CRISI, LIBERALISMO, DEMOCRAZIA. CONTRADDIZIONI

crisi-economica

E’ capitato, anche di recente con alcuni amici, di discutere della capacità di assimilazione e inclusione etnica che caratterizza gli Stati Uniti e nello stesso tempo della flessibilità ed efficacia dei meccanismi di esclusione qualora si rendano necessari per mantenere la stabilità nell’organismo sociale. Sul Sole 24 ore del 17.11.2013 G. Barba Navaretti ha recensito un libro di Vittorio Emanuele Parsi intitolato La fine dell’uguaglianza in cui riferendosi agli Usa scrive:

<<… in America, già nell’Ottocento […] la partecipazione democratica è […] universale, we the people. Certo esclude i cittadini di colore e le donne, ma non è censitaria come nei regimi liberali ottocenteschi in Europa, che nonostante la rivoluzione francese mantengono forte il principio di classe e di gerarchia. In questo mondo universalistico e con una geografia vastissima il primo artefice della realizzazione della promessa della prosperità è l’individuo. È un’uguaglianza delle opportunità non degli esiti, dove il mercato diventa uno straordinario motore di prosperità>>.

Esiste ed esisteva, quindi, una eguaglianza formale mediante la quale nessun oggetto di consumo era più appannaggio esclusivo di un ceto o di una classe; si è trattato di un processo che ha portato alla formazione di una Middle class democracy attraverso un percorso difficile e sofferto a partire dalla grande crisi iniziata nel 1929 e grazie, secondo Barba Navaretti e Parsi, alle novità in tema di politica economica che sono state introdotte dal New Deal.

Intermezzo: breve annotazione sulla “grande crisi” del 1929 e sul New Deal.

In questo blog abbiamo più volte riaffermato la tesi, sostanzialmente condivisa dagli economisti storicamente preparati, secondo cui la crisi che si manifestò in maniera più acuta dal 1931 al 1934 fu in realtà superata solo nel dopoguerra mediante una riorganizzazione politica ed economica delle sfere di influenza e con il consolidamento dell’egemonia statunitense nell’area occidentale. La fase iniziale della crisi è una storia ormai nota che qui proviamo a riassumere. Negli anni che precedettero il 1929 lo sviluppo industriale fu frenetico e alimentò le speculazioni avviando così la formazione di una bolla speculativa il cui scoppio ebbe effetti drammatici. In quel periodo, infatti, la produzione e i profitti erano aumentati considerevolmente mentre i salari rimanevano piuttosto stabili e il sistema creditizio era ancora disorganizzato e inadeguato. Proprio in questi anni i prezzi azionari delle principali aziende del Paese raggiunsero picchi molto elevati tanto da spingere sempre più persone, e in particolare i piccoli risparmiatori, ad investire in borsa. Il boom economico americano fu, inoltre, sostenuto da una politica di tassi di interesse bassi attraverso i quali il Governo USA sosteneva il rilancio degli investimenti. L’economia degli USA aveva già conosciuto un brusco rallentamento a partire dal terzo trimestre del 1929, a causa del calo della domanda interna; tuttavia, i corsi azionari continuavano a salire non rispecchiando così il calo della produzione industriale, mentre la speculazione veniva sostenuta dal ritmo crescente dei prestiti bancari concessi dai principali istituti di credito. Il crollo azionario del 1929 ebbe, perciò, effetti catastrofici sull’economia statunitense soprattutto perché si era in precedenza diffusa la convinzione che l’investimento in borsa avrebbe generato un “arricchimento facile” ed ormai tutti investivano i propri risparmi in azioni. Nel 1932 il nuovo presidente F. D. Roosevelt dette il via ad una serie di interventi per frenare il crollo della produzione e il collasso occupazionale e della domanda aggregata. Con il New Deal furono introdotte alcune importanti misure di riordino del sistema bancario e dei mercati finanziari con l’istituzione di organismi di controllo e la separazione funzionale tra banche commerciali e banche d’investimento (che fu sostanzialmente abolita solo nel 1998). Ovviamente, di fronte all’improvvisa miseria di milioni di persone, si tentò immediatamente di istituire “agenzie” preposte all’emergenza per garantire almeno un tetto, cibo e vestiti agli indigenti. Comunque ancora nel 1935 la disoccupazione era diminuita di poco – era ancora sopra il 20% – mentre la ripresa economica era decisamente debole; a questo punto venne dato il via ad una seconda serie di misure che provocarono malumori e contrasti politici piuttosto forti sia nel Congresso che nella Corte Suprema con quest’ultima addirittura protagonista di un “braccio di ferro” con Roosevelt dal quale uscì sostanzialmente perdente. Si trattava di misure di carattere prevalentemente “sociali” come l’istituzione di un sistema fiscale estremamente progressivo, la riforma delle pensioni, dell’assistenza e della protezione sociale e il riconoscimento giuridico dei sindacati. Tutto questo culminò, infine, con la creazione della Works Progress Administration (WPA) e di altri programmi simili: enti statali, con notevoli risorse a disposizione, che assumevano milioni di disoccupati per costruire grandi opere pubbliche come strade, dighe e scuole. Però i risultati sul piano del rilancio economico non furono significativi. Così in un articolo tratto dal sito http://www.ilpost.it troviamo scritto:

<<Su una cosa però gli economisti e gli storici sono concordi: il New Deal non fu un intervento di stimoli “keynesiani” all’economia. La maggioranza democratica di Roosevelt era composta in buona parte da deputati del sud, contrari a ogni spesa in deficit. Anche se il bilancio federale aumentò dal 4% all’8% del PIL durante il New Deal, il PIL era diminuito così tanto durante la depressione – del 33% rispetto al 1929 – che l’aumento di spese statali non riuscì mai a colmarlo. Per tutto il New Deal il debito pubblico restò stabile poco sopra il 40% del PIL, mentre l’aumento di spesa veniva finanziato con un elevatissimo aumento delle tasse. In altre parole durante il New Deal la politica fiscale di Roosevelt fu molto conservatrice e attenta a non creare deficit. […] Quando nel 1941 gli Stati Uniti entrarono in guerra, una buona parte dell’economia venne riconvertita per sostenere lo sforzo bellico. Il 15% della popolazione in età da lavoro venne arruolata nell’esercito mentre il governo federale cominciò a spendere in deficit, portando nel 1945 il rapporto debito/PIL al 120% e la disoccupazione al 2%>>. Ma questa spiegazione economicistica non risulta soddisfacente. Le cause interne della crisi sono certo rintracciabili nel crollo del potere d’acquisto – che cominciò fortemente a diminuire non sostenendo più l’alta produttività delle industrie (in particolare quelle metallurgiche, petrolifere, manifatturiere e edili) – e nel gigantesco incremento del “capitale fittizio” prodotto da una valorizzazione falsata delle azioni soprattutto di quelle industrie e società che erano state al centro del boom economico. A tutto questo possiamo aggiungere: il fallimento delle strategie bancarie, con speculazioni errate e gestione sbagliata del credito alle imprese e alle industrie; gli errori importanti del metodo di gestione di alcune aziende che non furono capaci di mantenere la giusta liquidità per affrontare momenti di crisi economica strutturale e ciclica e una irresponsabile politica economica che per perseguire il pareggio di bilancio non ritenne necessario adempiere ai suoi doveri: pagare puntualmente le imprese che lavorano per lo stato e  svolgere interventi economici statali capaci di salvare aziende e industrie in crisi. Ma furono le cause internazionali che resero più grave la crisi anche nel resto del mondo industrializzato e che vennero tolte solo, come scrive La Grassa, dalla riorganizzazione delle sfere d’influenza e delle quote di mercato che venne concretizzata alla fine della seconda guerra mondiale. Difatti la crisi che si spostò dagli Stati Uniti d’America al resto dell’Europa fu alimentata dai dazi doganali che impedivano al surplus produttivo di trovare degli sbocchi commerciali adeguati e che costrinsero le industrie e le imprese ad abbassare i prezzi rendendo tali beni non più convenienti e quindi ne frenarono la produzione. Tali dazi si moltiplicarono a causa della caduta dell’Impero Asburgico e per la conseguente creazione di nuovi stati: Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia. Anche la Rivoluzione russa fu una causa scatenante della depressione perché isolò molti stati dal resto del mondo dando vita al piano quinquennale di programmazione economica che non prevedeva scambi e acquisti con le nazioni al di fuori dell’ area di influenza dell’Urss . Inoltre i principali paesi europei, durante il conflitto mondiale, si erano indebitati pesantemente con gli Stati Uniti e avevano caricato i loro debiti sulle riparazioni di guerra della Germania piegando pesantemente il sistema economico di quel paese. A questo punto gli USA intervennero comprando beni dell’industria tedesca affinché il governo germanico avesse i soldi necessari per pagare i debiti di guerra. Questo circolo apparentemente virtuoso divenne vizioso e a causa della crisi americana colpì duramente tutti i paesi indebitati dalla Grande Guerra. Gli stati colpiti dalla crisi scelsero, così, strade univoche e individualiste per risolvere i loro problemi. E se in Germania – in preda ad una crisi sociale disperata con milioni di persone senza lavoro e con una pressione politica devastante – in Italia e in altri paesi si affermarono il nazismo e il fascismo, che si presentarono come la migliore “medicina” contro la “malattia” che aveva ridotto le masse in condizioni di miseria estrema, in paesi come l’Inghilterra venne creato un piano tariffario dedicato ai paesi del Commonwealth che la chiuse ancora di più agli scambi commerciali con gli altri stati. L’Italia, inoltre, in fortissime difficoltà economiche dopo l’avvento del fascismo, creò un forte intervento statale nell’economia con la creazione dell’IRI, una società che aveva lo scopo di impedire il crollo del sistema bancario italiano e di sostenere l’industria nascente ancora debole e poco competitiva.

Barba Navaretti continua scrivendo che

<<il New Deal nelle pagine di Parsi è la sintesi perfetta tra Democrazia e Mercato, la fonte della grande prosperità postbellica che dura fino agli anni Settanta. Anche in Europa, dopo la liberazione, questa ricetta si tradurrà in uno straordinario boom economico. L’aumento delle opportunità per tutti sarà figlio di politiche di welfare straordinarie, oltre che alla diffusione sempre più rapida del mercato e delle sue regole. Questa sintesi finisce con la rivoluzione conservatrice di Reagan e Thatcher, con il crollo del muro di Berlino, con il rafforzamento sempre maggiore del cavallo Mercato, mentre la povera Democrazia si fa sempre più esile e zoppa, fino all’epilogo finale, la «solitudine del mercato»: il crollo di Lehman e quel che ne è conseguito>>.

Così Parsi, facendo riferimento all’Italia, si rammarica per una democrazia incapace di compensare le disuguaglianze e ridotta ormai a una «finzione lontana» e per un Mercato divenuto sempre più «un meccanismo di legittimazione dei privilegi». Tra le conseguenze vi sarebbero, soprattutto per l’Europa, il diffondersi di pericolose tendenze populiste. Secondo Parsi può essere comunque possibile ritrovare la capacità di riportare in equilibrio le ragioni del Mercato e quelle della Democrazia; ma noi non siamo molto convinti di questo. A suo tempo fu Norberto Bobbio, in uno scritto pubblicato all’inizio degli anni ottanta, che mise in evidenza il farsi avanti di una tendenza che portava le forme politiche del liberalismo e della democrazia a manifestare un rapporto sempre più contraddittorio nel loro modo di essere intese e di essere applicate. Ora sappiamo che proprio in quel periodo è incominciata a deteriorarsi quel sistema di relazioni internazionali che abbiamo chiamato (vedi La Grassa) monocentrismo bipolare, locuzione che non può essere ritenuta un ossimoro, sia perché comunque la supremazia Usa era stata tutto sommato sempre data per scontata ma soprattutto per il fatto che i due “centri” si muovevano in un “campo di stabilità”, certo soltanto “apparente” (rispetto al flusso dei processi evolutivi) ma pur tuttavia “non illusorio”.

I prodromi del multipolarismo – che si è manifestato, poi, attraverso due steps fondamentali: il crollo e la dissoluzione del comunismo storico novecentesco e la nuova “grande depressione” iniziata nel 2008 – hanno portato ad una incompatibilità sempre maggiore delle forme di democrazia sociale sviluppatesi nel secondo dopoguerra rispetto a una mondializzazione-globalizzazione manifestamente indirizzata verso un nuovo assetto policentrico il quale rappresenta, sostanzialmente, il corrispettivo “politico” delle “grandi crisi” economiche. In una brillante sintesi pubblicata nel 1978 Friedrich Hayek scriveva:

<< In particolare, a differenza che per il socialismo [e per la democrazia come viene intesa dalla sinistra liberale (vedi Rawls) N.d.r.] , si può affermare che il liberalismo si interessa della giustizia commutativa, ma non di quella cosiddetta distributiva o, secondo l’espressione oggi più frequente, “sociale”>>. Hayek specifica, poi, che se si volesse dare alla giustizia distributiva un peso determinante all’interno del sistema sociale tale da modificare la struttura delle “norme generali di mera condotta” che garantiscono il buon funzionamento dell’ordine liberale della società il quale permette agli individui di ricevere il “compenso dei loro meriti (comunque essi siano valutati)” come risultato dell’impiego delle “loro cognizioni e capacità per il conseguimento di fini privati” si arriverebbe all’abolizione dell’ordine spontaneo “che si autoregola sulla base della proprietà individuale [privata N.d.r.] e del contratto giuridico”. Si sostituirebbe, così, alla società una organizzazione in cui gli individui sarebbero posti al servizio di una “comune e unitaria” gerarchia di fini, e dove verrebbe chiesto loro di fare ciò che è necessario “nella prospettiva di un programma autoritario”. Ma l’autoritarismo, secondo Hayek, può anche essere d’aiuto al liberalismo e soprattutto, aggiungo io, quando una crisi politica e economica mette in difficoltà una formazione sociale. Interpretando le sue considerazioni credo che si possa dire che per una società capitalistica in crisi risulta più funzionale il principio liberale che “esige che ogni potere – e quindi anche quello della maggioranza – sia sottoposto a limiti” rispetto all’idea “democratica” che considera “ l’opinione della maggioranza come il solo limite ai poteri governativi”. Infine, in maniera perentoria, il pensatore austriaco sintetizza, così, questa differenza:

<< La diversità tra i due principi emerge nel modo più chiaro se si pone mente ai rispettivi opposti: per la democrazia il governo autoritario, per il liberalismo il totalitarismo>>.

In un certo qual modo perciò – come ha accennato, mi pare, non molto tempo fa anche lo studioso francese Jacques Sapir – questo discorso viene ad intrecciarsi parzialmente con alcune assunzioni della teoria di Carl Schmitt: di fronte ad uno “stato di eccezione” – seppure non relativo alla comunità organica omogenea “con un unico capo” hitleriana bensì al suo opposto – appare giustificato che, per garantire che lo Ius – il diritto imperscrittibile e fondante di un determinato ordine sociale – possa difendersi dalla Lex – la legislazione contingente approvata da un parlamento eletto a maggioranza – si faccia ricorso all’autoritarismo e al decisionismo allo scopo di realizzare il migliore funzionamento dell’ordine sociale capitalistico e la sua stabilità.

Mauro Tozzato 19.09.2015