COSA DISTINGUE UOMINI E ANIMALI: LA NECESSITA’ DEL SUPERFLUO E IL PLUSPRODOTTO.
Vi propongo qui due brani sui quali occorrerà riflettere molto. Il primo è di Ortega y Gasset, il secondo di Gianfranco la Grassa. Questi due passaggi, a mio parere, si integrano perfettamente e devono essere tenuti insieme per comprendere alcune cose che ci riguardano come specie umana e come esseri sociali. Credo si possa ben dire che quanto affermato da Ortega sia l’antefatto e quanto affermato da La Grassa la conseguenza. Ovviamente, si tratta di schemi mentali che ci aiutano nel ragionamento poiché sappiamo quanto nella realtà sia difficile far seguire gli effetti dalle cause e viceversa, ad ogni modo ciò ci è indispensabile per arrivare a delle spiegazioni plausibili di certi fenomeni “originari” molto importanti, direi cruciali, per interpretare il punto a cui siamo. Ortega sostiene che è l’esigenza del superfluo e l’invenzione della tecnica (delle tecniche) per ottenerlo quel che ci divide dagli animali. La Grassa, invece, riprendendo Marx, legge questa differenza nella capacità umana di assicurarsi un plusprodotto (che è appunto qualcosa di superfluo, nel senso che supera i bisogni istantanei dell’uomo) intorno a cui si scatenano i conflitti di appropriazione ma anche di ri-produzione che consentono agli uomini di creare la Storia, elemento assente nella vita degli animali. L’uomo inventa la vita, la immagina per vivere bene (all’uomo interessa non lo “stare” ma lo “star bene”), dice Ortega, ovvero produce i suoi stessi bisogni non “subendoli” dalla natura ma ricavandoli da essa. L’uomo crea la sua stessa natura (è “soprannaturale”) e non la riceve meramente come fatto esterno, non è semplicemente immerso in essa come tutti gli altri esseri che abitano questo pianeta. Non voglio appesantire oltre la lettura pertanto vi lascio ai due testi annunciati che spero possano aprire una discussione seria.
“….quando l’uomo non può soddisfare i bisogni della sua vita, poiché la natura circostante non gli fornisce i mezzi indispensabili, l’uomo non si rassegna. Se, in mancanza di un incendio o di una caverna non può riscaldarsi o, per mancanza di frutti, di radici, di animali, non riesce ad alimentarsi, allora l’uomo mette in moto una seconda serie di atti: crea il fuoco, crea un edificio, crea l’agricoltura o la caccia. Questo repertorio di attività che soddisfa i bisogni in modo diretto a partire dai mezzi reperibili sul momento, è comune all’uomo e all’animale…l’animale, quando non può esercitare un’attività del suo elementare repertorio per soddisfare un bisogno – ad esempio, quando non ha a disposizione né il fuoco né una caverna – non fa niente e si lascia morire. L’uomo invece dà inizio a un nuovo tipo di atti che consiste nel produrre ciò che non è presente in natura, sia ciò che è assente in assoluto, sia ciò che è assente nel momento del bisogno. Qui natura significa semplicemente ciò circonda l’uomo, la circostanza [circunstancia]. Così produce il fuoco quando non c’è fuoco, crea una caverna, vale a dire un edificio, quando non ne trova uno lì attorno, monta a cavallo o fabbrica un’automobile per sopprimere lo spazio e il tempo. Ebbene, si noti che accendere il fuoco è un fare molto diverso dal riscaldarsi, che coltivare un campo è un’azione molto diversa dall’alimentarsi e che costruire un’automobile non equivale a correre. Ora si comincia a vedere perché prima ci siamo ostinati a fornire la definizione lapalissiana dell’atto di riscaldarsi, di alimentarsi e di spostarsi.
Riscaldamento, agricoltura e fabbricazione di carri o di automobili non sono attività con cui soddisfiamo i nostri bisogni, ma piuttosto, nell’immediato, implicano il contrario: una sospensione di quel repertorio primitivo di atti con cui riusciamo a soddisfarli in modo diretto. Questo secondo repertorio in fin dei conti mira anch’esso alla soddisfazione dei bisogni, ma – questo è il punto – presuppone precisamente una capacità che manca all’animale. A mancargli non è tanto l’intelligenza – di ciò parleremo più avanti, se ne avremo il tempo – quanto la capacità di separarsi temporaneamente da tali bisogni vitali, di staccarsi da essi e di tenersi libero in modo da occuparsi di attività che, di per sé, non soddisfano dei bisogni. L’animale, diversamente dall’uomo, rimane sempre e immancabilmente preso da attività di soddisfacimento diretto dei bisogni. La sua esistenza non è nient’altro che il sistema di bisogni elementari da noi chiamati organici o biologici e il sistema di atti che li soddisfano. L’essere dell’animale coincide con tale doppio sistema o, detto in altro modo, l’animale non è nient’altro che questo. In ciò consiste la vita nel senso biologico o organico del termine…mentre tutti gli altri esseri coincidono con le proprie condizioni oggettive – natura o circostanza – l’uomo non coincide con quest’ultima, ma è piuttosto qualcosa di estraneo e diverso dalla propria circostanza piuttosto è immerso in essa e può uscirne in qualche momento ed entrare in sé, raccogliersi, astrarsi e, solo con se stesso, occuparsi di cose che non consistono nel soddisfare direttamente e immediatamente gli imperativi e i bisogni della propria circostanza. In questi momenti, extra o soprannaturali, di raccoglimento o ritiro in sé, inventa ed esegue il secondo repertorio di atti: accende un fuoco, costruisce una casa, coltiva un campo e fabbrica un’automobile.
Notiamo che tutte queste attività possiedono una struttura comune. Esse presuppongono e portano con sé l’invenzione di un procedimento che ci permette, entro certi limiti, di ottenere con sicurezza, a nostro piacere e convenienza, ciò che non è presente nella natura, ma di cui abbiamo bisogno. Non importa che nell’ambiente circostante, qui ed ora, non ci sia fuoco. Lo facciamo, vale a dire, eseguiamo qui ed ora una certa sequenza di atti che abbiamo inventato in precedenza una volta per tutte. Questo procedimento consiste spesso nella creazione di un oggetto, cioè lo strumento o il congegno, il cui semplice funzionamento ci procura ciò di cui abbiamo bisogno. Tali sono i due bastoncini e l’esca con cui l’uomo primitivo accende il fuoco, o la casa che erige per proteggersi da un ambiente estremamente freddo.
Da ciò risulta che questi atti modificano e migliorano la circostanza o la natura, facendo sì che in essa si trovino cose che non ci sono – sia che esse manchino qui ed ora quando se ne ha bisogno, sia che esse manchino in assoluto. Dunque: questi sono atti tecnici, specifici dell’uomo. L’insieme di questi atti, costituisce la tecnica, che possiamo pertanto definire come i cambiamenti che l’uomo impone alla natura in vista della soddisfazione dei propri bisogni. Questi, come abbiamo visto, erano imposte all’uomo dalla natura. L’uomo risponde imponendo a sua volta un cambiamento alla natura. La tecnica è dunque una reazione energica contro la natura o la circostanza, che finisce con il creare tra queste ultime e l’uomo una nuova natura, una sovranatura [sobrenaturaleza].
Si noti, dunque: la tecnica non è ciò che l’uomo fa per soddisfare i propri bisogni. Questa espressione è equivoca e varrebbe anche per il repertorio biologico degli atti animali. La tecnica è la riforma della natura, di quella natura che ci rende poveri e bisognosi. Una riforma tale per cui i bisogni possano venire possibilmente annullati, in modo che la loro soddisfazione smetta di essere un problema. Se, ogni volta che sentiamo freddo, la natura ponesse accanto a noi il fuoco, è evidente che non sentiremmo il bisogno di riscaldarci, come normalmente non sentiamo il bisogno di respirare, ma piuttosto ci limitiamo a farlo senza che ciò sia per noi un problema. Questo è proprio ciò che fa la tecnica; precisamente questo: fornirci il calore non appena proviamo la sensazione di freddo e annullare quest’ultima in quanto bisogno, mancanza, negazione, problema e angoscia…La tecnica è il contrario dell’adattamento del soggetto all’ambiente, visto che consiste nell’adattamento dell’ambiente al soggetto. Ciò basterebbe per farci sospettare che si tratti di un movimento in direzione contraria a tutti quelli di tipo biologico…
Se ci sforzassimo di capire quali tra i nostri bisogni siano rigorosamente necessari, inevitabili, e quali superflui, ci troveremmo in grande difficoltà. Ci troveremmo infatti a scoprire: 1) Che di fronte ai bisogni che a priori sembrano più elementari e inevitabili – ad esempio cibo e calore – l’uomo possiede un’elasticità incredibile. Egli può ridurre – non solo per costrizione, ma anche per piacere – al limite estremo la quantità di cibo assunta, e può addestrarsi a sopportare un freddo intensissimo. 2) Al contrario, gli costa molta fatica, o più semplicemente non riesce a fare a meno di certe cose superflue e, quando queste gli mancano, preferisce morire. 3) Da ciò si deduce che gli sforzi dell’uomo per vivere, per stare al mondo, sono inseparabili dai suoi sforzi per stare bene. Di più: per lui la vita non significa semplicemente stare, ma stare bene, ed egli sente come bisogni le condizioni oggettive dello stare solo in quanto queste sono il presupposto dello stare bene…Pertanto, per l’uomo è necessario solo ciò che è oggettivamente superfluo. Tutto ciò sembrerà paradossale, ma è la pura verità. Dunque i bisogni biologicamente oggettivi non sono, per lui, bisogni. Quando si trova a dipendere da essi, si rifiuta di soddisfarli e preferisce soccombere. Si trasformano in bisogni solo quando appaiono come condizioni dello «stare al mondo», necessario a sua volta solo in forma soggettiva; ossia perché rende possibile lo «stare bene al mondo» e il superfluo. Da ciò risulta che perfino ciò che è oggettivamente necessario, per l’uomo è tale solo se fa riferimento al superfluo. Non c’è dubbio: l’uomo è un animale per cui solo il superfluo è necessario…vedrete che arriverete inevitabilmente alle medesime conclusioni. Questo è essenziale per capire la tecnica. La tecnica è la produzione del superfluo: oggi come nell’epoca paleolitica.
La tecnica è di certo il mezzo per soddisfare i bisogni umani; ora possiamo accettare questa formula che prima rifiutavamo, perché ora sappiamo che i bisogni umani sono oggettivamente superflui e che si trasformano in bisogni veri e propri solo per chi ha bisogno di stare bene e per cui vivere è, essenzialmente, vivere bene. Ecco perché l’animale è a-tecnico: si accontenta di vivere, di ciò che è oggettivamente necessario per il semplice esistere. Dal punto di vista del semplice esistere l’animale è insuperabile e non ha bisogno della tecnica. Però l’uomo è uomo perché per lui esistere significa sempre e comunque stare bene; perciò è a nativitate tecnico, creatore del superfluo.
Passi di
Meditazione sulla tecnica e altri saggi su scienza e filosofia
José Ortega y Gasset
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Tutti gli animali compiono lo sforzo necessario a realizzare lo scopo vitale, da considerarsi però in generale soltanto da un punto di vista puramente biologico. Al massimo, tutti gli animali mettono da parte un certo “di più” in una data stagione per consumarlo in un’altra in cui non ottengono il necessario (per vari motivi). L’essere umano – secondo diverse specie, di cui poi è restata solo quella sapiens (e ancora sapiens) – produce un “di più” proprio “in assoluto”, un “di più” che consente di mutare regimi di vita associata e di scoprire sempre nuove modalità e nuove strumentazioni di ottenere il “da mangiare”.
Tale risultato è ovviamente ottenuto grazie ad un cervello differente dagli altri animali, un cervello dotato di quello che possiamo definire pensiero, ragione. Comunque, un modo d’atteggiarsi non “immediatamente” diretto allo scopo di nutrirsi e riprodursi figliando. C’è capacità, crescente, di ri-flessione sulla propria azione vitale, mutandone le mosse e l’organizzazione, ottenendo così, anche tramite adeguata trasformazione degli strumenti all’uopo necessari, un “di più”, insomma un “plusprodotto”, pur esso sempre crescente. Da qui quindi la speciale storia dell’uomo, che ha carattere evolutivo, cioè trasformativo delle relazioni intercorrenti tra i vari individui e anche di ogni data individualità; e dunque di quello che chiamiamo pensiero o ragione o come preferite. Tutto ciò proprio perché l’animale uomo, dotato di questo particolare lavorio del cervello, non si accontenta (non può accontentarsi) di “mangiare” al solo scopo di riprodurre la sua usuale modalità d’esistenza. Producendo il plusprodotto, sempre più può pensare e accrescerlo; ma sempre più può escogitare nuove modalità e nuovi strumenti per accrescerlo.
Evidentemente, allora, non ci si limita ad accantonarlo in misura sempre maggiore, ma se ne consumano quantità crescenti per quel vivere che possiamo dire quotidiano. Ma ogni processo del genere esige organizzazione, divisione dei compiti, abilità diverse per i diversi strumenti utilizzati. Ed esige, piaccia o non piaccia, una direzione dei processi in questione. E si differenziano le diverse abilità e poi le diverse capacità di comando direzionale e, via via, si vengono formando strutture particolari dei rapporti interindividuali, dei rapporti tra gruppi sociali, ecc. ecc. E la storia evolutiva di queste capacità umane non è dunque disgiunta (non può esserlo) da quella delle strutture dei rapporti sociali.
Ogni miglioramento di quelle che definiamo condizioni di vita (che quindi aumentano via via di “livello”) esige alla fin fine che ci si cominci a chiedere quali sono le caratteristiche dell’ambiente da cui traiamo quanto ci consente di vivere, l’ambiente “naturale” in cui siamo immersi. Dobbiamo conoscerlo per non limitarci ad estrarre da esso ciò che consentirebbe una pura riproduzione della nostra esistenza senza vere trasformazioni, senza crescita del “prodotto” per la vita quotidiana e del “plusprodotto”. E nasce quella conoscenza dell’ambiente a noi “circostante”, che non può che condurre alla sua mutazione (senza la quale non cresce né il “prodotto” né il “plusprodotto”). E alla fine, non troppo presto, nasce quella che chiamiamo scienza. Ma è logico che non possiamo non chiederci chi siamo, come siamo “saltati fuori” conformati secondo specifiche modalità. Prendiamo inoltre piena coscienza che siamo transitori (intanto come individui; come genere e specie si vedrà a tempo debito) e quindi prende vita e aire tutto il pensiero di ciò che potrebbe esserci “dopo”, in una salvifica “altra vita”, e via dicendo. Non posso addentrami in questo, non sono filosofo e non sto scrivendo di questo genere di riflessioni. Nemmeno sono psicologo e dunque non posso nemmeno addentrami in quel tipo di conoscenza che cerca di comprendere com’è “combinato” il nostro cervello soprattutto nei nostri modi di pensare, che spesso si flettono su se stessi e producono anche qui una serie di conseguenze in crescita e variazione.
Debbo tornare al “prodotto necessario” – necessario alla riproduzione della vita quotidiana, ma in continua trasformazione dato il mutare delle relazioni degli individui associati, insomma di quella che definiamo società, soggetta a periodiche mutazioni della forma dei rapporti tra i diversi gruppi di individui – e del “plusprodotto” indispensabile ad accrescere le condizioni di vita, a svolgere conoscenza e scienza, i pensieri su noi stessi e la nostra “sorte futura”, le trasformazioni dei rapporti sociali e anche dei vari modi di pensare e conoscere; e naturalmente a inventare e perfezionare gli strumenti per “produrre” (e “plusprodurre”) sempre di più. Tutto ciò non può avvenire senza la già detta ri-flessione su ogni cosa che stiamo facendo e senza continuo scontro con l’ambiente che ci circonda. Non possiamo lasciarlo al suo “stato naturale”, quello di prima della vita animale, ma soprattutto della vita umana dotata di pensiero e quindi di capacità – che diventa necessità assoluta – di ottenere anche il “plusprodotto”.
Per (tentare di) difendere veramente “l’ambiente”, dovremmo allora eliminare questa “nociva” specie animale, lasciare il mondo terreno agli animali incapaci di pensare e di realizzare un “plusprodotto”. Occorre un suicidio collettivo, sperando di andare tutti insieme nel cosiddetto “al di là”, nell’“altro mondo”, insomma nella supposta e sperata altra dimensione spirituale che dura in eterno senza l’ingombro del corpo e delle sue esigenze, così distruttive della “natura”; che muta essa stessa senza bisogno di aspettare le nostre azioni, le azioni di pigmei che si credono giganti, anzi più ancora Dei! Se qualcuno vuole che si arrivi a questa fine, io sono pronto, mi fregherei le mani al pensiero di andarmene in così numerosa compagnia: “tutti insieme appassionatamente”. Ovviamente scherzo per ironizzare sugli ambientalisti, quelli “gretini” e della “green economy”; in realtà dei personaggi in totale malafede che, influenzando un’umanità in decrescita intellettiva, guadagnano fior di soldi.
G. La Grassa, inedito di prossima pubblicazione.