CRISI E CONFLITTI STRATEGICI di M. Tozzato

Mi è capitato qualche giorno fa di dare un’occhiata ad un libro di Robert P. Murphy, tradotto in italiano nel 2008 e intitolato Tutte le balle sul capitalismo. L’autore mi pare sia un economista vicino alle idee della “scuola austriaca” e in particolare a Mises e Hayek. Scrive, ad un certo punto, Murphy:

<<Molti americani, non del tutto convinti, e a ragione, che il New Deal di Roosevelt abbia salvato gli Stati Uniti dalla Depressione, propongono una teoria alternativa, secondo cui sarebbe stata la Seconda guerra mondiale a far ripartire l’economia. Questa spiegazione ha poco senso. Dopo tutto, le guerre divorano risorse e uccidono milioni di lavoratori. Come potrebbero favorire la crescita economica ?>>

Si potrebbe però considerare il fatto – relativo agli USA nella Seconda guerra mondiale – che uno Stato che produca massicciamente armi e altri beni necessari per la guerra, senza subire invasioni e neanche bombardamenti, si possa trovare in una condizione molto favorevole per portare al limite massimo le propria “produzione potenziale” anche se i ricavi ottenuti dalle vendite di armi ecc. non risultassero particolarmente rilevanti in proporzione al prodotto totale. Ad ogni modo Murphy argomenta le sue tesi in maniera abbastanza razionale:

<<Henry Hazlitt […]chiamò questo errore “la menzogna della vetrina infranta”. […]Hazlitt fece notare l’assurdità di questa idea: quando i lavoratori e altre risorse vengono impiegati nella semplice riparazione o sostituzione di beni danneggiati, non viene creata nessuna nuova ricchezza. Se non fosse stato per l’uragano (o per gli esplosivi delle bombe nemiche) i lavoratori e le altre risorse avrebbero potuto essere usati per incrementare la quantità esistente di capitali e beni di consumo.>>

Il ragionamento appena riportato sembrerebbe dare spazio alle obiezioni a cui ho accennato sopra però Murphy chiarisce ancora meglio il suo pensiero:

<<Spedire milioni di giovani uomini produttivi a combattere e morire oltreoceano, così come dirottare enormi quantità di materie prime nelle sforzo bellico, non può far altro che impoverire gli americani (ovviamente molti potrebbero sostenere che ne valeva la pena, ma il punto è proprio che l’entrata nella Seconda guerra mondiale fu costosa). Ad ogni modo questo prezzo venne mascherato dalle misurazioni ufficiali del prodotto interno lordo utilizzate per valutare la performance dell’economia.>>

Per completare questo ragionamento, strettamente economicistico, relativo alla rilevanza della produzione e della spesa economica per la guerra non rimane che considerare la maniera in cui il calcolo del PIL “falsifica” o per meglio dire “mistifica” la dinamica reale della crescita.

Si tratta di considerare soprattutto le reali conseguenze delle spese del governo:

<<…i ben noti dati sulla macroeconomia presentano un difetto […]: considerano il denaro speso dal governo alla stessa stregua della produzione. […]La differenza è dovuta al semplice fatto che il governo incamera denaro fondamentalmente attraverso la tassazione e la stampa di banconote, e così il suo “reddito” non corrisponde a quanto produce. Nello stesso tempo i burocrati generalmente non possono tenersi i risparmi derivanti dai tagli di bilancio alle spese non necessarie, e quindi non si preoccupano di spendere troppo. Infatti, per coloro che reggono i cordoni della borsa pubblica è un’usanza di antica tradizione quella di ingraziarsi i favori dei gruppi speciali d’interesse e di assicurarsi suntuosi incarichi di consulenza dopo aver lasciato l’impiego statale.>>

Ma, a questo punto, possiamo abbandonare il nostro economista – che le critiche dei “sinistri” inquadrerebbero come appartenente alla categoria dei “neoliberisti” – per andare oltre il mero  riduzionismo economicistico. La grande crisi del 1929 – come già ricordato più volte da La Grassa e Petrosillo – fu in realtà superata grazie al risultato del Secondo grande conflitto mondiale; l’area geopolitica coordinata e gestita dagli Stati Uniti fu caratterizzata dalla produzione di massa di beni risultanti da importanti innovazioni di prodotto ma favorita soprattutto da una divisione internazionale del lavoro elaborata strategicamente dagli USA. La fine della fase policentrica e lo stabilizzarsi di un monocentrismo bipolare aprì agli Stati Uniti le condizioni ottimali per sviluppare la propria supremazia all’interno del mondo occidentale e per logorare sia militarmente che politicamente il cosiddetto “mondo socialista” che alla fine si dimostrò  inadeguato rispetto al tentativo di ristrutturare i rapporti sociali in una direzione che contemperasse esigenze ed opzioni ormai divenute inconciliabili. Interpretare il ruolo della Seconda guerra mondiale rispetto alla crisi del 1929 in termini economicistici serve solo ad alimentare un dibattito sterile tra studiosi delle varie “scuole” e “partiti”; il conflitto o il coordinamento (con una potenza centrale dominante) tra le varie formazioni particolari situate nello spazio geopolitico mondializzato è in realtà la chiave di volta per la comprensione delle crisi come fenomeno sociale totale.

Mauro  Tozzato                       11.05.2009