CORSI, RICORSI E NUOVI PERCORSI DELLA STORIA
Corsi, ricorsi e nuovi percorsi storci. La storia si ripete ma in forme sempre diverse ed è proprio in questo scarto fondamentale che si trova l’originalità di ogni epoca. Mutatis mutandis, direbbero i latini. Tutto torna ma diverso, afferma l’economista Gianfranco La Grassa.
Per conoscere il presente gli uomini devono approfondire le lezioni della storia.Si fissano gli elementi generali, comuni ad ogni fase, si riscontrano le similarità col passato (meglio, con un periodo che ci sembra maggiormente significativo perché segnala singolarità affini) e, una volta definito quello che pensiamo sia il quadro generale o un suo taglio abbastanza realistico, ottenuto in via comparativa – dati certi elementi sociali, politici, economici, culturali ecc. ecc. – si procede ad una interpretazione specifica delle caratteristiche peculiari, in ogni sfera sociale, dell’era in cui si opera.
Scrive Marx nell’Introduzione del 1857, per indicare l’evoluzione dei modi di produzione che sono altrettante tappe dello svolgimento sociale:
“La produzione in generale è un’astrazione ma un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo generale, ossia l’elemento comune astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso un qualcosa di complessamente articolato che si dirama in differenti determinazioni. Di queste alcune appartengono a tutte le epoche; altre sono comuni solo ad alcune. Certe determinazioni saranno comuni all’epoca più moderna come alla più antica. E senza di esse sarà inconcepibile qualsiasi produzione; ma, se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni comuni con quelle meno sviluppate, appunto ciò che costituisce il loro sviluppo le differenzia da questo elemento generale. Le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venire isolate in modo che per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono gli stessi – non vada poi dimenticata la differenza essenziale [corsivo mio]. In questa dimenticanza consiste, per esempio, tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti. Essi spiegano ad esempio che nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, non fosse altro questo strumento che la mano; né senza lavoro passato e accumulato, non fosse altro questo lavoro che l’abilità riunita e concentrata per reiterato esercizio nella mano del selvaggio. Il capitale è fra l’altro anche uno strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato. Quindi il capitale è un rapporto naturale eterno, universale; a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico che, solo fa di ‘uno strumento di produzione’, di un ‘lavoro accumulato’, un capitale”
Facciamo qualche esempio. Possiamo permetterci di affermare che la crisi sistemica in atto, dal punto di vista economico, si avvicina molto alla grande stagnazione principiata intorno all’ultimo trentennio dell’ottocento e durata fino agli inizi del novecento (chi sta parlando ottimisticamente di uscita, a breve, dal tunnel dello sconquasso finanziario, dunque, non sa quel che dice), mentre la situazione politica e geopolitica ricorda, sotto certi aspetti, l’epoca degli imperialismi, o almeno gli albori di questa, che poi sfociò nelle prima guerra mondiale.
Tale supposizione nasce dall’osservazione dei fenomeni politici, economici e finanziari. Di quest’ultimi esaminiamo l’andamento a piccoli balzi in avanti e pesanti ricadute all’indietro, con intervalli ravvicinati tra una puntata e l’altra che, tuttavia, non preludono ad uno schianto generalizzato imminente. Nella fase antecedente a questa, invece, i cicli di crescita erano più lunghi e le strozzature risultavano più brevi, tanto che si parlava di recessioni e non di crisi.
Adesso, sentiamo spesso tirare in ballo affermazioni come la seguente: “siamo davanti ad una crisi senza precedenti, paragonabile a quella del ’29”. O, ancora, altre antitetico-speculari che annunciano magnifiche sorti e progressive ed un ritorno alla prosperità, in pochi mesi, appena si manifestano i bagliori di “ripresine”. Gli economisti che si cimentano in queste profezie ritengono che la coordinazione delle politiche governative mondiali riaggiusterà i meccanismi regolativi dell’economia e del mercato, fino a ripristinare l’equilibrio perduto per la gioia dei popoli e delle nazioni. Poiché non hanno mai capito la natura della crisi del ’29 e da quale strada si venne fuori continuano a finire in un vicolo cieco anche ora. L’altra faccia del catastrofismo è l’ottimismo a capocchia.
Scrive sul punto, La Grassa:
“…Dopo alcuni anni di crisi, nel ’33 partì il ben noto New Deal, basato sull’intervento dello Stato in economia con l’effettuazione di spesa pubblica in deficit di bilancio, ecc. E’ ovvio che per prendere decisioni simili doveva già essersi formato un certo senso comune nell’interpretazione, sia pure ancora rudimentale, del processo di svolgimento della crisi nei quattro anni precedenti. Quell’interpretazione venne sgrossata e raffinata, ricondotta a “rigorosa” teoria, con un sistema di procedimenti logici svolti anche in forma matematica, ecc. Ciò avvenne nel ’36 con l’opera fondamentale di Keynes. Proprio in quell’anno, o al massimo nel successivo, il complesso delle operazioni di intervento statale compiute durante la presidenza Roosevelt mostrò la corda, e l’economia Usa tornò ad assaggiare i morsi della crisi, da cui uscì definitivamente – come messo in chiaro molte volte e non solo dal sottoscritto – con la seconda guerra mondiale.”
I propagandisti della lotteria economicistica, invece, proseguono a sparare previsioni a casaccio perché, in verità, non hanno afferrato quali grandi mutamenti stiano covando sotto il terreno della storia. Lo fanno per imperizia ma qualcuno anche per furbizia, essendo intenzionati a sfruttare l’aura oracolare che i dominanti e i potenti vestono loro addosso per confondere le acque ed impedire alla scienza di fare il suo corso.
Ecco cosa dice ancora G. La Grassa:
“…quando [la crisi] è scoppiata e in tempi relativamente brevi (assai meno di un anno), la mia interpretazione si è indirizzata appunto alla s-regolazione politica del sistema e quindi alla previsione – sempre “all’ingrosso”, secondo il metodo indiziario – della progressiva affermazione di una tendenza ad un futuro nuovo autentico policentrismo (di pieno conflitto), instaurando una similitudine tra questa crisi e quella di fine XIX secolo (inizio dell’epoca detta dell’imperialismo, da non confondere come solitamente si è fatto con il colonialismo). Ho quindi escluso sia eventi del tipo delle crisi (iniziate con crolli finanziari maggiori) del tipo 1907-1929, sia la possibilità di nuove impetuose crescite generalizzate. Un prevalente andamento a sinusoide, invece, con trend piatto o quasi piatto per gran parte dei paesi (in particolare per quelli più avanzati capitalisticamente), nel mentre si andranno preparando gli assestamenti maggiori nel campo dei rapporti di forza tra varie potenze: quella ancora in deciso vantaggio e le altre che conosceranno con ogni probabilità notevoli difficoltà nel portarsi alla pari con gli Usa, ma proseguiranno comunque in questo sforzo, magari a fasi alterne”.
Condividiamo questa analisi perché, al momento, si è avvicinata più di qualunque altra alle circostanze che stiamo vivendo e verificando passaggio dopo passaggio. Le scosse di questi ultimi anni sono dovute ad una “sregolazione” politica di cui gli smottamenti finanziari sono il segnale inequivocabile. Agire sugli effetti, in modo così conformistico e ristretto, aggraverà l’agonia di quei Paesi, come l’Italia, incapaci di ricostruirsi una visione politica dei processi messi in moto dal multipolarismo, nonché di quelli che saranno accesi dal prossimo policentrismo.
Non esiste più un centro di stabilizzazione (o due, come durante la guerra fredda, per aree diverse e contrapposte del pianeta, Est-Ovest, che facevano riferimento a modelli sociali antinomici) in grado di assicurare saldezza politica e relativa sicurezza economica. Venendo a mancare la supremazia di una Potenza tutto viene messo in discussione perché si allarga la cerchia dei competitori che ambiscono ad estendere la propria sfera d’influenza e d’interesse.
Tuttavia, è bene rammentare che, pur essendo destinati ad aumentare gli attriti sullo scacchiere geopolitico, anche di tipo militare, lo sbocco non sarà necessariamente una guerra mondiale in stile “classico”, come quella del ‘15-‘18 o ancora del ‘39-‘45.
Anche la forma del conflitto bellico si modificherà profondamente in ragione del progresso scientifico-tecnologico e di quello militare-strategico raggiunto dalla nostre civiltà.
Basti pensare a come si sta evolvendo la dottrina statunitense in questo campo. L’indirizzo Usa si basa sulla nozione di “light footprint strategy” che dovrebbe essere di difesa ma è, piuttosto, il massimo camuffamento di un’offensiva irriducibile prolungata nel tempo.
Droni, forze speciali e cyber attacchi ne costituiscono l’ossatura. Ieri carrarmati e bombardieri erano indispensabili, sin dalle primi fasi delle controversie tra contendenti, per colpire e neutralizzare determinati target, ma ora che gli stessi obiettivi si sono tramutati, a cagione del livello di modernizzazione della formazione globale capitalistica, cambiano anche i mezzi, gli equipaggiamenti e gli allestimenti per adempiere alla guerra. Ovvero, si colpirà frontalmente soltanto in circostanze estreme e non su tutti i fronti.
Questo vale, particolarmente, per le grandi potenze che si equivarranno militarmente e adotteranno strategie militari speculari. La guerra asimmetrica, ad intensità variabile, ritarderà o, persino, eviterà una contesa armata generale, pari a quelle del secolo scorso. Ma, in conclusione, dovrà emergere prima o poi un polo di forza (composto da uno o più stati alleati) capace di sottomettere un’area geografica abbastanza vasta, in modo da poter esercitare la sua egemonia esclusiva e consolidare (a proprio vantaggio) la situazione. Gli squilibri si attenueranno per alcuni anni e lustri (monocentrismo), in primo luogo nello spazio politico che uscirà vincitore dalla controversia descritta. L’umanità di questi luoghi crederà di aver toccato vette di benessere e di ricchezza incontrovertibili (dimenticandosi di chi, invece, da qualche altra parte se la passerà male o peggio o non abbastanza bene e anelerà, guidata da gruppi decisori ambiziosi, agli stessi standard) poi, “improvvisamente”, sopraggiungerà un’altra crisi, nella forma finanziaria-economica e successivamente ancora in quella politica-istituzionale, perché l’immortale vecchia talpa del conflitto avrà scavato ancora sotto la superficie sociale, facendo sprofondare le strutture dell’equilibrio apparente alle quali si era agganciata la speranza umana della pacificazione universale.
Ed il ciclo ricomincerà daccapo… Le spinte squilibranti che attraversano le costruzioni sociali e le strutture organizzative umane sono ineliminabili, per questo motivo si scatenano i conflitti che, dunque, sono connaturati alla nostra esistenza collettiva. Un mondo di solidarietà e di cooperazione piene non esisterà mai, nemmeno in una ipotetica società dell’avvenire non più fondata sull’estorsione del plusvalore e su conchiuse oligarchie dominanti.