppamenti (uno sempre meno numeroso, l’altro in continuo allargamento), con crescente visibilità dell’uno agli “occhi” dell’altro – diventa in realtà molto meno perspicua, nient’affatto rivoluzionaria, quand’anche raggiunga alti livelli di acutezza. In realtà, non si tratta mai di lotta di classe – che presupporrebbe appunto lo scontro tra due classi decisive – ma di conflitto tra varie parti della società (segmenti e strati) per conquistare migliori posizioni nell’ambito della stessa che, nella sua evoluzione, è comunque sempre caratterizzata in senso capitalistico.
E’ in quest’ambito, sommariamente delineato, che acquista significato il “neoromanticismo”. Non più semplicemente economico, bensì più generalmente sociale; ed esso rappresenta uno dei lati dell’ideologia di cui sopra: il lato della “consolazione” per coloro che si trovano in relativo arretramento – o che comunque conseguono un assai minor successo – nell’ambito delle periodiche (e di diversa periodicità) ondate innovative connesse all’acuirsi (in specie nelle epoche che definisco policentriche) del conflitto tra agenti dominanti per la supremazia.
2. Nella situazione sinteticamente appena descritta, il romanticismo economico presenta aspetti svariati e multiformi, ed è in genere orientato e patrocinato dai gruppi dominanti, poiché costituisce uno dei lati dell’ideologia che consente la loro preminenza nell’ambito della totalità sociale. Una egemonia che deve lasciar largo posto alla competizione (“stato d’animo” fondamentale per la riproduzione capitalistica), e tuttavia anche allo sfogo delle frustrazioni dei segmenti e strati sociali in relativo calo di peso e importanza rispetto ai nuovi che emergono nelle periodiche ondate innovative. L’egemonia non è più quella considerata da Gramsci in una società ancora agrario-industriale; è invece quella necessaria in una società a ormai netta prevalenza industriale e dei servizi, dove importanti non sono più le “alte” correnti culturali (e i “grandi intellettuali”), bensì l’articolarsi degli “specialismi” nel progressivo frammentarsi “a scatti” della società in seguito alle più volte citate ondate innovative.
Per questo diventa assai più complicato individuare i connotati e sintetizzare le posizioni dei nuovi “romanticismi” (ormai al plurale). Prendiamone velocemente ad esempio uno che ha avuto nel nostro paese grande fortuna e rilevanza: quello sintetizzato dal “piccolo è bello”, oggi piuttosto démodé e criticato in “alto loco”. Non si è trattato di una ideologia originatasi dalla resistenza della piccola produzione mercantile all’avanzata della grande industria basata sulle macchine, bensì della forma specifica assunta dall’accumulazione del capitale nella trasformazione dell’Italia da società agrario-industriale a prevalentemente industriale. E’ in questa fase che si sono create le illusioni comuniste sul compattarsi degli operai in una classe fortemente maggioritaria, interessata alla trasformazione rivoluzionaria del capitalismo e in grado di realizzarla. La violenza della “lotta di classe” era in realtà solo il riflesso del forte disagio dei contadini che si andavano trasformando in operai di fabbrica, con tutti i fenomeni conseguenti all’urbanesimo, alla concentrazione del lavoro salariato (di tipo esecutivo, privo di specializzazione) in aree ristrette e malsane, ecc. (per questi fenomeni è meglio rifarsi alla letteratura, e al cinema, che a certi trattati di spicciola sociologia).
L’Italia ha anch’essa attraversato questo periodo (in specie negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso), in cui i comunisti e marxisti (me compreso) hanno pensato si andassero accumulando le condizioni di una possibile rivoluzione. Non solo questo non era vero, ma nel nostro paese certi fenomeni sono stati accompagnati, e alla fin fine socialmente attutiti, dal fatto che – nel mentre si sviluppava l’industria “fordista” (in specie metalmeccanica: automobili, elettrodomestici, ecc.), nel mentre le forze dette “operaie” (PCI, CGIL, ecc.), rimbambite dalla secolare credenza che la statizzazione fosse l’anticamera del socialismo, appoggiavano lo sviluppo dell’IRI, dell’industria di Stato (in funzione sedicente antimonopolistica) – le classi dominanti, avendo trovato la loro migliore espressione politica nel centrosinistra di allora (DC-PSI), promuovevano appunto uno sviluppo diffuso della piccola imprenditoria ben adagiata e complementare rispetto alla grande, di cui costituiva (almeno per la maggior parte) il supporto, il cosiddetto “indotto”. Vi erano però anche le sedicenti produzioni di “nicchia” (da qualcuno spiritosamente ridefinite “di minchia”); e tutto l’insieme imprimeva
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comunque forte impulso ad una sorta di “autosfruttamento” (chi produceva pervaso dall’ideologia dell’essersi “messo in proprio” si prodigava ben oltre i normali orari e intensità del lavoro) e anche alla creatività del piccolo imprenditore, dando origine ad una serie di innovazioni (di prodotto e di processo) poi sfruttate dalle maggiori imprese (leader). Non si trattava però mai delle vere grandi ondate innovative sunnominate; solo modeste novità, comunque sufficienti ad incrementare la produttività e la produzione, i consumi e l’ampiezza dei mercati, la creazione di profitti e dunque l’accumulazione capitalistica complessiva.
Soprattutto – questa l’effettiva rilevanza del fenomeno – fu creato uno scudo (sociale) protettivo del grande capitale. Nessun comunista (e marxista) si accorse che le grandi lotte, sia contadine (bracciantili) che operaie (soprattutto nelle aree settentrionali di immigrazione dei contadini meridionali in marcia verso la condizione operaia), andavano progressivamente smussandosi contro una crescente massa sociale costituita di piccoli proprietari (il lavoro detto autonomo), mentre si formava nella grande industria una serie di non esigui strati di specialisti e manager di medio livello. La famosa marcia dei 40.000 quadri d’impresa, che nel 1980 segnò la sconfitta del movimento operaio alla Fiat, è stata un preciso simbolo oltre che segnale di un cambiamento decisivo che i miseri (e miserabili) resti dei comunisti e marxisti si rifiutano ancor oggi di vedere. Tale cambiamento, perdurante ormai da più di vent’anni, ha però prodotto anche la progressiva usura del “piccolo è bello”, il calo d’importanza – a fini di stabilità sociale non meno che di sviluppo economico grazie al suddetto “autosfruttamento” – della diffusione di un ceto lavoratore piccolo-proprietario, all’interno del quale si sono andati producendo crescenti fenomeni di stratificazione nettamente diversificata quanto a livelli di reddito, a status sociale, ecc.
Siamo in qualche modo ad un passaggio cruciale, incardinati oggi in questa Unione Europea che non rappresenta per nulla, come si è riusciti ideologicamente a far credere alla maggioranza della popolazione, un’ancora di salvezza per noi (è anzi l’esatto contrario, pur se non avrebbe più senso a questo punto battersi per la nostra uscita da un simile baraccone e immondezzaio). Del resto, se l’appartenenza alla UE non ci aiuta gran che, bisogna ben dire che noi siamo ad essa ormai omogenei, solo con tutti i suoi “vizi” portati all’ennesima potenza.
La grande impresa statale è sempre stata in Italia un supporto di quella privata (paradigmatiche le Acciaierie di Cornigliano Ligure che fornivano materia prima sottocosto alla Fiat), salvo alcuni “gioielli”, come l’ENI di Mattei che funzionava con tutte le regole dell’efficienza e della dirigenza manageriale di una qualsiasi grande impresa (indipendentemente dalla forma giuridica della proprietà). Le “privatizzazioni” delle imprese pubbliche, a partire soprattutto dagli anni ’90, non hanno perciò cambiato nella sostanza la complessiva struttura della grande industria italiana. Il problema vero è costituito dalla sua irreversibile decadenza poiché essa è formata da grandi imprese di settori che non sono più quelli della nuova ondata innovativa (come, nel dopoguerra, furono quelli fordisti, ad es. il metalmeccanico). Oggi, incredibilmente, la subordinazione dell’Italia all’egemonia imperiale statunitense è ancora maggiore di quella esistente nelle disastrose condizioni susseguenti ad una guerra in fondo persa (malgrado le giravolte dell’ultima ora). Probabilmente gli equilibri internazionali esistenti tra il 1945 e il 1989-91, che si riflettevano su quelli interni, lasciavano qualche piccolo margine di autonomia e di sviluppo autoctono con trasformazione profonda della struttura economica e sociale dell’Italia d’anteguerra (quella cui meglio si adattavano le analisi gramsciane). Il crollo del campo “socialista” e la dissoluzione dell’URSS, liberando le potenti forze “rinnegatrici” accumulatesi nel PCI in tanti anni di reiterate abiure, permise il cambio di regime in Italia con la formazione della destra e della sinistra post “mani pulite”, da me già analizzate e criticate più volte per cui mi esimo dallo spenderci qui troppe parole. Sono queste forze politiche a garantire una subordinazione agli USA tale da impedire lo sviluppo di grandi imprese nei settori più innovativi e strategicamente rilevanti (salvo i soliti casi rari).
Aggiungo solo che non può esservi alcun dubbio sul fatto – colto da pochissimi, fra cui Preve e il sottoscritto ne Il Teatro dell’assurdo (fine ’94, inizio ’95), e ancor oggi ignorato da quasi tutti (salvo Cossiga) – che il sunnominato cambio di regime fu promosso dagli USA e si basava, nelle
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intenzioni iniziali, sulla possibilità di stabilire la propria egemonia imperiale tramite i rinnegati del comunismo (oggi diessini), così come si fece in seguito, per ondate successive, in Georgia e Ukraina (con le rivoluzioni “arancione”, per fortuna largamente rifluite), nelle repubbliche centroasiatiche, ecc. Attualmente, destra e sinistra sembrano differenziarsi nettamente quanto a servilismo filo-USA (e filo-Israele), con la sinistra che finge maggiore autonomia; ma solo perché destra e sinistra si ricollegano a settori diversi dell’imperialismo americano. La sinistra non ha affatto maggiore dignità e senso nazionale della destra; è solo anti-Bush perché mira a porsi in posizione di vantaggio qualora avvenisse tra due anni il cambio di “amministrazione” nelle presidenziali statunitensi. In definitiva, la sinistra coadiuva l’inganno – perpetrato anche da squallidi personaggi tipo un Michael Moore (o il nostro Negri) – secondo cui l’imperialismo americano sarebbe soltanto una politica perseguita da questa presidenza, politica orientata dall’attuale strategia particolarmente aggressiva.
Ancora una volta si constata che i “sinistri” (in specie estremi), e certi falsi critici dell’imperialismo americano (pardon, dell’Impero senza specificazioni!), sono quasi più infidi e pericolosi della destra o della sinistra detta riformista, perché spargono illusioni su una possibile rigenerazione di quella che resta ancor oggi la potenza egemone centrale del sistema capitalistico mondiale; e che non abbandonerà certo spontaneamente simile posizione – legata a motivi strutturali, non a mere scelte politiche – pur se adatterà i suoi tatticismi alle mutevoli condizioni internazionali. Certi critici riprendono, con modalità ancora più torbide nonché superficiali, le vecchie tesi di autori come il “borghese” Hobson e il “rinnegato” Kautsky, per i quali l’imperialismo era solo una politica dovuta alla temporanea prevalenza dei gruppi capitalistici “più arretrati”. Sarebbe sufficiente la prevalenza dei “più moderni” ed ecco che l’imperialismo, e oggi le tendenze egemoniche globali statunitensi, andrebbero “in soffitta”. Attenti a certi pensatori e a certi politici: alcuni sono solo confusi e superficiali, altri invece subdoli e ingannatori, e si trincerano dietro un linguaggio populista roboante e “radicale”, ma assolutamente inconsistente e privo sia di rigore scientifico che di pregnanza politica.
3. Torniamo però all’Italia dell’epoca odierna e ai suoi lineamenti strutturali. Una grande industria tendenzialmente decotta o comunque attiva per lo più in settori non di punta, non relativi alle branche della più recente ondata innovativa. Ovviamente, non è che queste branche manchino del tutto; alcune imprese di eccellenza, quali la solita ENI e la Finmeccanica e alcune altre, ci sono. Tuttavia, esse non sono veramente integrate nel sistema complessivo, i loro gruppi dirigenti non fanno parte dell’establishment al momento dominante; in Italia, logicamente, poiché sul piano internazionale quest’ultimo non è per nulla autonomo rispetto all’egemonia americana. La dipendenza (meglio detto: subdominanza) italiana, su cui non mi diffondo in questa sede, è caratterizzata dal predominio del grande capitale finanziario – anch’esso legato e subordinato alla finanza del paese centralmente preminente – il quale usa la sua influenza politica per piegare gli apparati di Stato ad una azione di sostanziale “rapina”.
Non si tratta, sia chiaro, della classica estrazione di plusvalore, secondo i meccanismi individuati da Marx, poiché quest’ultima non è affatto un furto, bensì la forma “storicamente specifica” (capitalistica) dello sfruttamento (ottenimento di pluslavoro) dei dominati da parte dei dominanti, processo caratterizzante ogni formazione sociale finora esistita. Abbiamo invece a che fare con un mero trasferimento di una parte del reddito (già prodotto) e con il suo accentramento verso il vertice della piramide sociale, ottenuto tramite il funzionamento degli apparati finanziari e di quelli statali (comunque “pubblici”, compresi quelli “locali”), complessamente intrecciati fra loro. Non è semplice descrivere come tutta la “baracca” funzioni, ma comunque il risultato finale è la subdominanza di gruppi capitalistici che garantiscono la subordinazione italiana agli USA, in quanto pedina di un più complesso gioco geopolitico che attualmente conduce tutti i subdominanti europei sotto la preminenza del paese egemone centrale. Tale gioco ha bisogno per il suo svolgimento, nei paesi denominati appunto subdominanti (per non confonderli con quelli di autentica dipendenza): a) del predominio del capitale finanziario che, pur tra complicati intrecci, vede il ponte di comando situato negli
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USA; b) della sussistenza di una grande industria che non può però lanciarsi massicciamente verso i settori di eccellenza (che toglierebbero spazio a quelli americani), limitando la sua attività a quelli della passata epoca di sviluppo (ad es., ancora l’industria automobilistica, e metalmeccanica in genere), settori che debbono allora essere “pubblicamente” assistiti per non implodere, creando problemi all’economia complessiva di questi paesi subdominanti, con effetti che poi si riverbererebbero negativamente anche su quello predominante e sulla sua egemonia globale.
Nella nuova situazione che si è venuta a creare – fra l’altro con l’istituzione della moneta comune europea, che ha messo fine alle svalutazioni della lira come mezzo di sopravvivenza e sviluppo del lavoro autonomo, del minuscolo imprenditore – quest’ultimo è entrato in situazione di difficoltà, di “arrancamento”. Si tenta di non farlo crollare, ma è ovvio che progressivamente ci si avvicina al punto in cui non si potrà più alimentarlo a dovere. I dominanti – quelli della centralità della finanza in labile alleanza (e sordo contrasto di interessi) con gruppi industriali non di punta – hanno dismesso il “romanticismo” connesso al “piccolo è bello”; si inneggia adesso alle virtù dell’impresa media (non mai quella di grandi dimensioni, l’unica che potrebbe dare decisivo impulso ai nuovi settori di eccellenza). Naturalmente, di questa impresa media vengono esaltate le capacità innovative (in pochi casi d’avanguardia), l’apertura verso i mercati globali, lo staff manageriale integrato in una “classe medio-alta” internazionalizzata per la lingua parlata, per le abitudini contratte, per i posti che frequenta, ecc. Una “classe” che in realtà copia tutti i peggiori tic di quella più alta (della finanza e della grande industria “asfittica”) e si sente, anche culturalmente, legata a quella dominante statunitense. In realtà, questa middle class (nei fatti, più alta che media!) non ha proprio nulla a che vedere con qualsiasi forma di “romanticismo”; crede generalmente nel progresso tecnico, nella sua funzione manageriale che si fonda su di un forte avanzamento specialistico (e su più fronti).
Le medie imprese sono però in Italia 4000; mentre le partite IVA, i lavoratori autonomi, superano i sei milioni. La grande finanza e i settori industriali bisognosi di assistenza pubblica puntano ormai a “pelare” questi ultimi, non tanto per questioni di debito pubblico e deficit – che rappresentano la solita copertura ideologica delle malversazioni e “rapine” effettuate nei confronti di tali ceti – quanto per la necessità di sostenere in qualche modo i gruppi grande-imprenditoriali decotti, di manovrare per fusioni e concentrazioni (o scorpori fittizi quando ciò occorra per esigenze tattiche) soprattutto nel settore finanziario, tenuto conto della competizione in atto tra i subdominanti (europei e italiani) e delle contropartite da dare ai predominanti centrali onde mantenere in piedi i rapporti di forza geopolitici attuali. Si tratta di asciugare di un bel po’ il reddito del lavoro autonomo, del resto ormai molto differenziato tra i suoi vari strati, senza più nemmeno l’ideologia galvanizzante di un tempo. Ci si riesce momentaneamente mettendo i salariati contro gli autonomi. In realtà però, come dimostrano le indagini sul voto operaio (che è andato in misura sorprendente verso destra), ci si riesce al momento tramite un’alleanza (tattica e di non ampio respiro) tra i grandi blocchi finanziari e le grandi imprese industriali (quelle bisognose di assistenza pubblica), da una parte, e gli apparati sindacali (cooptati nel potere dai subdominanti) che controllano una buona quota del lavoro salariato, dall’altra; e tuttavia, anche quest’ultima appare in fase di “scontentezza” crescente.
In realtà, si è al presente ben lontani dalla possibilità di costituire dei veri blocchi sociali, che siano formati dall’alleanza tra più strati della popolazione, tenuti insieme da una forte ideologia di identificazione, di creduta comune appartenenza. Lo scollamento appare invece notevole; anche la destra, nei suoi tentativi di rappresentare il crescente disagio e malcontento (vicino alla rabbia) del sedicente “ceto medio” – si tratta invece, lo ripeto, di lavoro autonomo, ormai molto diversificato in tanti strati con livelli di reddito nettamente differenti – non ottiene (per fortuna) gran successo; ha recentemente organizzato una indubbiamente vasta mobilitazione con manifestazione, ma ha poi dimostrato di non possedere la minima idea di come gestire la situazione. Il centro-sinistra (che va dall’ultradestra Udeur ai sedicenti radicali che “indossano” ancora la denominazione di comunisti) è più o meno nelle stesse condizioni; è avvantaggiato dall’avere l’appoggio della grande finanza e della grande imprenditoria industriale decotta, ma tiene in piedi l’insieme solo tramite la corruzione, le clientele, i favoritismi, i plurimi rivoletti di denaro sprecato in varie direzioni: comprese quelle
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verso stampa, editoria, cinema e una miriade di associazioni “culturali” (senza cultura), ambientaliste, assistenziali, di centri sociali, di piccole e inefficienti attività di servizio, ecc. Il vero collante del “baraccone” è il marcio dilagante, sempre più putrido e dispendioso di soldi pubblici (nel mentre si tuona sulla necessità di ridurre la spesa pubblica per pensioni e sanità, onde alleviare il famoso debito, il deficit, ecc.).
4. In definitiva, manca ormai da tempo (dall’epoca della fine della prima Repubblica) un vero collante ideologico (in positivo) che tenga insieme più gruppi sociali sotto l’egemonia di date frazioni dei subdominanti italiani. Per questo non si è mai veramente transitati alla seconda repubblica; scarsa è la coesione sociale, non vi sono più progetti strategici, per quanto magari miserrimi. Nella sfera economica abbiamo le sanguisughe della GFeID (grande finanza e industria decotta); in quella politica gli attuali schieramenti di destra e sinistra, esito disastroso del ricambio di regime (orientato dagli USA) iniziato con l’operazione “mani pulite” e continuato in mezzo a convulsioni, mutamento di nome dei partiti, inarrestabile processo di loro scissione e riaccorpamento, incessanti cambi di “casacca” anche a titolo individuale, ecc. Il degrado velocissimo, lo sbriciolamento politico-culturale, il galleggiamento nella me … lma, cui stiamo assistendo, si spiegano solo con la totale perdita di una qualsiasi presa ideologica da parte di scandalose lobbies di tipo mafioso che mostrano alla luce del Sole la loro totale assenza di moralità e il perseguimento di interessi che sono soltanto i loro. Fenomeni del genere avvengono anche negli altri paesi europei (un’area complessivamente in decadenza); tuttavia, da noi essi sono più evidenti e segnalano un corrompimento estremo degli affari, della politica, della cultura. Solo alcuni altri paesi dell’Europa orientale (ex “socialisti”) tengono forse il nostro passo veloce verso il pantano.
Possiamo dunque prevedere un periodo assai lungo, e difficilmente reversibile, di totale incapacità egemonica dei gruppi subdominanti italiani, agenti ai vertici delle varie sfere sociali. Come operano allora tali gruppi onde resistere il più possibile nelle loro posizioni di preminenza? Non sono in grado di svolgere una positiva funzione di coesione dei vari segmenti e strati sociali, o almeno di una loro consistente parte, attraverso l’azione ideologica. L’unica alternativa è quella di impedire che sorgano contro di loro determinati organismi in grado di raccogliere il diffuso malessere popolare, di dargli la forma necessaria a innescare un’azione dirompente nei confronti di “classi” preminenti ma non più veramente dirigenti. Da una parte abbiamo il formarsi di quella middle class (più alta che media) di cui si è già parlato; un ceto sociale in definitiva esile sia come consistenza numerica, ma soprattutto incapace di rappresentare un esempio e un traino per altri segmenti e strati, poiché si tratta di un corpo sostanzialmente estraneo al più complessivo tessuto sociale nazionale, per quanto questo sia lacerato e consunto. Il vero impedimento al coagulo di forze in grado di sbrecciare il potere dei subdominanti – lasciando per il momento sullo sfondo le rispettive probabilità di successo di una “rivoluzione” dentro o contro il capitale – è rappresentato dal diffondersi di una vera e propria costellazione di “neoromanticismi”, che qui non analizzo limitandomi ad una succinta elencazione.
Abbiamo le “teorie” (sto usando un termine pomposo per “stati d’animo” confusi e velleitari) della decrescita e della sfiducia nei confronti della disprezzata tecno-scienza, stati d’animo che a volte osano spingersi fino a propositi di “sviluppo sostenibile” (dizione assai generica dove ci può stare di tutto). Contrariamente a quello che alcuni pensano (ivi compreso l’amico Preve), tali correnti di pensiero non sono da criticare (benevolmente) soltanto perché non prendono in considerazione i problemi relativi all’esercizio di una autentica opposizione alla predominanza americana, che esige la padronanza di strumenti “di potenza”. Questa necessità è soltanto una parte del problema; importante, ma meno di quanto non lo sia un fatto assai più decisivo. Da simili posizioni scaturiscono attività politiche di programmatico minoritarismo, prive della possibilità di influenzare e trascinare dietro di sé il grosso delle popolazioni dei paesi capitalistici avanzati: tipo quella italiana, ed europea in genere, con la conseguenza, sempre più visibile, dello scivolamento progressivo delle nostre società verso la subordinazione ai progetti di preminenza globale statunitense, sia che questi
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ultimi vengano portati avanti con le attuali strategie fortemente aggressive o, un domani, con altre più flessibili e “avvolgenti”. La critica verso tali “teorie” deve quindi essere assai aspra e senza mezzi termini. A scanso di equivoci, sia chiaro che non c’entra nulla il disinteresse per le questioni del dissesto e degrado ambientale, ecc., su cui quando avrò tempo preciserò meglio la mia posizione. Intanto, però, critico duramente chi maschera dietro le preoccupazioni per tale degrado un atteggiamento tendente a sviare l’attenzione dalla ben attuale degenerazione politica e sociale, dal marasma creato dai nostri subdominanti ormai in piena crisi di egemonia.
Le tesi della decrescita sono però solo una delle numerose forme di neoromanticismo dei tempi nostri, tutte particolarmente fastidiose e molto squallide (povero Lenin se avesse dovuto avere a che fare con queste invece che con quella degli “amici del popolo”). Ricordo velocemente le chiacchiere – in cui erano particolarmente versati i “rifondaroli” prima di divenire molto “istituzionali” – sui “movimenti” e “il Movimento dei movimenti”; poi quelle sull’economia solidale, sulle banche etiche, sulle organizzazioni (fraudolente) che amministrano aiuti ai diseredati del fu terzo mondo (vere e proprie elemosine, molte delle quali dirottate chissà dove). Non parliamo dei social forum e altre riunioni per la “salvezza del mondo”, dove centinaia di intellettuali, grandi e piccoli, vanno a “far vetrina”, girando il mondo 365 giorni l’anno; e non so chi paga loro i viaggi, la ristorazione e l’alloggio (e sono convinto che i più famosi, e venditori di fumo, godranno anche di non modesti cachet). E dove mettiamo le “moltitudini” che si ribellano, nella testa di chi racconta tali frottole, all’Impero (che forse è quello di “guerre stellari”, tanto distante è dalla strutturazione geopolitica del mondo reale odierno)? Più serie appaiono almeno alcune (non tutte le) correnti del “volontariato”; l’importante è però che non si creda di sopperire con ciò alla presente carenza di teoria e prassi tese ad un radicale anticapitalismo e antiegemonismo (americano).
Purtroppo, a fronte di questi ambienti politici e intellettuali letteralmente truffaldini – e che dai loro inganni e raggiri, fatti di idee torbide e fumose, traggono finanziamenti non esigui da parte dell’establishment privo di egemonia di cui si è detto – stanno i comunisti e marxisti “duri e puri”, quelli che ancora credono nella “Classe”, rancorosi e sempre in lite fra loro, in continua scissione persino da se stessi. O i terzomondisti, sempre “fedeli nei secoli”. E infine i pacifisti, i cultori della non violenza, che consentono a furbastri come il nostro attuale Ministro degli Esteri di fare un figurone, dimostrando alla grande maggioranza della popolazione quanto lui è “concreto” e “pragmatico”, di fronte a velleitari e inconcludenti chiacchieroni: alcuni sicuramente in buona fede, altri autentici mascalzoni che recitano il “controcanto” rispetto ai “realisti” delle “missioni di pace”, non contrastate “nemmeno da Cina e Russia” (tornerò presto nel blog su questa demagogica uscita del “velista” che naviga agli Esteri).
Non si può essere benevoli verso tutta questa genia che passa per “sinistra radicale” o anche “estrema” e perfino “rivoluzionaria”. In un’epoca storica, in cui i gruppi dominanti di quest’area in decadenza che è l’Europa, ma soprattutto in questo nostro paese del tutto dissestato, sono ormai all’asfissia per quanto riguarda la presa egemonica, in cui quindi non vi sono affatto reali blocchi sociali orientati ideologicamente da effettivi vertici dirigenti, quest’accozzaglia caotica e informe di neoromantici e di dogmatici difensori del Verbo, pur esigua e infinitamente minoritaria, svolge la funzione di impedire la nascita dei primi “nuclei della trasformazione” (con l’obiettivo finale, e certo non prossimo, di abbattimento e sradicamento di queste nostre indecenti “classi” di subdominanti nelle diverse sfere sociali), creando così le condizioni del vero e attuale degrado – che è quello politico e culturale – e consentendo quindi il protrarsi del predominio di “classi” (immerse nella palude della putredine e del ristagno, sociale più ancora che semplicemente economico), marcio fin dalle fondamenta, pur se si è entrati in una fase di crescente disagio e malcontento, conseguenti al peggioramento delle condizioni di vita dei più.
Questi “sinistri estremi” – mi riferisco solo ai dirigenti politici e intellettuali, non all’insieme di “coloro che seguono” – non sono semplicemente “individui che sbagliano”, tutt’al più da neutralizzare. Si tratta invece delle prime trincee di difesa dei subdominanti italiani, arrivati alla più completa carenza di capacità egemonica, quindi di formazione di un blocco sociale che dia stabilità al loro
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potere. Queste trincee debbono essere spianate, perché dopo di esse si incontra, nella maggioranza della popolazione, il malcontento, il sempre più difficile “tirare avanti”, la sensazione di essere incessantemente turlupinati dai cosiddetti “poteri forti”; esiste quindi qualche possibilità – una volta franata l’azione “deviante” compiuta dagli attuali “falsi critici”, che impedisce la formazione di effettive organizzazioni (non “movimenti”) in grado di svolgere una autentica attività di trasformazione, adeguata alle condizioni dell’oggi – di procedere verso i bastioni, traballanti e marciti, di un potere certo opulento e pingue, ma indebolito dalla sua corruzione e inconsistenza di idee e di cultura. I “sinistri estremi”, portatori dei “neoromanticismi” o del dogmatismo cristallizzato, sono quanto meno “oggettivamente” un ostacolo sulla via del cambiamento e del logoramento del presente blocco di (puro) potere finanziario-politico: che li foraggia infatti tramite mille canali (e non con solo denaro, ma con “onori” istituzionali e accademici, editoriali e massmediatici, ecc.). E sappiamo bene che, una volta “perso il tram della Storia”, subentra l’inedia, la rassegnazione, l’“arrangiarsi” individualistico dell’“ognuno per sé”.
Sono conscio del fatto che la maggioranza degli influenzati dai neoromanticismi e dal dogmatismo sono animati dalle migliori intenzioni. Se così non fosse, non continuerei a tenere contatti soprattutto con appartenenti a tali settori. La buona fede non cambia però i dati della situazione, e non può esimere dalle critiche contro dei nemici ideologici, e fra i più pericolosi. Essi influenzano una minoranza, è vero, e anche piccola; ma si tratta proprio di quella minoranza che potrebbe dar vita ai primi nuclei della lotta contro i subdominanti in crisi di egemonia. Quindi, questi dirigenti politici e gruppetti di intellettuali verminosi e infidi, che sono i “cattivi maestri” (e lo sono solo in tal senso) diffusori dei neoromanticismi e del dogmatismo, vanno apertamente combattuti e sputtanati (perché sono anche dei “venduti” di prima grandezza). Bisogna “passarli a fil di spada” (in senso metaforico), senza di che non si riuscirà a liberare il campo per la costruzione delle prime “avanguardie” in grado di ripensare radicalmente nuove teorie e prassi anticapitalistiche, nonché di creare una più vasta opinione contro la supremazia – di tipo imperiale e quasi neocoloniale – del complesso politico-finanziario statunitense, quello oggi predominante.
24 gennaio 2007
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