CONTRO LA DEMOCRAZIA
La storia è storia dei conflitti sociali. Quelli tra classi dominanti risultano però più decisivi di altri nel configurare gli assetti societari. I gruppi strategici sono quelli che decretano, con la loro azione tesa a primeggiare nelle diverse sfere collettive, il condensarsi degli eventi caratterizzanti la specifica formazione sociale, in un segmento temporale di una certa continuità (fase). Le classi dominate entrano nella disputa aggregate ai differenti blocchi sociali (quindi da gregarie), guidati dall’alto; ciò non toglie che in particolari momenti epocali, possano incidere maggiormente, con le proprie istanze, in questa battaglia per la supremazia (l’esempio del movimento operaio otto-novecentesco). Ma, in ogni caso, non sono esse a direzionare la dinamica degli avvenimenti. L’intelligenza dei processi appartiene ai detentori del sapere e delle grandi risorse produttive, economiche, culturali, finanziarie, ecc. ecc. Per questa motivazione, anche il movimento operaio dei secoli scorsi, è stato sempre diretto da avanguardie, non provenienti dal suo seno ma dai ceti soprastanti, di solito con soggetti ai margini delle categorie superiori “emancipatisi” dalle proprie origini. Senza le masse non si fa la storia ma non sono le masse a fare la storia. Ciò spiega la non rivoluzionarietà intrinseca della classe operaia, il cui istinto, come ben diceva Lenin, era tradunionistico e non sovversivo. Dopo decenni di fallimenti ci dovrebbe essere l’evidenza del fenomeno ed, invece, c’è chi continua a farfugliare di autonomia del proletariato e di classe operaia che deve dirigere tutto. Mettetevelo in testa una buona volta, nessuna cuoca potrà mai amministrare gli affari dello Stato, perché il mestiere della politica non è un’attività qualunque e richiede superiori doti analitiche, frutto di scienza e conoscenza. Per politica, in questo senso, intendiamo quanto teorizzato da Gianfranco La Grassa, ossia quella: “…serie di mosse compiute da dati agenti sociali, serie di mosse coordinate in quella che denominiamo strategia e che gli agenti mettono in opera nel loro confronto (scontro) teso a prevalere gli uni sugli altri. La strategia non ha nulla a che vedere con movimenti compiuti a casaccio, nel più completo disordine, pura reazione primitiva, quasi istintiva, ad uno stimolo proveniente dall’esterno, che spesso è l’agitazione altrettanto caotica di altri contendenti. La strategia implica un ordine di successione delle mosse; non certo deterministico, ma comunque sempre fondato su una studiata concatenazione delle stesse, sulla ricerca, tramite esse, della massima possibile efficacia (concetto del tutto differente da quello di efficienza) in relazione alla finalità perseguita: il successo e la supremazia. Prima di attuare una strategia è dunque indispensabile costruirla in quanto coordinazione di movimenti tesi ad un fine ben prestabilito. Nulla si costruisce senza la preliminare esplorazione del campo della sua applicazione. All’esplorazione segue una più minuta analisi del campo, cioè degli elementi fondamentali che lo strutturano e gli attribuiscono date caratteristiche salienti, senza stabilire preliminarmente le quali non ci si può muovere se non disordinatamente e nelle più diverse direzioni, ponendosi alla mercé di altri contendenti che si applichino scientificamente allo studio della strategia da svolgere in quel campo. Oltre al campo è quindi indispensabile tener conto e valutare, al meglio possibile, la posizione, la forza e le intenzioni strategiche degli altri avversari in gioco in esso e in quella contingenza temporale (a volte un’intera fase storica). Tutto questo è sufficiente? Nient’affatto, è importante ma non sufficiente”.
Quindi, la politica, così descritta ed intesa, non è alla portata dell’incolto o dell’uomo pratico che rifiuta la “grammatica”. In quanto serie di mosse strategiche essa attraversa le sfere dell’attività umana che, intersecandosi, costituiscono il tutto sociale. Le sfere in questione sono: quella politica (da non confondere con la politica come strategia per confliggere, appena spiegata), quella economica e quella ideologica. Ancora nella teorizzazione lagrassiana: “Per comodità (teorica) ho sempre utilizzato la tripartizione della società in tre “sfere” (tre grossi ambiti, mai concretamente separati da nette delimitazioni di confine): quella politica, quella economica (con sottosfere produttiva e finanziaria), quella ideologica, che a volte denomino ideologico-culturale per indicare sia tutto ciò che si muove nel campo delle idee, dei punti di vista, delle battaglie fra queste(i), sia i depositi accumulatisi durante questo movimento nel corso di lunghi periodi di tempo in dati ambiti sociali forniti pure di un territorio (di solito si tratta di quelli che chiamiamo paesi e, da un certo periodo in poi, spesso pure nazioni).
Ogni sfera è costituita da gruppi di apparati, di strutture organizzate che perseguono date finalità. Nella sfera politica, simili organismi si addensano attorno allo Stato (della cui formazione storica non discuto), che ufficialmente serve all’espletamento di funzioni generali di mantenimento di una data società abitante in un certo paese. Vi sono poi le organizzazioni dette partiti, costruite appunto per accaparrarsi il potere nella gestione dello Stato (e delle sue funzioni generali svolte nell’ambito dei diversi paesi). In determinate congiunture – e anche a seconda di una serie di specifici depositi culturali formatisi nei vari e differenti paesi – un partito esclude tutti gli altri e assume il completo controllo dello Stato; in altre congiunture si svolge invece una competizione tra vari partiti, in genere soggetta a regolamentazioni diverse da paese a paese e da fase storica a fase storica. Si possono quindi avere le cosiddette dittature o invece le (altrettanto cosiddette) democrazie….
Passando alla sfera economica – che va appunto suddivisa, dato il carattere mercantile generalizzato delle economie definite capitalistiche, in produttiva e finanziaria – gli apparati fondamentali sono quelli definiti imprese, di cui ancora una volta la concezione più semplicistica, quella liberale, predica la “virtuosa” concorrenza nello spazio del sedicente “libero mercato”, uno spazio di cui si immagina l’autonomia e auto-sussistenza in base a semplici criteri di efficienza nella conduzione della gestione aziendale, e dunque il prevalere di queste o quelle imprese nella produzione – di beni e servizi, comunque di merci – a costi, e dunque a prezzi, più bassi. In realtà, la concorrenza è un conflitto in cui conta solo parzialmente l’efficienza economica (caratterizzata dal principio del “minimo mezzo”), largamente coadiuvata invece da più complesse attività di questi apparati nei loro svariati rapporti con le altre sfere sociali e, in particolare, con quella politica. Tuttavia, vi è troppo spesso la tendenza a vedere la sfera economica come quella principale e dominante nella società e a trattare dei suoi apparati, le imprese, in termini di organismi strutturati secondo determinati criteri riconducibili appunto all’efficienza. I rapporti tra l’economia e le altre sfere sarebbero relazioni tra individui o gruppi di individui, che si considerano caratterizzate da “sentimenti” d’ordine personale: in modo speciale, il desiderio di acquisire potere ma ancor più ricchezza; è anzi quasi sempre quest’ultima ad essere messa in primo piano poiché lo stesso potere sarebbe acquisibile tramite essa, dunque sarebbe una variabile subordinata. Al servizio di ogni ambizione, sostanzialmente rinviabile agli individui, si mette l’inganno, la menzogna, la corruzione, la costrizione (quando possibile), ecc. Poiché ogni ambizione sarebbe comunque condizionata dalla ricchezza posseduta, si tratta di quest’ultima nella sua disponibilità secondo i criteri di più rapida e flessibile utilizzabilità, che è ovviamente – in una società di generalizzazione mercantile dell’attività produttiva – quella monetaria o assimilabile a quest’ultima; cosicché, in definitiva, si enfatizza sempre la funzione spettante alla sfera finanziaria come se fosse la fonte di ogni potere, nel senso migliore o peggiore del suo uso. Alla fin fine, tutti gli accadimenti sociali più rilevanti – compresi gli eventi detti bellici – vengono attribuiti al denaro, al desiderio di accumularlo e al modo del suo utilizzo che provocherebbe spesso le più acute crisi di tutti i generi. La sfera finanziaria viene quindi pensata quale principale sfera sociale, predominante, causa dei maggiori accadimenti; e poiché di ogni accadimento si tende generalmente a porre in primo piano l’aspetto “demoniaco”, la sfera finanziaria e l’ingordigia di denaro sono considerati le più decisive fonti dei mali sociali di tutti i generi.
Infine vi è la sfera ideologica e, in senso più generale, quella culturale in quando deposito di lunghissimo periodo dello scontro ideologico legato alle successive epoche storiche, attraverso cui sono passate le varie formazioni sociali. Tale sfera non ha suoi specifici apparati, poiché questi o fanno parte della struttura dello Stato o sono organizzati in forma di impresa. La sua precipua caratteristica è rappresentata dall’occupazione di particolari ruoli, comunque utilizzati negli apparati di tipologia politica o economica, da parte degli intellettuali in quanto personaggi espletanti le funzioni speciali attinenti alla lotta ideologica e alla trasmissione intergenerazionale di quei saperi e pensamenti (“depositati”) che fanno parte di una determinata cultura. Gli intellettuali sono o incardinati esplicitamente negli apparati in questione o sono apparentemente liberi di svolgere le loro elucubrazioni; in ogni caso, salvo eccezioni (frequenti solo in periodi di crisi e trapasso tra formazioni sociali diverse), tali personaggi svolgono soltanto, talvolta inconsapevolmente, funzioni che coadiuvano la riproduzione di una data struttura di rapporti sociali”.
Fin qui la spiegazione del pensatore veneto (che, sottolineiamo, è una nuova teorizzazione e non una riflessione su elaborazioni altrui, come quelle di tanti che si spacciano per pensatori senza aver mai pensato nulla di originale), che dovrebbe aiutarci a capire come muoverci per incidere seriamente sul nostro ambiente, al fine di concepire una trasformazione dell’esistente. Innanzitutto, questa categorizzazione ci permette di falsificare le teoresi di quanti straparlano di ultimo stadio finanziario del capitalismo e di predominanza della sfera finanziaria sulle altre. In una fase di crisi è normale che gli squilibri più evidenti riguardino i mercati, le banche, le borse, i titoli, le speculazioni ecc. ecc. Quando si depotenzia il centro regolatore politico, che impone ad ogni attore nazionale le regole del gioco, ognuno cerca di avvantaggiarsene, di approfittare del vuoto di potere o dello sguarnimento di alcune “aree” per estendere il proprio raggio d’azione. Le stesse imprese finanziarie, basate nel paese predominante, iniziano ad operare con maggiore spregiudicatezza, per sfruttare il caos da posizioni di forza o per seguire le indicazioni segrete del potere politico o, ancora, andando anche oltre questi indirizzi, tanto da dover essere richiamate all’ordine qualora dovessero pestare i piedi alle iniziative degli strateghi istituzionali. Il denaro (coi suoi duplicati immateriali) fornisce la linfa necessaria al conflitto, per questo è indispensabile, ma esso non basta da solo a vincere le guerre. Se si produce, effettivamente, una sottomissione di forze statali a forze del denaro, questa riguarda più che altro i Paesi deboli dove l’arco politico non è in grado di ripensare la propria ricollocazione geopolitica e di elaborare una visione dei processi di cambiamento globale in atto. Il caso italiano è emblematico. Generalmente però, l’ultima parola è sempre dei drappelli dominanti statal-militari che sono chiamati a convogliare l’energie, dell’intera formazione sociale particolare, con lo scopo di creare egemonia fuori dai confini nazionali e ricompattare la comunità interna sugli obiettivi improcrastinabili. Esiste una certa autonomia degli insiemi decisori (sempre in conflitto tra loro) che operano nelle varie sfere ma è indispensabile il momento della sintesi che è, appunto, di competenza dei soggetti primeggianti in quella politica.
Detto questo, è arrivato il momento di comprendere meglio la fisionomia del nemico quando si opera in contesti nazionali subalterni, orbitanti nel campo gravitazionale di una superpotenza. Sbraitare contro la finanza apolide, la globalizzazione, la bancocrazia non ha alcun senso. Si deve, invece, colpire direttamente il rapporto di sottomissione tra i funzionari della superpotenza (di qualunque specie essi siano, finanziari, ideologici, politici ecc. ecc.) e i loro sottoposti nel paese satellite, quelli che occupano gli apparati rappresentativi ricorrendo a sistemi d’elezione escludenti, per come sono concepiti, l’accesso a corpi resistenti autenticamente sovrani e indipendenti. Quest’ultimi non saranno mai maggioranza nel Paese attraverso i metodi democratici. Essi sono avanguardie chiamate a rompere gli schemi democratici, cercando l’acclamazione delle masse e la loro partecipazione fisica per il respingimento dell’invasore e dei suoi etnocrati. La reiterata prova muscolare (in funzione di un diverso progetto strategico) sulle questioni cruciali, e non la deposizione di una misera scheda nell’urna, è il massimo sforzo da chiedere al popolo. Essi interpretano la democrazia come un cavallo di troia e come tale lo rifiutano mentre cercano il coinvolgimento non passivo degli uomini e delle donne di buona volontà, al fine di scacciare dal governo i traditori e i loro protettori stranieri. La democrazia, rielaborata ad immagine e somiglianza dei predominanti mondiali, è l’imprinting che determina la riproduzione dei comportamenti sottomissivi di chi è eletto per governare. Non si sfugge a questa logica automatica se non mandandola in frantumi, senza mai partecipare ad un gioco a carte truccate. Abbattere la democrazia è il primo passo da fare per rigettare l’ingerenza esterna e sbarazzarsi dei politicanti che amministrano lo Stato attraverso diktat contrari all’interesse nazionale. Colpire a morte la democrazia significa ferire mortalmente i prepotenti che ci tengono per il collo. Chi cincischia su un tema così esplicito e blatera di altro (mondialismo, finanzcapitalismo ecc. ecc.) è solo un altro pagliaccio venuto a distrarci dai nostri urgenti compiti.