CONTRO LA SINDROME DEL GOVERNISMO*

 

di Emiliano Brancaccio

 

* versione ampliata di un articolo apparso sul manifesto il 16 febbraio 2008

 

Il “Veltrusconi” è nelle cose, prima ancora che negli eventuali accordi programmatici. Eppure, a sinistra, persino in campagna elettorale sembra che si proceda col freno a mano tirato. Come si spiega questo atteggiamento politico? Bisogna partire da un’evidenza di fondo: la dinamica del capitalismo non la stiamo capendo. La griglia interpretativa che pone i “moderati” contro i “radicali” non funziona, ma nemmeno quella che immagina una partizione tra “neo” e “social” liberisti. Queste categorie hanno un loro appeal, una loro immediata spendibilità, ma non ci aiutano a capire e possono anzi condurci fuori strada. Occorre allora evitare le semplificazioni, occorre tornare a fare quel che un tempo i marxisti sapevano fare: indagare a fondo nella meccanica del capitale, nei suoi scontri e nelle sue alleanze interne. Perchè in realtà c’è proprio un’alleanza, un patto tra fratelli coltelli, ossia tra piccoli e grandi capitali, dietro l’ambita “modernizzazione” del paese evocata quasi all’unisono da Berlusconi e da Veltroni. Ma la modernizzazione di cui lorsignori parlano è l’antitesi della modernità. Essa consisterà  nella politica deflazionista di sempre, anzi, peggio: consisterà nella combinazione perversa del peggio degli ultimi anni. Si punterà infatti al contemporaneo schiacciamento dei salari per unità di prodotto e del deficit pubblico in rapporto al reddito. In tal modo si cercherà da un lato di dare fiato a un piccolo capitale asfittico, che per la sua frammentazione regge sempre più a stento la concorrenza mondiale; e dall’altro si aprirà finalmente la strada a un’ondata ulteriore di privatizzazioni, obiettivo chiave delle grandi oligarchie finanziarie. Oligarchie internazionali, beninteso, rispetto alle quali i frequentatori dei nostri vecchi salotti buoni potranno limitarsi solo a fare da modesti pontieri. 

E noi? cosa ci accingiamo a fare? ebbene, noi che il capitalismo non lo capiamo, a quanto pare ci accomodiamo per l’oggi e per il domani a far la questua davanti alle porte di un PD che palesemente non è interessato a noi, che non ha bisogno di noi. E probabilmente cercherà di non aver bisogno nemmeno in futuro della sinistra, per quanto addomesticata questa potrà essere.  Ma la questua è davvero l’unica cosa sensata che possiamo fare? La risposta sarebbe tristemente affermativa se avessero ragione coloro i quali, dalle nostre parti, si sono convinti che la dinamica del sistema sia in fondo robusta e stabile. Ma essi hanno torto: l’intesa tra capitali che va profilandosi è fragile. La cosiddetta politica di “modernizzazione” non permetterà di salvare i capitali nazionali, frammentati e marginali, soffocati dalla loro insipienza, dal cambio fisso e da una produttività che strutturalmente arranca. Essi potranno magari accaparrarsi l’ulteriore depotenziamento del contratto nazionale. Potranno conquistare altre massicce dosi di precarizzazione del lavoro. Ma alla fine i dati ci dicono che verranno comunque o buttati fuori dal mercato o facilmente acquisiti dai grandi capitali esteri. Il vero volto dell’annunciata “modernizzazione” sarà dunque quello della definitiva svendita, “marginalizzazione” e “colonizzazione” capitalistica del paese. Con la famiglia tradizionale a porsi sempre più quale sostituto di un welfare a pezzi, e la revanche vaticana contro i movimenti di emancipazione sociale, culturale e sessuale del Novecento a fungere da fattore di assorbimento del disagio e delle rivendicazioni.

Intendiamoci, possiamo benissimo affermare che il conflitto inter-capitalistico non è affar nostro. Possiamo continuare a illuderci che si possa parlare di diritti civili senza alcun legame con la riproduzione materiale dell’esistenza. Possiamo continuare a trastullarci a mezza strada tra una conversione etico-religiosa e un compatibilismo che di strategico non ha più assolutamente nulla, e che presto non garantirà nemmeno la sopravvivenza ai gruppi dirigenti (spero che i gruppi dirigenti questo lo capiscano). Oppure, al contrario, possiamo tornare a interrogarci sulle questioni di fondo. Possibile che di fronte a una prospettiva instabile e retrograda come questa, noi non si provi almeno in questa fase a distanziarci per criticare, per fare chiarezza, per iniziare a delineare un’alternativa che scommetta a viso aperto sul fallimento di Veltroni, e che ci spinga quindi a crescere? Mettiamo le cose in chiaro, io mi considero comunista e amo il colore rosso, non certo l’arcobaleno. Ma la questione chiave è: possibile che un subalterno, incondizionato “governismo” debba rappresentare la nostra definitiva cartina di tornasole? Possibile che si sia abbandonata qualsiasi ambizione egemonica nonostante i giganteschi varchi  aperti da un PD che ogni giorno sbanda sempre più a destra? Se così fosse saremmo di fronte non solo a un’abiura, ma ad un grave errore strategico. Il capitale italiano non è centrale ma periferico e ha quindi le sue belle crepe. Ci si potrà tuttavia insinuare in esse soltanto presentandoci credibili all’appuntamento della prossima “emergenza”. E la credibilità non può derivare dall’abbozzo di un programma che punti solo a qualche briciola. Essa ci può esser data solo offrendo alle lavoratrici, ai lavoratori e al paese un’alternativa che metta in luce le contraddizioni degli avversari, che esalti il nesso imprescindibile tra le lotte per l’emancipazione civile e l’azione di politica economica, e che si fondi su una diversa gestione del debito pubblico al fine di riprendere il controllo statale sulle principali filiere del capitale nazionale. Occorre convincersi che questa è l’unica alternativa a una falsa “modernizzazione”, con la quale vogliono in realtà predisporci a un destino da colonia, economicamente funesto e culturalmente retrogrado.

 

                                                                       Emiliano Brancaccio