CRISI DEGLI EQUILIBRI.

Crisi non è un oggetto circoscritto e perimetrabile. Non è tout court nei numeri, nei parametri, negli stratagemmi e nei memorandum. Crisi è innanzitutto una risultante delle dinamiche conflittuali, delle spinte infaticabili dell’agire storico e del prodursi e del riprodursi del sociale, dei rapporti intrinsecamente maturati negli ambiti del divenire sociale. Crisi è però anche un punto nevralgico, uno snodo e un processo.

Come questo processo debba essere letto e affrontato attiene naturalmente alla dimensione della politica e alla capacità di questa di maturare una comprensione ampia e allo stesso tempo penetrante, foriera di una strategia che sia in grado di muoversi nel contingente ma lanciandosi oltre.

La crisi corrente non ha una connotazione “neutra” né tantomeno un singolo carattere peculiare ascrivibile agli squilibri finanziari o all’impasse economica. Essa è decisamente politica nella sua accezione sistemica. Ciò non implica che i centri decisionali nevralgici procedano tutti a tentoni o scontino una peregrina carenza strategica. Al contrario, lo squilibrio di potenza in atto è sia il frutto di un sostanziale mutamento strutturale a livello internazionale, sia l’urto, stratificato e diseguale, che nasce tra potenze, con relative strategie, tutto interno all’impianto capitalistico. Ad oggi, è bene ribadirlo, non sussiste nessuna tendenza in essere che agisca fuori dal suddetto impianto, bensì necessariamente dentro. Lo stesso urto che vede contrapporsi non ancora assestate politiche strategico-economiche di sganciamento dall’impronta egemonica statunitense non verte su un tentativo di collocazione estraneo al processo capitalistico, salvo che, come pure accade, non si cada nell’equivoco di intendere capitalismo e liberismo come se fossero la stessa cosa, senza aver presente che il secondo sta dentro il primo. Anzi, esso ne costituisce un instrumentum regni, tutto interno alla logica di dominio e controllo politici e ben al di là delle mere raffigurazioni economiche di scuola. In questo senso, la lezione della Gran Bretagna prima e degli Stati Uniti poi n’è la cristallina manifestazione. Tanto più che la genesi di potenza delle due anglo-dimensioni è un intersecarsi di metodi tanto dirigisti e protezionisti quanto liberisti, nell’alveo di una condotta politica dai tratti imperialistici o egemonici (in base alle varie fasi storiche).

Tutto ciò connota la questione primaria, lo si ribadisce, come politica e non dettata in origine da meccanismi macroeconomico-giuridici, che invece ne sono una risultante, una variabile tutt’altro che asettica e sciolta dai rapporti di forza. Sia dentro le varie conformazioni sociali nazionali che sul piano internazionale.

Il mercato è esso stesso rimescolamento di assetti e terreno di competizione di potenza. Ma vaste schiere di antagonisti e critici hanno il vezzo intellettuale di percepirlo a mo’ dei liberali, scivolando poi in quella visione falsata che ama leggerlo come terreno di scontro di banche e multinazioniali simil-apolidi e svincolate dall’agire degli Stati, che è invece primario.

La crisi è sistemica ed è una tappa della fuoriuscita dallo schema di Yalta. Il rivolgimento degli equilibri misura la decomposizione del suo gioco a due, innescando una nuova dinamica multipolare e squadernando mutatis mutandis la questione tedesca. In realtà, sebbene il tratto bipolare fosse costante del paradigma di Yalta, l’emergere di vecchie e nuove potenze era in gestazione già negli anni Settanta e avrà modo di sviscerarsi nella contesa dal decennio successivo in poi. Tant’è che Washington registrerà il mutamento e opererà per un disallineamento. Messo già in conto il distacco sino-russo elaborato da Kissinger, procederà, sulla linea brzezinskiana, ad impantanare Mosca tra Gorbaciov e Afghanistan fino al crollo sovietico. Oltre a smuovere ulteriormente la faglia mediorientale, tirerà il colpo del bashing Japan e provvederà alla disarticolazione geopolitica della direttrice strategica che porta dai Balcani sino all’Heartland. Oggi, sul tavolo le partite aperte sono diverse, dall’Eurasia al Pacifico, al Mediterraneo in rimodulazione. In Europa, nel frattempo, arranca il tentativo di sincronizzare l’ascesa tedesca con il processo di unificazione comunitario. Ma la Germania fa per sé e da global player, mettendo di fatto non solo a nudo la subalternità insita nell’asse euro-atlantico, ma collocandosi in posizione di forza all’interno dell’ineguale sviluppo che domina la scena mondiale. Sul piano strategico, Washington rilancia più di una iniziativa nella crisi delle relazioni globali. I declinisti sono avvertiti. E non ha derubricato il teatro euro-mediterraneo per immergersi nel Pacifico. Si tratta invece di un modo differenziato d’agire a seconda delle zone d’interesse, cercando di tenere il tutto nell’alveo di una rinnovata Great Strategy. In questa cornice, accade poi che il ritmo atlantico non è in sintonia con il ritmo europeo. I centri industriali ed economico-finanziari statunitensi sono interessati da un lato a muovere capitali e riprodurre acquisizioni e vincoli con soggetti subdominanti – peraltro bilanciando o convergendo con quelli dei fortini arabi e stemperando incursioni cinesi – dall’altro ad agganciare una ripresa europea ai bisogni interni. Sul piano superiore permane il nocciolo politico-strategico dell’Europa, che è parte della riconfigurazione dei blocchi regionali su scala internazionale. L’impronta teutonica marcata ripropone, rimanendo all’angolazione americana, un sostanziale aggiornamento della politica “trilateralista”, quella cioè puntata verso Mosca, Pechino (in luogo ormai di Tokyo) e Berlino. Saltata la prospettiva post-sovietica di avvolgere i russi depotenziati in una forma di cooperazione che celasse in realtà un vincolo di subalternità, gli americani affrontano con ambivalenza una Berlino non solo priva di un contrappeso europeo, ma anzi intenta a consolidare la nuova Rapallo con Mosca.

Permane poi il dato residuale di Yalta, ma aggiornato, relativo al rapporto Stati Uniti-Europa. Trattasi di una relazione asimmetrica che sconta una diseguale proporzione di forze che sorregge il vincolo di sovranità. All’interno di tale asimmetria dovremo scorgere se si profila una spartizione nel mercato globale nonché una rinnovata saldatura a fronte dell’impetuoso incedere asiatico, specie se catalizzato dalla Cina. Difatti, si impatterebbe nell’astrazione analitica qualora si omettesse di valutare il rapporto euro-americano dentro l’incerta bilancia multipolare. E sempre all’interno di tale asimmetria si colloca il gioco dell’euro o addirittura della tenuta dell’intero impianto eurocratico. Sicchè, posto come radicato, fondante e nevralgico l’imprimatur egemonico – politico-economico-militare – degli Stati Uniti sull’Europa, esso è sostanza dentro e fuori gli assemblamenti istituzionali di Bruxelles, dentro e fuori gli assetti della moneta unica. In tal senso, quindi, un’ipotetica uscita dall’euro o dall’Ue di uno o più Paesi – per quanto liberi da vincoli oggettivi – se non supportata da (ad oggi improbabili) politiche di sovranità nazionale ed europea, condurrebbe ad una frantumazione della scena continentale e non muterebbe e semmai acuirebbe la subalternità agli USA (e non solo), detenendo questi pur sempre le chiavi strategiche.