COOPERAZIONE O COMPETIZIONE?
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(gennaio 2009)
1. Il preteso utopista Marx pensava almeno il comunismo in base ai processi (intensi e grandiosi) di socializzazione dei processi produttivi e delle enormi forze che da questi si sprigionavano in base alla competizione intercapitalistica. Immaginava una nuova forma sociale ormai in gestazione e abbastanza prossima a nascere: via rivoluzionaria, per contraddizioni vieppiù insanabili tra i produttori cooperanti, quale diretta conseguenza della suddetta socializzazione, e i capitalisti mutatisi in finanzieri dediti al parassitismo e ad una nuova “signoria”. Non pensava invece per nulla affatto ad una società ancora nella “mente di Dio”, e la cui nascita era affidata alla trasformazione dell’Uomo in una nuova specie dedita al bene e alla solidarietà comune. Marx era convinto dell’indispensabilità di quell’enorme sviluppo innescato dal capitalismo – pur tra crisi periodiche, già esistenti ai suoi tempi – per far si che fosse potenzialmente pronto il trampolino da cui saltare oltre il regno di quella scarsità che fu fra l’altro, sia pure nel suo significato relativo (e al margine), alla base della teoria neoclassica dell’economia.
Come ho chiarito più volte, Marx sbagliò nelle previsioni circa le reali caratteristiche della dinamica capitalistica ed i suoi sbocchi sociali, ma non basò le sue idee di comunismo – come sostiene chi sostituisce gli epistolari alla più avanzata e sistematica elaborazione di un pensatore – su tendenze alla solidarietà comunitaria in una situazione di miseria e di povertà legate a strutture ancora feudali. Marx non era Fra Dolcino né alcun altro del genere. Il processo sociale poteva dirigersi alla realizzazione del comunismo – lo ripeto: in una fase storica che egli riteneva alle porte, come ho dimostrato recentemente in base alle citazioni di testi marxiani – solo nell’abbondanza, che avrebbe consentito ampio soddisfacimento dei bisogni, con molto tempo libero da dedicare sia alla coltivazione dei propri aneliti culturali più profondi, sia ad un fare svincolato dagli obblighi stringenti della sopravvivenza (non biologica, ma pur sempre in una società non ancora liberata dallo sfruttamento e dall’oppressione); un fare che sarebbe stato estrinsecazione della propria spiccata e individuale personalità di homo faber.
Quanto a Lenin – di cui si è tanto acclamata, e per nulla capita, la “rivoluzione contro il Capitale” (di Marx) – è ben nota la sua violenta polemica nei confronti degli “amici del popolo”, sostenitori delle tesi sismondiane (definite “romanticismo economico”), formulate comunque quando ancora non era nemmeno terminata la rivoluzione industriale (in specie nel continente europeo e tanto meno in Russia). Lenin non fu cultore pratico di contraddizioni nel loro elementare dualismo, ma colse strategicamente il loro carattere complesso nell’ambito di storicamente specifici conflitti, il loro disperdersi o invece condensarsi nella particolare congiuntura di una determinata situazione concreta (da tale atteggiamento, attento alla congiuntura, nasce la tesi dell’anello debole, ecc.) Questa la sua “rivoluzione” contro la principale opera teorica di Marx, che non trattava di capitalismo bensì del suo “nocciolo strutturale interno”, denominato modo di produzione capitalistico (sia pure un modo sociale, non tecnico-produttivo, quindi una data forma dei rapporti degli individui che producono in società).
Il rifiuto leniniano delle due tappe della rivoluzione (prima quella borghese e poi quella proletaria) non significò per nulla alcuna concessione all’idea di sfruttare il primitivismo agrario-feudale dell’obšcina, che dopo la liberazione dei servi della gleba non aveva certo impedito lo stratificarsi dei contadini in ricchi (kulaki), medi e poveri (la gran massa). Pur con le (solo tattiche, checché ne dicesse il pur notevole studioso Bettelheim) concessioni nel periodo della NEP, Lenin non dimenticò mai che la rivoluzione russa – in un primo tempo ritenuta solo il detonatore di una ben più vasta, cui si dovette, per forza di cose, rinunciare vista la totale sconfitta dei comunisti nei paesi capitalisticamente avanzati – era obbligata a dotarsi di strutture produttive più progredite (anche e soprattutto socialmente con crescita decisiva della “classe” operaia) se non voleva, in tempi nemmeno lunghi, essere sommersa dal circostante mondo capitalistico.
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2. Senza alcun dubbio quella stagione è definitivamente chiusa. La rivoluzione “comunista” ha portato, dopo un lungo e tortuoso percorso storico, alla crescita di nuove formazioni sociali che stanno adesso assurgendo (o ri-assurgendo, come nel caso della Russia, erede dell’Urss) a potenze; per il momento, in mancanza di categorie adeguate e anche nell’incertezza del loro futuro sviluppo, definiamole capitalistiche, tenendo conto delle forme produttive generali – impresa e mercato – che caratterizzano l’attività economica in svolgimento al loro interno (e la conseguente tipologia delle crisi che colpiscono tale attività). Ovviamente, i comunisti – e mi ci metto in mezzo anch’io senza alcun senso di vergogna (anzi!) – hanno pensato al fallimento della rivoluzione; proprio perché si dichiarava comunista. Tale rivoluzione – grandiosa nel suo ultrasecolare processo – ha avuto la sorte di tante altre eccelse rivoluzioni (ad esempio, la Rivoluzione per antonomasia, quella francese); essa ha perseguito certi fini e, perseguendoli con radicalità, ha cambiato veramente il mondo, ma non nel senso immaginato e agognato dai suoi dirigenti (e sostenuto e diffuso dalle ideologie che, per essa e in essa, si sono forgiate, impregnando di sé il senso comune di un’intera epoca).
Nessuno (e nemmeno il sottoscritto, sia chiaro!) si sta dimostrando all’altezza di cogliere il reale significato di quella rivoluzione, gli effettivi esiti che ha avuto, quali altri sbocchi potrebbero essere in preparazione e dovrebbero quindi essere accolti da nuovi pensatori – e non solo pensatori – rivoluzionari. Per il momento assistiamo alla piena ripresa di ideologie capitalistiche, molto vecchie e particolarmente incapaci di assicurare vera egemonia a gruppi dominanti in un sistema, che per il momento si regge sulla sua ben maggiore (pre)potenza e sopraffazione. La sensazione è quella della decadenza del sistema (sociale) in questione, ma non tale da prevederne la fine (non dico imminente, ma nemmeno a tempo indeterminato); soprattutto, non se ne vedono affatto i possibili affossatori, non si annunciano neanche al livello della diffusione di nuove concezioni di ampia portata che, come fu nel caso dell’Illuminismo, “arino il terreno” e lo apprestino per “nuove seminagioni”.
In quest’epoca di decadenza, i gruppi dominanti versano in una sorta di crisi di fiducia in se stessi; una crisi che si aggrava nei periodi in cui il sistema viene a trovarsi in una situazione particolarmente difficile e complicata, così come sta accadendo attualmente. Senza un disegno preciso, ben inteso, ma per processi molecolari legati all’evolversi delle strutture sociali e al declino di certe formazioni particolari mentre altre crescono, questi gruppi dominanti “secernono” (mi si passi il termine) costellazioni ideologiche a “geometria variabile” che servono a difendere, pure in assenza di forza egemonica, le loro posizioni di vertice. Tali ideologie si dispongono in un campo in cui confliggono apparentemente fra loro, ma in quella configurazione che un Lukàcs, con felice espressione, definì antitetico-polare.
Liberismo e “keynesismo” (meglio dire statalismo sia pure soft) sono due di queste ideologie che si affrontano. Penso di aver mostrato ormai parecchie volte (in libri ma anche nel blog e sito) come si tratti di due correnti della medesima ideologia dominante (cioè di diversi gruppi dominanti). Sarebbe però fatica improba inseguire tutte le dicotomie che oggi, proprio perché ormai superate dalla storia, servono a bloccare il pensiero e l’azione in sterili contrapposizioni onde impedire che una nuova teoria e una nuova prassi abbiano qualche possibilità di raggiungere la massa critica necessaria a rimettere in moto una dinamica sociale, oggi inceppata a completo favore dei gruppi predominanti; e per di più proprio di quelli più parassitari e reazionari, quelli che fermano ogni progresso. Si pensi all’ancora vigente contrapposizione tra destra e sinistra; e, in Italia quasi esclusivamente, ai suoi corollari: gli aberranti battibecchi tra anticomunisti (di una ottusità impressionante) e comunisti (agonizzanti e penosi), tra falsi antifascisti arroganti, faziosi, truculenti e fascisti, in sostanza un fantasma creato dai primi per continuare a godere di certe rendite di posizione, ormai agli sgoccioli. E altre antinomie altrettanto fasulle e svianti.
Oggi, è necessario fare attenzione ad una particolare ideologia, che si presenta con le vesti della critica al sistema capitalistico. Bisogna capire quanto è avvenuto negli ultimi vent’anni. Il crollo del “socialismo reale” ha inferto l’ultimo colpo ad un comunismo pensato come realmente possibile a causa di sviluppi oggettivi e di effettive trasformazioni dei rapporti sociali in quella direzione. Per una decina d’anni o poco più si fu sicuri della netta e duratura supremazia statunitense; si pensò che
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potesse instaurarsi un vero impero americano, tesi cui si contrappose – in una delle solite polemiche antitetico-polari, fatta apposta per esaltare la tesi in oggetto – quella del prossimo antagonista vincente: prima si pensò al Giappone, poi alla Cina. La crisi di fine anni ’90, ma soprattutto la politica aggressiva degli Usa (Irak, Balcani, Afghanistan, ecc.), hanno infine messo termine alla speranza degli Usa, e al timore di altri, che il tentativo imperiale fosse ormai in via di completa riuscita. Purtroppo, tale svolta non ha portato a quello che sarebbe stato augurabile: la rinascita di un forte movimento antimperialista, quanto meno capace di liberare le energie di date popolazioni dell’ex terzo mondo.
Di queste popolazioni, cui va l’appoggio e la simpatia di quelli che la pensano come il sottoscritto, non bisogna dimenticare la strutturazione sociale che vede comunque gruppi dominanti in gestazione o già in sella. Questo non sarebbe comunque un problema, né tanto meno mette in dubbio l’appoggio e la simpatia in questione. Il fatto è che tali popolazioni fanno molta difficoltà a trovare la via per un reale e duraturo successo; anzi, finora, sono state in buona parte conculcate e la loro lotta si è spesso dispersa in direzioni errate e senza via di uscita. Tuttavia, nel mentre gli occhi erano puntati – e ancor oggi lo sono – su tali contrasti, venivano avanti non un solo, ma più antagonisti degli Usa dotati di forza crescente. Niente solo Giappone o solo Cina, bensì Russia, Cina, India e forse qualche altro ancora. Non si profila alcuno scontro duale – secondo la solita semplicistica visione dei critici antisistema – bensì l’approssimarsi della nuova fase policentrica. Per il momento permane, e lo sarà a lungo, un’evidente dissimmetria tra la potenza del paese ancora centrale e gli altri poli in crescita. Tuttavia, il processo sembra ormai innescato con sicurezza; anche se non procederà in modo “rettilineo uniforme”, ma conoscerà molte sinuosità e labirintici percorsi.
3. La crisi (economica) attuale – di cui dovremo finalmente capire la portata entro i prossimi sei mesi – è di fatto un primo risultato di questa nuova situazione geopolitica mondiale. Per coloro che sognano la fine del capitalismo, ma anche per quelli che mantengono la capacità di indignarsi di fronte al massacro di popoli di forza nettamente inferiore per mano di autentici assassini (oggi viviamo uno di questi episodi disgustosi della storia del mondo), non si tratterà di un periodo facile. Qualcuno tenta di illudersi, crede che la crisi in corso assesterà una mazzata definitiva al capitalismo, spera ci sia qualche colpo di scena anche nel teatro della lotta tra massacratori e massacrati, fidandosi delle affermazioni roboanti e minacciose di chi non sembra avere la capacità di far seguire i fatti alle parole. I tempi saranno lunghi, la rabbia da ingoiare sarà tanta. La “storia” sta seguendo un percorso diverso dall’agognato: non la contrapposizione di classe, non la lotta tra diseredati e paesi capitalistici avanzati (detti imperialistici, senza capire più un accidenti di che cosa sia stato in realtà l’imperialismo, la fase compiutamente policentrica), bensì inizialmente – un inizio che durerà abbastanza a lungo – un mondo essenzialmente multipolare, in cui le contraddizioni più acute, e dunque più mobili e dinamiche, saranno quella tra alcuni poli (potenze in sviluppo ineguale, con declini e crescite) fino al raggiungimento dell’autentica fase imperialistica, cioè policentrica.
Il multipolarismo è appunto l’anticamera del policentrismo; o, detto con maggior precisione, è la fase di transizione ad esso. Ed è il multipolarismo, in questa fase storica, la contraddizione più dinamica e densa di effetti. Sarebbe forse meglio non parlare di contraddizione, ma di conflitto; il primo termine ricorda sempre la lotta tra due entità polarmente contrapposte, il secondo una configurazione di più entità esistenti in un campo attraversato da reticoli di interazione, in cui scorrono flussi di scontro (aspetto principale) e di mediazione o alleanza (aspetto secondario). La “lotta di classe”, così come quella tra masse del terzo mondo e paesi “imperialistici”, era la visione elementare del conflitto, di quello che avrebbe dovuto portare direttamente e in via immediata al prevalere degli ultimi sui primi, di chi sta sotto su chi sta sopra, ecc. E’ necessario cambiare prospettiva. Non cessa, né viene dimenticata, la lotta dei dominati contro i dominanti – sia che la si pensi all’interno di una formazione particolare sia che la si consideri sul piano della formazione mondiale – ma dominati e dominanti sono strutturati, al loro interno, secondo la multipolarità e il conflitto (o mediazione/alleanza). Una vera matassa intricata, di cui si deve tirare il bandolo tenendo conto della spe-
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cificità dell’epoca storica in cui ci si trova. Ribadisco che penso, per la prossima fase, ad una situazione di multipolarismo tra dominanti sul piano geopolitico mondiale (lotta tra potenze), che si avvia verso l’epoca policentrica. Non si dimentichino, questo è ovvio, i dominati e le loro lotte (in specie quelle dei massacrati contro i massacratori), ma si tenga conto del suddetto “bandolo della matassa da tirare”.
In quest’epoca di arretramento, vissuta dai critici anticapitalistici (fra cui primeggiarono i comunisti) come un fallimento delle speranze di trasformazione e superamento del capitalismo, fioriscono (anzi, rifioriscono) innumerevoli utopie. E’ evidentemente un processo oggettivo, che scaturisce appunto dalla delusione; tuttavia, nella battaglia contro simili ideologie, è necessario attaccare duramente anche i soggetti che se ne fanno portatori. Nessun riferimento all’oggettività di dati processi, che è senza dubbio il loro aspetto principale, deve oscurare completamente la sempre sussistente responsabilità soggettiva; anche perché i portatori individuali di simili ideologie sono sovente opportunisti che consapevolmente imbrogliano le carte, ricevendo i “trenta denari” convenuti con i dominanti (in genere con quelli più reazionari).
Non ripeto adesso le critiche contro gli inventori del “Movimento” (delle Moltitudini) quale “seconda potenza mondiale”; contro i sostenitori della fine degli Stati nazionali; contro gli annunciatori di catastrofi ambientali atte ad oscurare ogni lucida analisi della mappa del potere globale in possesso dei diversi gruppi dominanti in conflitto per la supremazia; contro quelli che “amano i poveri” e vorrebbero “frugali consumi” – e quindi magari decrescita – così da consegnare i dominati alle scelte dei loro oppressori (in un periodo di crisi, è evidente l’interesse di questi ultimi ad abbellirla, sostenendo che potrebbe essere la leva per un ritorno ad una vita più sana e morigerata); contro quelli che predicano una nuova etica negli affari per far credere che ciò è possibile ove soltanto lo si voglia e tutti (i “cittadini”, cioè gli oppressori e gli oppressi, chi decide e chi è sottoposto alle decisioni dei potenti) cooperino solidarmente a tal fine. Lasciamo perdere per il momento queste pur necessarie critiche.
Ricordiamo solo che i sostenitori di utopie umanistiche sono pericolosi; certamente, sono in minoranza rispetto a coloro che sviluppano vere e proprie ideologie da dominanti, da oppressori. Tuttavia, costruiscono anch’essi cinture protettive per questi ultimi; servono a disperdere ai margini della società ogni possibile coagulazione, e poi crescita, di una critica effettivamente radicale, che deve nutrirsi di idee nuove e positive in grado di aggredire, dopo averle sottoposte ad attività di conoscenza, le articolazioni della formazione sociale mondiale e le sue linee di frattura dov’essa è più debole. Gli ideologi diretti degli oppressori sono in realtà nemici più scoperti; essi, inoltre, hanno sovente molto da insegnarci circa i metodi e le strutture del potere. I falsi, e umanitari, critici dell’oppressione servono a far dimenticare, ai gruppi oggetto della stessa, la necessità di (e gli strumenti per) analizzare metodi e strutture, facendo sognare o immediate e fantasiose rivolte o un altrettanto fantasioso futuro di riscatto sociale per via di un’elevazione etica dell’Uomo. Questi sono i nemici spesso più dannosi; e comunque da essi non si impara nulla, se non l’assopimento e la speranza in un lontano futuro o invece l’incontrollata esplosione di indignazione solo morale nel presente.
4. In questa sede, mi interessa smascherare un’altra ideologia: quella della cooperazione nei momenti di crisi, del “siamo tutti sulla stessa barca” per cui “dobbiamo remare tutti nella stessa direzione”. Sviluppo tali considerazioni critiche certamente spinto dalla presente crisi economica, ma esse vanno al di là di questa. Fra l’altro, è impossibile ancora appurare la rilevanza della stessa. Si è detto che è la più grave del dopoguerra, la più grave dopo quella del 1929, almeno la terza in gravità dopo quelle del 1929 e del 1907; e via dicendo. Adesso, salvo che negli Usa, sembra sia stata messa in sordina la gravità in questione; i dati vengono probabilmente manipolati – come già quelli sull’inflazione – per ordine delle “superiori autorità”, a partire dal nostro Governo il cui Premier sostiene che basta l’ottimismo per non cadere in un periodo di forte arretramento economico e, quindi, del tenore di vita cui le nostre popolazioni sono abituate.
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Ho già sostenuto più volte che il problema cruciale non è quello economico, pur se una grave crisi di tale tipo è senz’altro una miccia che si accende; ma non sicuramente per la rivoluzione, per cui non sono sufficienti il disagio sociale e il malcontento popolare; anzi questi, storicamente, hanno dato vita di solito a soluzioni di accentuato rafforzamento di dati gruppi dominanti (però con un drastico ricambio ai vertici di singole formazioni sociali). Mi interessa un problema più generale, che tuttavia ha poi ricadute particolari; e qualunque sia la gravità di una crisi. Il buon senso, spesso ingannevole, suggerisce ai più (a quasi tutti) l’idea che, in caso di pericolo comune, la scelta giusta è quella di mettersi insieme, di lasciar perdere i motivi di contrasto, per collaborare ad una via di uscita collettiva. Quest’idea è fondamentalmente superficiale; e dovrò smontarla pezzo a pezzo prima di arrivare al fondo della questione. Non si tratta però solo di un errore; bensì di una vera mossa ideologica – talvolta del tutto inconsapevole, ma spesso compiuta da chi vuol ingannare proprio i più colpiti dalla situazione critica – che ottunde la comprensione di questi ultimi e paralizza la loro possibilità di risposta.
Partiamo dal solito esempio dello scoppio di un incendio in un luogo pubblico. Se si vedono alzarsi le flebili fiamme di un focherello, è molto probabile che il panico venga contenuto e qualcuno si attivi per indicare con successo le diverse tappe di una uscita sufficientemente ordinata dal locale. Se invece il fuoco divampa, è ben difficile contenere il terrore; anzi ciò non avviene mai. D’altra parte, il caos creato dalla completa perdita della calma è da considerarsi, per quanto concerne ogni singolo individuo, frutto di obnubilamento della mente causato da una paura al diapason. Dal punto di vista collettivo, non è però affatto detto che il numero dei morti sarebbe minore coordinando la fuoriuscita. L’organizzazione richiede comunque un lasso di tempo, durante il quale le fiamme possono divampare e, direttamente o per asfissia, provocare un gran numero di morti. Inoltre, nulla si può organizzare, in una simile situazione, senza l’esistenza – che dovrebbe allora essere anteriore al fatto – di organismi dotati di potere autoritario in grado di pretendere un certo comportamento dagli individui e di punire severamente chi lo trasgredisce. Altrimenti, la soluzione che sempre si verifica – i più robusti, talvolta anche i più astuti, passano avanti (“e sopra”) agli altri – per quanto drammatica e sconvolgente nel suo manifestarsi, non è in definitiva, diciamo non sempre, quella peggiore e più costosa in termini di perdita di vite umane.
Se poi passiamo a considerare in particolare una crisi di tipo economico-finanziario, si tenga presente che non tutti sono da essa colpiti. Una quota non indifferente della popolazione non regredisce affatto; ed un gruppetto nient’affatto sparuto addirittura se ne avvantaggia. Questa parte dei “cittadini” è quella decisamente più influente sia nella sfera politica che in quella ideologico-culturale e nell’informazione. Non esiste sicuramente alcuna mente che si metta a coordinare l’insieme dei processi politico-culturali in atto durante una crisi. Anzi, il caos, l’anarchia sono reali. Gli inviti alla calma (e all’ottimismo), le riunioni indette sostenendo la necessità di una effettiva cooperazione a livello mondiale – lasciando pur perdere le intenzioni ufficiali, che potrebbero perfino essere dichiarate in buona fede (comunque assai raramente) – non raggiungono pressoché mai l’effetto voluto; e, in definitiva, ognuno cerca di salvaguardarsi in qualche modo per conto suo. La crisi ha la gravità che deve avere, e comincia e finisce quando deve cominciare e finire, senza che siano veramente le misure economiche prese collettivamente (in genere solo in apparenza, per gettare fumo negli occhi dei popoli) a consentire il suo superamento. Ovviamente esagero; soltanto però per mettere in luce la sostanza del problema, poiché le misure adottate durante una crisi hanno certamente effetti, ma non di lunga durata né risolutivi.
Ed è qui che arriviamo alla questione centrale, quella veramente decisiva per capire le diverse congiunture (fasi storiche) delle formazioni capitalistiche nella loro articolazione globale. Prima però di affrontarla, ribadisco che, in situazioni critiche del genere, i gruppi dominanti – pur in sorda, prima, e poi sempre più lampante lotta fra loro – “avvelenano” ideologicamente i pozzi da cui i raggruppamenti sociali, che più subiscono la subordinazione alle decisioni altrui (decisioni tese a salvare in ultima istanza la maggior parte dei dominanti e dei loro più fedeli asserviti), potrebbero trarre forza e slancio verso un’autonomia di pensiero e di azione assai pericolosa per chi comanda. Ecco
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allora fiorire tutte quelle dicotomie, quei “grumi ideologici” antitetico-polari, che nascono in realtà nell’ambito degli scontri tra gruppi di dominanti alla ricerca di consenso presso i dominati. Ecco allora crescere anche ideologie apparentemente ultrarivoluzionarie, contestatrici dell’ordine borghese (oggi di quello capitalistico tout court), che ricordano da vicino le tante versioni del socialismo utopistico reazionario criticate da Marx già nel Manifesto del 1848. S’insinua poi l’etica che – occupando il posto del ragionamento scientifico e dunque oscurandone la visibilità – cancella una qualsiasi comprensione della specifica configurazione degli elementi sociali in conflitto in quella data congiuntura, per sostituirla con chiacchiere di “preziosa” e inutile vacuità intorno all’Uomo, ai suoi Destini, ecc. O anche all’Ambiente, alla Natura, da salvaguardare con la decrescita.
Ho però già detto che lasceremo da parte, qui, questi sbarramenti ideologici eretti allo scopo di difendere i vari gruppi dominanti e consentire loro di lottare per la supremazia; poiché il periodo di crisi è una fase di conflitto acuto per acquisirla. Politici e ideologi (gli intellettuali servi del potere) vengono schierati in campo e foraggiati ai fini della lotta. Come tutti i servi, decadono continuamente, aumenta il loro squallore e si assottiglia la loro “professionalità”; sempre più vorticosamente debbono inventarsi nuove soluzioni ideologiche per i loro mandanti. La velocità dello spasmodico ricambio, però, incide sulla qualità del prodotto. Ecco perché siamo in un’epoca, in cui ceto politico e intellettuale raggiungono livelli inusitati di indecenza. Non so quanto dureranno, ma la loro meschinità e l’essere del tutto fasulli e meri “pavoni che stridono” li ha già condannati; fra vent’anni, forse dieci, saranno dimenticati, e dovranno perciò essere sostituiti con altri ancora più evanescenti, del tipo “usa e getta”.
5. La crisi non è semplicemente il disordine dei settori finanziari con crollo dei valori dei titoli, perdita di ingenti capitali (e di “risparmi” per i piccoli investitori), fallimenti bancari, ecc; crisi seguita poi da quella reale con caduta della produzione, crescita della disoccupazione, chiusura e fallimento di imprese e via dicendo. Questo è l’aspetto più appariscente, che mette in (giusta e comprensibile) ansia i cittadini, scatena gli economisti e gli “esperti” finanziari in sempre più cervellotiche previsioni e ricette curative, innesca un’alternanza di reazioni di pessimismo e di programmatico ottimismo, induce le autorità ad interventi sempre di breve momento e con scarsi risultati durevoli.
La crisi, anche se riguardata dal semplice (assai limitativo e sviante) punto di vista economico, è crescita delle sproporzioni tra settori che, superati certi livelli, lacerano il tessuto complessivo e creano completa disarmonia e dunque inceppamento di quel meccanismo interattivo tipico di un’attività lavorativa, i cui prodotti sono merci. Tale forma mercantile aggiunge alla sproporzione – quale carattere di una crisi – anche l’anarchia all’interno di ogni settore di attività e nei rapporti tra settori. Malgrado i (vani ed effimeri) tentativi di regolazione, la competizione mercantile non può non essere anarchica salvo che – del tutto parzialmente e per una data fase – nei momenti di decisa prevalenza di certi comparti dell’insieme: in genere si tratta, nelle epoche dette monocentriche, di una determinata formazione particolare rispetto alle altre del suo campo (area) di competenza.
La produzione di merci implica la duplicazione monetaria, con creazione di un settore specifico, detto finanziario, ove l’attività è specialmente frenetica e si sviluppa con ritmi assai veloci, dato che i tempi della sua realizzazione sono in pratica inesistenti in rapporto a quelli necessari nei settori della produzione in senso stretto. La sproporzione prende quindi spesso l’aspetto di una crescita abnorme del settore finanziario rispetto agli altri; ed è per questo che da qui prende generalmente avvio la crisi nei suoi aspetti più appariscenti e anche largamente dannosi per l’intero circuito dello scambio mercantile, che viene a bloccarsi. Quando ciò accade, ecco levarsi gli alti lai contro l’immoralità dei tempi, il decadere dei sani costumi dei capitalisti di un tempo, la smania di troppo guadagnare e troppo velocemente; e senza sporcarsi le mani in un’attività produttiva reale.
Ecco spuntare inoltre le litanie sull’etica negli affari, che deve tornare a orientare l’azione dei banchieri; ecco alzarsi le reprimende contro l’eccessivo desiderio di lusso e il consumismo sfrenato, il che fa, schizofrenicamente, a pugni con l’invito all’aumento dei consumi come antidoto alla cadu-
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ta dell’attività produttiva dovuta all’ingorgo delle merci invendute. Allora, si propugna la produzione di beni “proprio necessari” (e quali sono i non necessari? Dati gli stretti intrecci interattivi della produzione di merci, quali settori si debbono sacrificare senza avviare effetti a catena nell’intero sistema?). Si aggiunge poi il consiglio di mettere in programma un pizzico di opere infrastrutturali; ma che siano proprio quelle utili alla collettività. Un’autentica sequela di “quisquilie e pinzillacchere” per dirla alla Totò; che è poi l’unico commento possibile alle proposte dei “grandi” economisti (premi Nobel a volontà) e tecnici che affrontano le crisi, e i cui suggerimenti vengono spesso ignorati dalle “autorità preposte”, che tuttavia non ottengono con nessuna scelta risultati eclatanti, in specie nel medio periodo (salvo momentanei sollievi, come dopo un’iniezione di morfina ad un malato di cancro).
Una semplice crisi finanziaria, pur accompagnata da gravi (ma momentanei) disturbi ai circuiti dell’attività produttiva reale, è in fondo una sorta di estesa “brufolosi” dell’organismo economico. Se dura, e se prende aspetti sconvolgenti, è allora espressione di mutamenti del sistema mondiale ben più consistenti e non riguardanti la sola economia. La grande crisi del ’29 non fu per null’affatto sconfitta dalle politiche keynesiane (ante litteram) del New Deal; questo finalmente si comincia a dire sempre più di frequente, senza però trarne conclusioni realmente conseguenti. Quella crisi fu una delle espressioni del disordine mondiale legato al pieno policentrismo dell’epoca, appena intaccato dall’uscita dell’Urss dal circuito mercantile globale e soprattutto dalla forte crescita degli Usa, in quanto potenza, ancora però non in grado di far entrare – almeno il capitalismo “occidentale” – nella sua fase monocentrica, caratterizzata dalla statunitense formazione dei funzionari del capitale; sbocco che si ebbe solo con il regolamento dei conti nella seconda guerra mondiale, in cui non furono sconfitti solo Giappone e Germania, ma altrettanto (malgrado le apparenze vittoriose) anche Inghilterra e Francia, il cui ultimo sussulto (agonico) si ebbe nel 1956 con il patetico tentativo di riappropriarsi del Canale di Suez.
I vecchi comunisti, avendo recepito un marxismo del tutto economicistico, pensavano si potesse regolare lo squilibrio intersettoriale e l’anarchia mercantile tramite la mera pianificazione generale e dall’alto. Evidentemente, non avevano capito le condizioni sociali del comunismo, pensate da Marx – in base a tendenze realistiche da lui constatate ai suoi tempi – come formazione del lavoratore collettivo, che avrebbe caratterizzato una produzione non mercantile affidata ai produttori associati (pur se divisi in diverse unità produttive ma interagenti senza la mediazione della sedicente “mano invisibile”). La pianificazione socialista esigeva la permanenza di uno Stato autoritario, ideologicamente posto quale organo rappresentante la collettività (nella prima fase, la dittatura del proletariato); mentre era, come qualsiasi altro Stato, un campo di battaglia tra gruppi di dominanti, la cui fittizia unità era trovata nel partito (eretto ad avanguardia del proletariato), dietro il cui schermo si svolgeva una lotta politica trasformatasi in “complotti di Palazzo”. Nei paesi capitalistici, più coerentemente ed efficacemente, l’unità dello Stato (vissuta più che altro ideologicamente) è assicurata dal suo apparato lavorativo burocratico, mentre la lotta dei dominanti nella sfera politica è affidata ai partiti o, oggi, ai “capi carismatici” (senza più nemmeno carisma).
D’altronde, le cosiddette cooperative, nei paesi capitalistici, sono soltanto aziende come tutte le altre di diversa forma proprietaria, in cui la sopravvivenza e prosperità sono dovute alla capacità o meno del management di agire con la competenza e autorità necessarie nell’ambito di una robusta competizione: soltanto all’apparenza solo mercantile, mentre deve coinvolgere pure la sfera politica e gli apparati ideologici. Caduta oggi la prospettiva comunista – del resto, come già rilevato, vissuta solo ideologicamente per settant’anni, poiché il “socialismo reale” si è rivelato in definitiva una diversa forma di capitalismo in gestazione, oggi finalmente in fase di più avanzata fioritura – è necessario combattere la ripresa di vecchie utopie premarxiste, che si presentano in nuove forme di comunitarismo, di anticonsumismo e decrescita, ecc. Da combattere senza remissione, perché non si affronta l’avversario principale con simile zavorra che si infiltra tra le “tue schiere”.
Del resto, anche i dominanti, come appendice alla loro propria ideologia principale (liberista o keynesiana, ecc.), si servono saltuariamente, specie in una situazione di crisi, di simili imposture in
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grado di consolare i “reietti” con le bubbole della crisi finale del capitalismo, della possibilità di una “calda comunita”, come quella micidiale che si viveva nei falansteri fourieristi o nelle comunità di Owen o magari in quelle sessantottesche – sia hippies (in specie negli Usa, ben rappresentate nel datato film Easy rider) sia le “comuni” tedesche – tutti esperimenti falliti miseramente e con strascichi di odio autentico tra i vari membri. Non parliamo dei Kibbutz, contro cui polemizzavo già negli anni ’50, quando venivano presentati come il massimo di un socialismo realmente democratico e popolare; tanto da essere l’organizzazione sociale di incubazione dello spirito razzista di coloro che si sentono gli eletti, superiori a tutti gli altri popoli che possono essere allegramente oppressi e massacrati se tentano di ribellarsi.
Oggi, però, si è contro questo spirito “socialista” che tende alla modernità tecnologica e all’efficienza. Poiché la politica viene abbandonata (ai dominanti), la critica viene diretta proprio contro la modernità e l’efficienza, ritenute di per sé la fonte dell’oppressione e dei massacri. Facendo un enorme regalo ai dominanti – un regalo in realtà ben pagato a questi novelli Giuda – i critici odierni, pregni di (falso) spirito comunitario, predicano la frugalità e l’anticonsumismo, la decrescita ecologica (e bucolica). Questi nuovi “francescani” trasmettono un’ideologia di dissoluzione e disgregazione sociale in piccoli gruppi di fedeli, i cui miasmi asfissianti servono a soffocare le potenziali prospettive di aggregazione di forze contrarie ai dominanti (almeno a quelli più reazionari e parassitari); questi ultimi tollerano perciò, e nei momenti di crisi alimentano, gli intellettuali in grado di “avvelenare i pozzi” con simili utopie di bassa lega. Simili personaggi esiziali meritano lo stesso disprezzo che Marx riversò su Proudhon e gli altri socialisti reazionari nel Manifesto del 1848, nella Miseria della filosofia, e sempre e dappertutto; lo stesso disprezzo (e anche qualcosa di più drastico dopo la rivoluzione) che Lenin manifestò verso gli “amici del popolo”, e poi i menschevichi e i socialisti rivoluzionari.
6. La crisi si accompagna dunque alla sproporzione e all’anarchia; è effetto di queste ultime, ma poi moltiplica tal effetto, involvendo su se stessa. Poiché essa inizia, per i motivi già ricordati, nel settore finanziario – cresciuto in modo abnorme e mediante tutti gli imbrogli e i trucchi cui si dedicano i finanzieri, nel loro reciproco conflitto e certamente per arricchirsi – si ritiene la crisi un sintomo rivelatore del carattere parassitario ormai definitivamente assunto dal capitalismo, che infine svelerebbe il suo vero volto all’insieme delle masse popolari (o a quelle lavoratrici o alla “Classe”, ecc.) dato che, dopo tanto parlare del “siamo tutti nella stessa barca, dunque cooperiamo”, la crisi sfocia nell’“ognuno per sé e Dio per tutti” (almeno se è una vera crisi da policentrismo acuto; e quella in corso non lo è ancora). Insomma, poiché la sproporzione intersettoriale e l’anarchia generale sembrano squinternare tutto l’insieme, allora i “critici critici” gridano finalmente all’avvento del Giudizio Universale che segnerà la fine del capitalismo. E agitandosi scompostamente e strepitando – e restando sempre sorpresi per essere seguiti soltanto da piccoli gruppi di scalmanati – attendono ansiosamente il crollo del “nemico”; in realtà protetto anche dalla loro stupidità (di alcuni, mentre altri sono dei consapevoli manutengoli del potere, che troveranno a tempo debito i loro onori e i loro posti di fiduciari dei dominanti).
Le crisi sono invece la manifestazione di superficie (i “terremoti”) dei conflitti sempre più acuti tra dominanti sul piano mondiale (lo scontro delle “falde tettoniche” nelle viscere del sistema). Tale scontro avviene dunque essenzialmente, almeno nella fase della crisi che coincide con il pieno policentrismo (e che non è dunque più una semplice crisi economica), tra varie formazioni particolari (divenute potenze). Nel periodo più acuto del conflitto sono messi in sordina i conflitti interdominanti interni ad ognuna di queste potenze (spesso perché uno dei gruppi dominanti ha vinto sugli altri); e ci si prepara a più duri contrasti per la supremazia complessiva, in un andirivieni di alleanze sempre cangianti a seconda delle esigenze mutevoli di una situazione mondiale in forte sommovimento e fibrillazione. I gruppi dominanti delle diverse formazioni particolari non hanno solo bisogno di coesione (più o meno volontaria o coartata) fra loro, ma di farsi seguire dai “popoli”, da gran parte dei raggruppamenti sociali (strati e segmenti) formati dai dominati. Potete essere sicuri che, in
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tali periodi storici, i critici populisti del capitalismo si faranno in quattro per inneggiare alla lotta della propria bandiera nazionale contro le altre. I popoli verranno come al solito invitati a seguire i dominanti nel loro farsi la “guerra” (che sia propriamente militare o di altro genere, poco importa; non è questione decidibile, profeticamente, in questo momento).
La crisi è dunque l’anticamera, il segnale premonitore, di un mutamento dell’intera strutturazione sociale mondiale. Si potrebbe dire geopolitica, ma il cambiamento è molto più profondo, implica trasformazione dei rapporti (tra gruppi) sociali all’interno delle varie formazioni particolari e non soltanto mutamento della configurazione dei rapporti tra di esse, con rafforzamento, per tappe successive, del multipolarismo fino al raggiungimento del policentrismo in quanto fase che dovrebbe poi condurre ad una nuova epoca monocentrica, più o meno stabile. Decidere oggi quale sarà alla fine il nuovo paese centrale (“semimperiale” ), è una mania molto in voga tra gli intellettuali “critici critici”, ma è sintomo della loro debolezza teorica, del loro atteggiamento sempre profetico. Non è un caso che gli stessi personaggi, dopo il crollo del mondo bipolare, abbiano immaginato un secolo XXI come periodo del “passaggio di testimone” dagli Usa al Giappone. Entrato in crisi quest’ultimo, i profeti si sono subito spostati sulla Cina.
Nessuna concessione a simili pasticci pseudo-teorici. Ammissione aperta che non sappiamo con precisione l’evolversi dei processi né tanto meno il loro sbocco ultimo nel corso del secolo; possiamo solo indicarne alcune caratteristiche che ci appaiono di fondo. Innanzitutto, avanza il multipolarismo – e, nella presenta fase, per merito soprattutto della rinascita russa, senz’altro più rilevante nel medio periodo degli spettacolari ritmi di sviluppo (adesso anch’essi in ribasso) di Cina e India – e si profila all’orizzonte, ma non tanto presto, il policentrismo. La crisi da sproporzione e da anarchia è vissuta dai vari agenti – sia dai tecnici ed esperti dei dominanti sia dai critici del sistema, in genere catastrofisti – secondo due modalità opposte eppur solidali nel loro oscuramento ideologico. I primi tendono a vedere la causa della crisi in errori e deviazioni soggettive da un presunto retto operare degli imprenditori, soprattutto nei settori della finanza; i secondi vi vedono l’impossibilità oggettiva del capitalismo di superare le sue contraddizioni, che lo porteranno infine al crollo.
Entrambi sbagliano bersaglio. E’ del tutto ovvio che, trattandosi di fenomeni sociali, essi evolvono in base a scelte e decisioni di vari attori soggettivi; ed è chiaro che questi sono individui umani, che hanno i loro maggiori o minori gradi di libertà nel loro agire. Tuttavia, non si fa teoria sociale se tali attori non vengono considerati quali punti di snodo di reti di rapporti sociali e se le loro azioni non vengono quindi trattate secondo la causalità promanante da detti rapporti; una causalità solo probabilistica e, diciamo così, instabile giacché il capitalismo non è certamente una sorta di automa in autoevoluzione rigidamente determinata. Le nostre ipotesi teoriche lo debbono senza dubbio “vedere”, “osservare”, quale sistema retto da certe “leggi”. L’importante è non erigere tale sistema a realtà certa e indipendente da ogni osservazione (fondata appunto su ipotesi); di modo che le sue leggi siano allora pensate come immutabili ed eterne, per cui noi possiamo solo decifrarle ed in esse leggere gli ineluttabili destini del capitalismo, che per i “marxisti sclerotici” sono poi quelli dei suo inevitabile crollo.
La sproporzione è, a mio avviso, l’unico modo secondo cui un dato organismo possa svilupparsi, mentre l’idea dello sviluppo armonico è semplice fantasia. L’armonia è quella delle società immobili, in riproduzione semplice, sempre secondo le stesse quantità e con la stessa organizzazione sociale. La presunta armonia dello sviluppo pianificato nel cosiddetto socialismo – che fu solo una società piegata ai supremi voleri di un gruppo detentore del potere accentrato nello Stato (lasciando per il momento perdere che cos’è in realtà l’apparato che così viene denominato) – fu in realtà un fortissimo squilibrio perseguito ai danni dei settori agricoli per convogliare tutto il pluslavoro possibile verso l’industrializzazione. Quando pretese di conseguire uno sviluppo più armonico, il sedicente socialismo s’ingrippò, decadde rapidamente, e perse clamorosamente il suo confronto con il capitalismo, di cui i “marxisti sclerotici” teorizzavano l’impossibilità di saper infrangere le barriere che esso avrebbe posto a se stesso. Le barriere se le pose invece questo presunto socialismo, le cui pretese di sviluppo equilibrato furono solo l’espressione della presa del potere da parte di un gruppo
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dominante totalmente incapace di direzione, e in fase di accelerata involuzione da Krusciov a Gorbaciov. Lo sviluppo equilibrato si trasformò così in effettiva paralisi e stagnazione fino all’implosione finale del 1989-91.
Gli organismi si sviluppano attraverso l’accentuato squilibrio delle loro parti costitutive, di cui alcune assumono la funzione di locomotiva e trainano – certo non sempre, ma dandosi determinate condizioni – le altre. E queste parti non soltanto accentuano le sproporzioni, ma in esse lo sviluppo è caratterizzato dal conflitto tra più centri di attività, che non sono soltanto quelli economici, ma coinvolgono anche quelli delle sfere politica (decisiva) e culturale (di supporto, ma rilevante). Il tutto produce, in un più lungo periodo, lo sviluppo ineguale delle varie parti e del complesso formato dalla loro interazione, cosicché sia la “locomotiva” che l’articolazione d’insieme di queste parti tendono a mutare con il tempo fino al conseguimento di una temporanea e relativa stabilità in fasi monocentriche (che riguardano anche le singole formazioni particolari oltre che quella complessiva mondiale).
Ovviamente, i processi di squilibrio fortemente dinamico diventano più intensi e frenetici quanto più ci si avvicina al policentrismo; solo che in fasi simili, la tendenza allo sviluppo (comunque sempre sproporzionato) entra in contrasto con l’accentuarsi del conflitto che, creando anarchia, può produrre lo sviluppo negativo, cioè la crisi. Ed è inutile ripetere che – in un sistema in cui la produzione nella forma di merce duplica l’attività detta reale in quella monetaria, con i vari fenomeni dell’autonomizzarsi (relativo) della finanza e il suo involversi su se stessa – detta crisi si manifesta appunto in questo settore e nel completo disordine dei circuiti di scambio, con interruzione degli stessi e tutto ciò che ne consegue e che trattiene completamente l’attenzione degli ideologi dei dominanti e di quelli che si pretendono “critici critici” del sistema in questione. Il tutto in una visione che nei primi assume consapevolmente una connotazione di breve periodo (e anzi sempre più breve); mentre i secondi si lanciano nei vaneggiamenti “rivoluzionari” intorno alla trasformazione del capitalismo in utopiche società future.
Alla fin fine i due tipi di ideologi si completano a vicenda. Mentre i primi si arrabattano affannosamente per tappare via via le falle che si aprono in quella competizione che ha condotto allo sviluppo negativo, i secondi diffondono utopie che sviano soprattutto forze giovanili verso obiettivi fasulli. Vedo che non a caso Le Monde diplomatique – organo ben preciso in compiti come questi – riscopre nuovamente Proudhon, la pretesa alleanza di proletariato e classi medi per superare il capitalismo, mentre in realtà questi propugnava una società mercantile composta di produttori del “piccolo focolare” (non sentiamo una ben precisa eco degli utopisti antimodernisti di questi nostri tempi?). Alcuni decenni fa tale riscoperta fu tentata dal socialismo craxiano in Italia (con un saggio di Pellicani), ma l’operazione finì nel ridicolo e nell’immondezzaio culturale.
Allora però le crisi del sistema occidentale – che alla fine prevalse sul quello dell’est europeo – erano recessioni non tali da infirmare un sostanziale trend di buon sviluppo (positivo). Oggi, in una situazione certamente assai meno rosea, certe minoranze utopiche non vanno sottovalutate come “aiutino” ai dominanti. Ho sempre saputo di che tipo erano gli intellettuali raccolti intorno a Le Monde diplomatique, come quelli del social forum, del nostro Manifesto e via dicendo; arriva la fase storica dura, in cui questi finalmente mostrano il loro vero volto, si pongono in sostanza dalla parte dei dominanti, che li finanziano (o favoriscono in vari modi; editoriali, mediatici, ecc.) poiché l’importante, in una fase del genere, è dirottare forze nuove su vie senza uscita. In fondo, come ben si sa, la gioventù è una “malattia” molto breve; poi i “contestatori” mettono la testa a posto, vengono inseriti nei mezzi di informazione a larga diffusione, assunti nel management di date aziende, ecc. L’importante è superare la punta acuta della crisi; e in ciò sono utilissimi gli “ultrarivoluzionari” utopisti; al massimo qualcuno, un po’ più esaltato, può commettere qualche “sciocchezza”, del tutto utile per condannare moralisticamente ogni altro intento critico del sistema, pur quando sia condotto senza minime concessioni al massimalismo parolaio né all’azione violenta decerebrata, che si trasforma in mera delinquenza.
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7. Ho volutamente definito la crisi come sviluppo negativo; legato certo all’anarchia e sconnessione e perdita d’ordine regolativo dell’intero sistema. Poiché la crisi (come un “terremoto”) produce gravi danni ed è giustamente avvertita dalla popolazione quale autentico disastro, essa viene considerata da tutti i comparti degli ideologi (sia schierati apertamente con i dominanti, sia critici del capitalismo: così come si configura in quella fase oppure in sé e per sé) un evento puramente distruttivo. E ci si arrabatta sulle misure da adottare per alleviarne le sofferenze ed uscirne al più presto; oppure si fantastica sulla fuoriuscita dal capitalismo tout court per avviarsi verso la società comunista (o qualche versione più o meno edulcorata della stessa).
Data la strutturazione del sistema capitalistico, quello che assume i caratteri della crisi – solo in un primo momento economica, mentre diventa più complessa e generale durante l’accelerato avanzamento verso il policentrismo – è un vasto processo di riarticolazione del sistema in oggetto: sia sul piano globale che all’interno delle varie formazioni particolari. La riarticolazione – che si può temporaneamente concludere, dopo uno scontro generalizzato e acuto, in una nuova fase monocentrica – dovrebbe condurre ad un diverso capitalismo; come accaduto con il passaggio da quello borghese (il modello inglese ottocentesco) a quello dei funzionari del capitale (modello soprattutto statunitense nel novecento) e probabilmente a qualcos’altro ancora in un futuro imprecisato, e su cui mi rifiuto di fare previsioni che assumerebbero il carattere di immaginifiche profezie.
La crisi – ripeto: soprattutto quella complessiva e non solo economica che ne è semplicemente un sintomo premonitore e di “superficie” – è parte integrante dello sviluppo che, mediante sproporzione e anarchia interconflittuale sfocianti alla fine nello sviluppo ineguale (a livello globale come all’interno di varie formazioni particolari), produce comunque una profonda trasformazione della struttura dei rapporti sociali che spiazza tutte le forze dedite a escogitare mosse politiche (sia pure anche soltanto di politica economica) per risolverla. Spiazza sia i “teorici” (in verità, quasi sempre solo tecnici ed “esperti”) dei dominanti sia quelli che pensano al rovesciamento del sistema. Certo, la tipologia delle crisi conosciute è connessa alla strutturazione capitalistica della società; che tuttavia non rimane sempre la stessa come pensato finora soprattutto dai “marxisti” (non a caso definiti sclerotici). D’altra parte, lo sviluppo non va confuso con la mera crescita. Quest’ultima è di carattere quantitativo e viene misurata con indici economici; mentre lo sviluppo implica trasformazione della struttura dei rapporti sociali.
Gli indici economici possono essere al ribasso, ma lo sviluppo in quanto trasformazione avviene egualmente. Tuttavia, la sproporzione e l’anarchia (conflittuale) provocano grandi destrutturazioni sociali con disagi e sofferenze estese. Solo chi pensa in termini di scontro semplicisticamente e linearmente duale – borghesia/proletariato, proprietà capitalistica/lavoro salariato (e sfruttato), ecc. – può immaginare che la crisi, con sviluppo negativo, conduca inevitabilmente alla rivoluzione dei dominati contro i dominanti. La complessità dei conflitti tra raggruppamenti sociali, in presenza della sproporzione e anarchia, avvia invece il processo dello sviluppo ineguale – interno alle formazioni particolari, ma ancor più nella loro interrelazione a livello mondiale – provocando in una prima fase il coagularsi di blocchi di alleanze (“interclassisti”) con principali contrasti tra gruppi dominanti (e dirigenti i blocchi), e solo secondari tra essi e i differenziati raggruppamenti di dominati.
Se mi si permette un inciso, credo che le maoiste “contraddizioni all’interno del popolo” fossero un tentativo, per quanto intuitivo e poco cosciente, di pensare lo sviluppo, periodicamente caratterizzato da conflitti, in una società nel cui ambito si sarebbe dovuto progressivamente esaurire lo sfruttamento, quindi l’effettiva divisione tra dominanti e dominati. Non si era però accettato il principio secondo cui lo sviluppo non è processo armonico e complessivo di avanzamento di ogni settore economico e tanto meno dei diversi comparti sociali, che si vanno differenziando sempre più proprio nel corso di detto sviluppo. Non si è così riusciti a dominare più le contraddizioni che continuavano ad esplodere. D’altronde, siamo ancora ben lontani dal comprendere come esse andrebbero controllate, meglio ancora orientate senza pretendere di soffocarle, il che provoca solo il fallimento di ogni pretesa di “costruire il socialismo”. Ed ogni fallimento ridà la stura alle utopie di società “più giuste”, “più democratiche”, “più egualitarie”, ecc., che aprono la strada al nuovo trionfo di
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molto più concrete politiche realmente in grado di far avanzare la società, però con formazione di una struttura (di rapporti) ben articolata e diversificata sulla base di una nuova divisione tra dominanti e dominati (tra i molti gruppi in cui sia i primi che i secondi si suddividono).
8. Riprendiamo il faticoso argomentare intorno ad un tema cruciale. La crisi è momento inevitabile dello sviluppo, che non è mai processo armonico e di avanzata su tutti i fronti. Lo squilibrio, e l’ineguaglianza nello sviluppo dei diversi settori e formazioni particolari (in definitiva, paesi), accentua il conflitto (prima multipolare e poi policentrico) e conduce alla decrescita degli indici economici con concomitante sviluppo (in quanto trasformazione strutturale) che acquista il carattere negativo del terremoto sociale. Carattere inevitabile, ma che è negativo solo nel breve periodo, poiché alla fine della crisi (non appunto quella solo economica, di più breve momento) emergono formazioni con una nuova struttura, insieme sociale e produttiva, dotate della potenza necessaria a confrontarsi fra loro nella fase “ultima” del conflitto policentrico, che deve condurre una di esse alla supremazia (quasi) globale.
L’imperialismo, quale “ultimo stadio” del capitalismo è stato precisamente una di queste fasi con cui termina un determinato ciclo storico. In quel caso, l’imperialismo chiuse la fase del capitalismo borghese: quello a centralità inglese, già “storicamente” finito, ma con alcuni sussulti da “morto vivente” che si protraevano ancora. Nell’epoca che sembra essersi ormai aperta, dovremmo (usiamo tutta la prudenza possibile) avviarci verso “l’ultimo stadio” del capitalismo dei funzionari del capitale (a centralità statunitense). Con uno di quei paralleli storici che vanno presi cum grano salis (e molto, ma molto), dovremmo grosso modo essere situati intorno agli ultimi decenni del secolo XIX, quelli caratterizzati dalla lunga depressione del 1873-96. Ribadisco che la prudenza è d’obbligo; non darei comunque grande rilevanza alle previsioni dei tecnici ed “esperti” attuali dei dominanti, che prevedono l’uscita dalla presente crisi chi alla fine del 2009, chi nel 2010, ecc. In realtà, non sanno quando se ne esce, sparano date (e dati) a casaccio, con la “faccia di tolla” tipica del perfetto ignorante, che mostra serafico il massimo della certezza. Questi esperti e tecnici del capitale meriterebbero veramente una punizione esemplare per togliere loro questo irritante vizio di giocare agli indovini e di farsi passare per competenti (prendendosi perfino i premi Nobel).
Il problema fondamentale su cui puntare l’attenzione non è comunque quello del superamento della fase più negativa in termini di puri dati economici. Ciò su cui si può timidamente avanzare una scommessa è che alla crisi non seguirà un periodo di nuovo boom. Ci saranno ancora periodi di crescita, qualche anno magari contraddistinto da un buon incremento del Pil; nell’insieme, però, si può prevedere un periodo abbastanza lungo in cui il trend (la media complessiva della crescita) sarà di poco in aumento. Si dovrebbe trattare inoltre di un periodo di gestazione del nuovo “ultimo stadio” di un dato ciclo storico. Si verificherà invece molto probabilmente lo sviluppo, inteso come trasformazione delle strutture, sia sociali che produttive. E si andranno delineando le potenze che poi si affronteranno in modo più ravvicinato; sempre ricordando che l’eventuale scontro “bellico” deve essere inteso in senso lato, non necessariamente sul modello degli eventi militari dei secoli scorsi e, in particolare, su quello delle novecentesche guerre mondiali. Anzi, evitiamo proprio di formulare previsioni a questo proposito.
In una fase di sviluppo del genere – negativo quanto a dati economici, di disagio sociale crescente, ma di trasformazione delle strutture produttive e soprattutto sociali, sia interne che nei rapporti internazionali; una trasformazione conseguente all’acuirsi dell’anarchia e del conflitto – si manifesta una netta discrepanza tra gli effetti del processo sul piano sociale, relativo all’intera formazione (particolare e, ancor più, mondiale), e quelli vissuti dai singoli individui dei gruppi dominanti e di quelli dominati. I singoli – e i gruppi di cui fanno parte – sentono la crisi come fonte di gravissimi disagi, cui si cerca di mettere termine con quelli che, in definitiva, sono sostanziali palliativi (aspirine per curare una polmonite); mentre altri pensano al preannuncio o di una catastrofe imminente o della catarsi e del sorgere di una società “migliore”, con uomini “più umani”. In tutti i casi, tutti predicano un’azione comune per salvare il sistema complessivo o invece per rovesciarlo e
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instaurare la “società nuova”. Si moltiplicano gli incontri e le dichiarazioni sulla necessità di operare tutti insieme, senza egoismi particolari, ognuno dei quali lederebbe gli interessi altrui; per cui il risultato complessivo sarebbe il danno per tutti.
Il vero fatto è che l’attenzione della stragrande maggioranza dei centri decisionali si concentra sull’aspetto economico della crisi, considerando al massimo i disagi sociali nella loro forma di diminuzione del tenore di vita di porzioni cospicue della società; da qui la tematica ossessiva della deficienza di domanda, a partire da quella dei consumatori per arrivare alla caduta degli investimenti, non più profittevoli venendo a mancare un sufficiente smercio dei prodotti. Dietro i centri decisionali economici, che occupano il palcoscenico, lavorano tuttavia (e per fortuna) quelli strategico-politici senza dubbio più consapevoli dei processi profondi (lo “scontro delle falde tettoniche che provoca i terremoti di superficie”). In tali centri si prende atto delle sproporzioni, dell’anarchia conflittuale, dell’emergere di nuovi comparti sia sociali che produttivi, del procedere della formazione mondiale verso il multipolarismo che precede il policentrismo, con il corollario della messa in moto dello sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari.
I centri strategico -politici non si accontentano certo di analisi “oggettive” della situazione in atto, bensì pensano sempre in termini di intervento in essa per modificarla a favore di questo o quell’attore (sia che ci si riferisca al conflitto interno ad un paese, sia a quello a livello internazionale). Data la segretezza dei centri in questione, difficile è appurare quanto essi abbiano valutato a fondo l’evoluzione di lungo periodo e quanto invece si siano limitati ad una visione di più corto respiro; quanto, dopo le valutazioni, la loro azione si riveli efficace o invece fallimentare. In genere se ne vedono gli effetti dopo un certo periodo di tempo, e per di più non conoscendo a fondo le analisi condotte, in base alle quali sono state prese quelle date decisioni e raggiunti quei dati risultati. Una conclusione è però ben chiara: i centri decisionali in questione si riferiscono ai processi in corso, cioè alla sproporzione, all’anarchia conflittuale, allo sviluppo ineguale con trasformazione strutturale sia interna alle formazioni particolari sia per quanto concerne l’interrelazione mondiale di queste ultime.
Di conseguenza, quello che sembra l’interesse comune a cooperare appare a chi opera nei centri strategici per quello che è: una mera impressione dei soggetti che agiscono nella superficie dei processi, impressione continuamente vanificata e smentita da quanto si svolge in profondità. Chi sa immergersi in quest’ultima nemmeno finge più di agire per fini comuni, che diventano il mero involucro di mascheramento (la cortina fumogena) di una ben diversa azione tesa ad incrementare il proprio sviluppo, cioè la propria trasformazione strutturale, onde rendersi capace di vincere la competizione per la conquista della supremazia, e di divenire dunque, alla fine di un lungo periodo storico di contrasti tra più poli, nuova locomotiva di una crescita anche quantitativa, anche del tenore di vita medio complessivo dell’insieme sociale (interno o mondiale), ovviamente con forti differenziazioni nell’ambito della media.
Ecco perché la razionalità di sistema – che è una razionalità basata sul conflitto strategico, non sulla placida e pacifica cooperazione – non persegue quest’ultima, se non a parole, se non nell’ideologia di inganno delle “masse”. La cooperazione significherebbe in realtà il continuo cincischiare con la crisi, in specie con il suo mero lato economico, agendo a spizzico senza una benché minima visione di lungo respiro. La decelerazione continuerebbe e – come accade ad un individuo che cerchi di fare passi cortissimi, del tutto al di sotto della sua norma – il sistema si disequilibrerebbe del tutto, inizierebbe la sua rovinosa caduta, finché qualcuno (qualche gruppo, qualche formazione particolare, ecc.) non prendesse in mano la situazione e premesse nuovamente sull’acceleratore; con tanti saluti a tutti i “razionalissimi” predicatori della cooperazione per il bene comune. E’ evidente che questi sono preda di illusioni ideologiche e di quel meschino buon senso che è il putrido impasto di cui è composto il filisteismo dei conformisti. Alla larga da questi: o fessi o imbroglioni.
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9. Mi sembra dunque molto evidente la conclusione delle argomentazioni svolte sino a questo punto. Senza perdere tempo ad appurare quanto i sostenitori e divulgatori della cooperazione ai fini del bene comune – nel caso in questione, della migliore (o meno peggiore) gestione della crisi in atto – siano in buona fede o consapevoli mentitori, si può essere sicuri che, alla fine, i veri centri decisionali si scosteranno più o meno, e più o meno rapidamente, da tali intenti dichiarati; pur se magari cercheranno di nascondere il più a lungo possibile l’abbandono di simile prospettiva, al fine di non spaventare ancor di più il grosso delle popolazioni. In linea generale, mi sento di poter affermare che i centri decisionali economici (di politica economica) sono quelli che, in buona fede o meno, continuano a perseverare più a lungo nel falso buon senso della cooperazione comune. I più segreti e riservati centri decisionali strategici – addetti al rafforzamento della potenza, e quindi delle sfere di influenza, di date formazioni particolari (paesi, nazioni, Stati) – agiscono con maggiore consapevolezza nell’ambito dello squilibrio e delle sproporzioni (connesse al conflitto). Per quanto facciano passare l’insieme mondiale attraverso periodi di aggravamento delle crisi (e non solo economiche, bensì a più ampio raggio), sono quelli che poi le risolvono dando vita ad ulteriori sviluppi; nel senso però delle trasformazioni strutturali e dunque dei rapporti di forza tra gli attori, con radicale mutamento delle fasi storiche, per entrare nelle quali occorrono tempi in genere lunghi.
Esauritasi ormai completamente l’epoca (di oltre un secolo), in cui si era creduto alla possibilità della transizione al socialismo e comunismo a causa di processi oggettivi e intrinseci allo sviluppo capitalistico, dobbiamo finalmente prendere atto che così non è stato (e non poteva essere). Naturalmente, non avrebbe senso nemmeno dichiarare impossibile ogni nuova prospettiva comunista; semplicemente ci si deve rifiutare di buttare a caso profezie “programmaticamente” pessimistiche od ottimistiche. Chiunque si metta a predicare il comunismo non più in base alla supposta oggettività di certi processi – della cui inesistenza un cervello normale è divenuto oggi sicuro – bensì inventandosi invereconde menzogne ideologiche circa presunti aneliti libertari e di “bontà”, ecc. dell’Uomo (nella sua “religiosa” Essenza), va preso per quello che è: un mistico esaltato o un imbroglione che si serve di diseredati (mentali) per acquisire piccole e miserabili sacche di potere all’interno di quello ben più vasto e pervasivo dei dominanti.
E’ necessario, con molta prudenza e sobrietà, valutare la fase in cui ci si trova, evitare ogni ragionamento spinto ai prossimi cent’anni, tenendo ormai conto dell’impasse della teoria (marxismo) che aveva comunque analizzato il capitalismo con grande realismo, senza però accorgersi di aver preso ad oggetto di indagine una ben precisa epoca di tale formazione sociale, quella del predominio della borghesia con il suo centro d’irradiazione posto assai a lungo in Inghilterra. Secondo quanto tutto lascia supporre, siamo adesso ai prodromi di un nuovo ciclo “imperialistico” (policentrico) che deve passare però per una fase di transizione multipolare. Si tratterà necessariamente di una fase complessa e confusa, che conoscerà sobbollimenti e subbugli vari, di difficile ordinamento conoscitivo teorico ai fini di una prassi adeguata a promuovere processi di trasformazione. Cominciamo però intanto ad affermare con nettezza che questi ultimi non debbono al momento essere orientati dall’ossessione del comunismo (tanto meno del comunitarismo e variazioni sul tema). Si deve soprattutto indagare a fondo sulle contraddizioni tipiche dell’epoca, in particolare sui conflitti multi-polari, per valutare le linee di debolezze, di frattura, del sistema geopolitico globale.
La teoria – per usare una fraseologia althusseriana, la pratica teorica, senza intestardirsi invece fin da subito su una Teoria di tale pratica, che sarà semmai ancora successiva – non nascerà per volontà esclusivamente soggettiva; essa assumerà forma maggiormente compiuta e generalmente sistematica soltanto alla fine del mutamento di una data epoca storica (“la Nottola di Minerva…. ecc. ecc.”). Solo l’incallito idealista crede che l’innovazione teorica e scientifica nasca, per intuizione pura, nella mente di un individuo in un momento qualsiasi. Nasce certo nella testa di un individuo, assomiglia spesso all’accendersi di una lampadina, ma il fatto non può avvenire se non dopo un lungo travaglio e il rimuginare teorico di innumerevoli studiosi, pensatori; e dopo sommovimenti sociali pratici caotici e all’inizio scarsamente decifrabili. I “comunisti” odierni (pochi per fortuna) sono puri sognatori o imbonitori da fiera paesana che raccontano frottole per deboli di mente o
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rammemorano per l’ennesima volta – senza l’arte che rende almeno commoventi certe storie – gli eventi del passato. Essi fanno parte del “teatro dei pupi”; non sono però i pupari, bensì le marionette, del tutto mal costruite e ridicole nei loro movimenti.
Siamo obbligati a compiere un passo indietro poiché – quando una teoria, già assestata e per lungo tempo seguita ed elaborata, viene a cadere – esiste un necessario periodo di transizione a quella nuova, in cui ogni intento sistematico immediato nocerebbe al pensiero: la fluidità e incertezza dei passi che vengono compiuti si pascono di concetti più generici, ma più aperti a sviluppi nuovi. Lasciare per esempio da parte le vecchie “classi” – la cui precisa definizione, fondata sulla teoria del valore e plusvalore, si è rivelata del tutto ingannevole e ormai di intralcio a qualsiasi progresso conoscitivo – comporta di fatto il ritorno alla senz’altro generica definizione di dominanti e dominati. In questo netto dualismo, essa è però limitata e poco conoscitiva quanto quella precedente. Nei paesi a capitalismo avanzato, poi, parlare di dominati (o peggio di oppressi o addirittura di sfruttati) è usare una terminologia poco appropriata. Potremmo tradurre dominati con “non dominanti”. Meglio ancora è rifarsi alla divisione tra decisori e non decisori; il che implicherebbe però la necessità di delimitare con precisione l’ambito entro il quale si muovono i primi, ambito che resterebbe invece precluso ai secondi. La divisione si baserebbe allora sulla fissazione dei confini di un certo campo di attività decisoria, al cui interno si trova una minoranza mentre la maggioranza è posta all’esterno. Insomma, la separazione sociale verrebbe stabilita con riferimento ad un dentro e a un fuori.
D’ora in poi, cercherò di usare il più possibile decisori e non decisori piuttosto che dominanti e dominati. Tuttavia, per evitare le solite secche e semplicistiche contraddizioni dualistiche – spesso considerate antagonistiche – è necessario avvertire il lettore che comunque i conflitti sono sempre multipolari anche all’interno delle diverse formazioni particolari (paesi), sia nel campo dei decisori che nell’altro campo. Vi è sempre dunque un problema di alleanze e di necessaria formazione di blocchi sociali, pur se non sempre alla necessità fa seguito la sua realizzabilità. L’uso del dualismo decisori e non è soltanto un modo di semplificare certi ragionamenti teorici, comportamento che è impossibile evitare; a patto di non dimenticarsi della complessità dei conflitti in sede politica, anche quando si dia indicazione di soltanto possibili attività in tale sfera della società.
Per il momento limitiamoci a tirare le fila con poche schematiche indicazioni. Intanto, in una situazione di ancora notevole fluidità teorica (più volte ho ripreso la metafora engelsiana del flogisto e dell’ossigeno), ci si deve attenere ad una teoria di fase, senza credere che quest’ultima rappresenti, in una presunta sistematicità, la “riproduzione del concreto” – la formazione capitalistica – “nel cammino del pensiero”. Inoltre, sia in senso storico (temporale) che spaziale (la società mondiale odierna) è probabile che si debbano distinguere differenti formazioni sociali: forse è possibile indicarle tutte come capitalismi, in base alle forme generali dell’impresa e del mercato, ma in ogni caso studi più particolareggiati delle forme sociali in varie aree sarebbero più che utili.
Lasciando perdere la sciocchezza sesquipedale dell’Impero à la Negri – cui ha potuto dar credito solo un ceto intellettuale di sinistra arrivato al limite della totale assenza di materia cerebrale – si deve oggi ritenere caduta pure la possibilità, di cui si è stati convinti per 10-12 anni, della formazione di un sistema imperiale statunitense. Oggi si parla ripetutamente di “ritorno delle nazioni”. Ho più volte rilevato l’imprecisione del linguaggio poiché le nazioni non sono mai sparite; solo invece, e in una visione del tutto occidentocentrica, surclassate dagli Usa. In ogni caso, siamo adesso in situazione multipolare che sembra avviata, in tempi non brevi ma storicamente prevedibili, verso il policentrismo (quello che un tempo fu chiamato imperialismo), cioè una fase di aperta e acuta lotta tra più paesi divenuti potenze.
Nella fase di multipolarismo, non va certamente abbandonata l’analisi della divisione sociale in decisori e non; soprattutto però – senza ripetere le semplificazioni e gli eccessi di ottimismo del terzomondismo – a livello della ripresa di forme di dominio simil-coloniale da parte di una serie di paesi a sviluppo avanzato (o in crescita di potenza), che sollecitano la resistenza di una serie di popoli. Con l’ulteriore avvertenza che tali popoli sono strutturati secondo certe forme sociali, in cui esisto-
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no o sono in gestazione gruppi di dominanti o decisori, spesso disuniti fra loro, il che indebolisce la suddetta resistenza. Non ci si può illudere, ripetendo l’ideologia dell’internazionalismo proletario, di riuscire a saldare fronti di lotta di buona ampiezza tra “masse popolari” dei capitalismi avanzati o in fase di sviluppo e quelle di queste aree interessate dal simil-colonialismo.
Noi agiamo all’interno di uno dei paesi a capitalismo avanzato. Non rinunciamo alla denuncia dell’azione simil-coloniale di questi ultimi, tenendo tuttavia ben conto che non sono affatto da mettere tutti sullo stesso piano come una gran massa di nemici fra loro eguali e riuniti sotto l’unica definizione di imperialismo; definizione errata sul piano storico (non siamo ancora nel policentrismo) e sterile su quello politico. Una politica orientata da simili svarioni può infatti condurre solo al disastro e a essere schiacciati e indicati alle “proprie masse popolari” quali elementi pericolosi o comunque devianti e marginali. E’ invece necessario, nel periodo attuale, fissare l’attenzione sulle crescenti conflittualità interne al sistema dei paesi avanzati (o in forte sviluppo), puntando sulla necessità di perseguire interessi nazionali, della propria formazione particolare, messi in mora e sbrecciati da gruppi di decisori (e forze politiche da essi “corrotte”, di destra o sinistra che siano) che, nel loro parassitismo, nella loro incapacità di slancio e sviluppo motu proprio, si collegano a gruppi (pre)dominanti stranieri con atteggiamento disgustosamente servile e prono.
Non si confonda la difesa di interessi nazionali (che non sono comunque solo economici, sia chiaro; anche la propria cultura, la propria indipendenza e pieno controllo del proprio territorio, ecc. ecc. vanno tenuti in gran conto) con il nazionalismo di un’altra epoca, che serviva da supporto ai propri gruppi dominanti (decisori) tesi alla conquista, tramite guerre sanguinose, di un “impero”, di un’area coloniale o simile. Atteggiamenti del genere vanno sempre combattuti, è escluso un qualsiasi appoggio o perfino timida condiscendenza verso di essi. Conquistare e/o ampliare una propria sfera di influenza non è acquisire soltanto una maggiore quota di mercato, secondo quanto pensano dei miserabili economi(ci)sti, ma nemmeno sottoporre a più o meno mascherato o aperto dominio simil-coloniale altri popoli. E’ semmai vera capacità di egemonia, fondata su un’alta cultura e una volontà modernizzatrice e di progresso rispettosa delle tradizioni e culture altrui; non come certo occidentalismo che è solo veicolo di dominazione “imperialistica” (si pensi, come esempio, a certi movimenti “studenteschi” in Iran e altri similari).
Per il momento atteniamoci a criteri di larga massima. In un prossimo lavoro riprenderò in esame la questione prendendo le mosse dai punti di arrivo di questo che sto concludendo. In ogni caso, in una fase multipolare come l’attuale, è necessario essere specialmente attenti al mutamento delle congiunture. Certamente, si deve compiere un non indifferente sforzo volto a porre almeno le basi di una nuova teoria della formazione sociale che chiamiamo capitalistica; tenendo conto fra l’altro che, con ogni probabilità, vi sono differenze considerevoli – e non di carattere meramente empirico – tra più capitalismi. Non ci si può però in alcun modo limitare alla divisione in verticale di detta formazione sociale, indicando i due generali raggruppamenti dei decisori e dei non decisori. E’ indispensabile una più accurata individuazione anche dei conflitti tra gruppi posti “in orizzontale” (interni ai decisori come ai non decisori), dando particolare importanza a quelli in corso tra i primi per la supremazia degli uni sugli altri.
Soprattutto, si deve unire la considerazione degli scontri interni alla formazione particolare, in cui viviamo e agiamo, a quella del quadro conflittuale mondiale caratterizzato dallo scontro tra diverse formazioni; altrimenti, diventano inevitabili i più gravi errori d’interpretazione teorica (conoscitiva) come di azione politica (battaglia cultural-politica in particolare). Quanto più procederà la transizione al policentrismo, tanto più importante sarà l’analisi congiunturale dello scontro tra più formazioni divenute potenze; logicamente senza mai perdere di vista la “strutturazione” in verticale e in orizzontale della propria formazione, e le alleanze e blocchi sociali di possibile costituzione in vista di una diversa configurazione delle lotte che si apriranno nella vera e propria fase policentrica (“imperialistica”). Si tratta però di un discorso ben lontano dall’essere all’ordine del giorno; per adesso, intanto, siamo nel multipolare.
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