Costituzione e cialtroneria
Ancora oggi il dibattito sulla Costituzione, tra chi la travolge o vorrebbe farlo e chi la venera come tavola sacra, resta al centro della mitologia pubblica. Ma chi ha ragione tra quanti intendono sostituirla o modificarla e quelli che la difendono a spada tratta? Nessuno dei due fronti che, come direbbe Lukács, si sostengono vicendevolmente in solidarietà antitetico-polare. Costituzionalisti e filosofi, peggio ancora se del diritto, trattano la materia con molta accademia e quasi nessuna logica. Costoro ricoprono e interpretano una funzione tesa al mascheramento delle situazioni concrete senza la quale il loro cialtronismo verrebbe splendidamente in luce. Una Costituzione viene violata già il giorno dopo la sua promulgazione. E’ un fatto inevitabile. Sempre ammettendo che esca un prodotto accettabile da un’assemblea costituente, ricordando peraltro che la nostra famigeratamente bellissima e in vigore, mentre veniva redatta dai padri costituenti, fu definita da G. Salvemini Himalaya di somaraggini.
La costituzione è un insieme di principi determinati e corrispondenti a una fase politica. Questi principi tanto in assoluto che in relativo non sono e non saranno mai universali. Di universale non c’è niente nella finitudine sociale e umana. I principi vanno inoltre interpretati perché devono rispondere alle esigenze dei gruppi dominanti che governano anche se l’ideologia di supporto fa passare questo particolarismo come interesse generale.
Per tutte le leggi compresa la costituzione, scrive il filosofo Rensi, esiste una «revisione, invisibile e potente, quella che risulta dall’azione continua dei costumi politici». Se la costituzione ha da vivere, muta necessariamente (in bene o in male) col mutarsi (in bene o in male) della vita della nazione, che essa penetra e da cui è penetrata; ed ogni «torniamo allo Statuto» è l’utopia (per quanto nobile) di chi vuol arrestare la vita (supposta anche precipitante a decadenza). Di qui la nessuna importanza che una costituzione, nella sua formulazione letterale, sia «buona» o «cattiva». Poiché, comunque essa sia, sono i costumi politici che la fanno vivere, e che, se buoni, sapranno rendere elicita dalla lettera cattiva della costituzione una costituzione vivente buona, e viceversa se cattivi”.
Avrete già compreso che il “torniamo alla Statuto” di questo saggio scritto nel 1919 non è che quell’invocazione al ritorno alla Costituzione che anche oggi assilla quanti credono che dalla carta tradita discendano tutti i nostri problemi. Tempi che frequenti, simili stordimenti.
Dunque sorte di una costituzione è la sua costante revisione sulla base di scelte e adattamenti economici, politici e sociali a seconda delle stagioni.
Rensi pertanto ci apre subito gli occhi, anche chi si innalza a difensore della costituzione cerca di stravolgerla meglio secondo il suo punto di vista.
Anche il potere giudiziario quando si esprime sulle violazioni della costituzione o viceversa sul rispetto della sua lettera non sfugge a quella soggettività che dipende da molti elementi direttamente collegati a convinzioni e tempi.
Quando certi poteri e certe idee decadono o vengono sconfitti si affermano nuove interpretazioni. E anche nuove costituzioni, soprattutto in conseguenza di lotte e poteri rivoluzionari che intendono rifare il mondo.
“…se il governo è sconfitto e travolto, con ciò quel che era ragione secondo il rivoluzionario, vale a dire la sua ragione, si identifica col fatto, colla forza e col successo, e allora il governo (per il pubblico contemporaneo, per la storia, per i manuali scolastici delle età venture) ha violato la costituzione. Ma se il governo vince e opprime la rivoluzione, è la ragione del partigiano dello Stato che si identifica così col fatto, con la forza e col successo, e allora era, per il pubblico e per la storia, il governo che rispettava (con rigida interpretazione, si dirà al più) la costituzione, ed era la rivoluzione che cercava di sovvertirla. Ma se dunque non si può mai sapere quando vi sia violazione della costituzione, non si può nemmeno mai sapere quando la rivoluzione sia legittima, a meno appunto che per giudicare nell’uno e nell’altro caso non ci si rimetta al fatto assolutamente extrarazionale del successo. E, per conseguenza, da ciò altresì l’impossibilità che il governo abbia la forza, altrimenti, per le cose ora dette, nessun suo atto sarà mai violazione della costituzione, ossia egli potrà far quel che vuole e non rispettare la legge. Ma, d’altra parte, l’impossibilità che la forza l’abbia il popolo, perché allora ogni atto del governo potrà essere la violazione della costituzione, né ci potrà essere più governo: perché, cioè, una frazione popolare potrebbe sempre insorgere per la ragione (penserà essa coscienziosamente), per il pretesto (penserà, altrettanto coscienziosamente, il partigiano dello Stato) d’una violazione di legge da parte del governo. Infine, impossibilità che la forza l’abbia una terza parte (l’Eforato dei giusnaturalisti) contro la quale soluzione stanno le stesse obiezioni che militano contro il concedere la forza al governo, perché allora questa terza parte sarebbe essa il vero governo.”
L’ultima frase di Rensi, in parte, ci illumina anche su quanto accaduto durante mani pulite, quando le
Procure si sono sostituite alla politica e hanno deciso in nome del popolo che il sistema doveva cambiare. In ogni caso meglio ricordare che una Costituzione non è bellissima né invariabile. Il giudizio estetico lo lasciamo agli imbecilli, quello etico-giuridico alle mummie.