Da Gheddafi a Bengasi
[traduzione di Francesco D’Eugenio da: From Gadhafi to Benghazi republished with permission of Stratfor.
La scorsa settimana [l’articolo originale è del 18.9.2012 – NdT], quattro diplomatici americani sono stati uccisi quando uomini armati hanno attaccato il Consolato USA a Bengasi, in Libia. Sembra che il movente degli assalitori fosse che diversi mesi fa qualcuno, forse americano ma d’identità incerta, avesse caricato su YouTube un video che insultava deliberatamente il Profeta Maometto. L’attacco a Bengasi è stato dipinto come una ritorsione per la diffamazione, perché gli assalitori ritenevano tutti gli Americani ugualmente colpevoli per il video, sebbene probabilmente si è trattato di un pretesto per sfogare malumori più profondi. Le rivolte hanno contagiato altri paesi, compresi l’Egitto, la Tunisia e lo Yemen, ma nessun americano è morto nelle altre sommosse. Il malcontento sembra essersi attenuato durante il fine settimana.
Bengasi e la caduta di Gheddafi
Cominciando ad indagare questi attacchi, bisogna notare che essi hanno avuto luogo a Bengasi, la città che più osteggiò Muammar Gheddafi. Infatti, Gheddafi giurò di massacrare i suoi oppositori a Bengasi, e fu tale minaccia ad innescare l’intervento della NATO in Libia. Sono state ideate numerose teorie del complotto per spiegare l’intervento, ma, come per Haiti e il Kosovo in precedenza, nessuna di queste teorie tiene. L’intervento ci fu perché si riteneva che Gheddafi avrebbe dato seguito alle sue minacce su Bengasi e per la convinzione che egli si sarebbe rapidamente arreso dinanzi alla superiorità aerea della NATO, aprendo le porte alla democrazia.
Che Gheddafi fosse capace di omicidi di massa è sicuro. Ma l’idea che egli sarebbe rapidamente capitolato si rivelò sbagliata. Il fatto che dopo l’intervento sarebbe nata una democraziasi rivelò la supposizione più errata di tutte. Ciò che emerse in Libia è ciò che ci si aspetta quando una potenza esterna rovescia un governo in carica, per quanto brutale esso sia, senza imporre il suo ordine imperiale: instabilità protratta e caos. L’opposizione libicaera un insieme caotico di tribù, fazioni e ideologie, che non condividevano nulla oltre all’astio verso Gheddafi. Una manciata di persone voleva creare una democrazia in stile occidentale, ma la loro importanza era tale solo agli occhi di quelli che avrebbero voluto l’intervento NATO. Il resto dell’opposizione era composto da tradizionalisti, militaristi di stampo Gheddafiano e islamisti. Gheddafi riusciva a tenere unita la Libia formando alleanze con varie fazioni ed allo stesso tempo schiacciando brutalmente qualunque opposizione.
Gli avversari della tirannia pensano che deponendo un tiranno migliori la vita delle sue vittime. Ciò e vero a volte, ma solo occasionalmente. Lo Zar Russo era certamente un tiranno, ma è difficile sostenere che il regime leninista-stalinista che alla fine lo rimpiazzò costituisse un miglioramento. Allo stesso modo, lo Scià dell’Iran era repressivo e brutale. E’ difficile sostenere che il regime che lo ha soppiantato sia un miglioramento.
Non c’è garanzia che coloro che si oppongono a un tiranno, non commetteranno abusi dei diritti umani proprio come faceva il tiranno. Ed è ancor meno probabile che un’opposizione troppo debole e divisa per rovesciare il tiranno si unisca in un governo quando una potenza esterna distrugga il tiranno. Il risultato è più probabilmente il caos, ed il vincitore sarà verosimilmente la fazione più organizzata e meglio armata, con le idee più spietatamente chiare sul futuro. Non è detto che costituisca la maggioranza o che sarà delicata con chi la critica.
L’intervento in Libia, che ho discusso in l’Immacolata Operazione [l’originale The Immaculate Intervention fa assonanza sia con Assumption che con Conception, NdT], è stato messo in piedi su una supposizione che non ha nulla a che vedere con la realtà — precisamente, che l’eliminazione della tirannia porti la libertà. Può certamente succedere, ma non ci sono garanzie che ciò accada. Ci sono molte ragioni alla base di questa falsa supposizione, ma la più importante è che i fautori occidentali dei diritti umani credono che, se liberato dalla tirannia, ogni uomo ragionevole voglia stabilire un ordine politico basato sui valori dell’Occidente. Essi potrebbero certamente, ma non c’è alcun motivo impellente per credere che lo faranno.
L’alternativa ad un bruto potrebbe essere semplicemente un altro bruto. Si tratta di una questione di potere e determinazione, non di filosofia politica. Potrebbe derivarne il caos più sfrenato, una lunga lotta che non porti a nulla se non a ulteriori sofferenze. Ma il motivo principale per cui gli attivisti occidentali dei diritti umani potrebbero vedere spazzate via le proprie speranze è dovuto a un rifiuto per principio da parte dei liberati della democrazia liberale occidentale. Per essere più precisi, l’opposizione potrebbe abbracciare la dottrina dell’autodeterminazione nazionale, e persino della democrazia, e cionondimeno procedere scegliendo un regime che sia ideologicamente avverso alle nozioni occidentali dei diritti individuali e della libertà.
Mentre certi tiranni cercano semplicemente il potere, altri regimi che appaiono agli Occidentali come tirannie sono invece sistemi etici molto ponderati, che vedono se stessi come modelli di vita superiori. C’è un paradosso nell’accostare il principio del rispetto per le altre culture a quello di richiedere l’adesione ai principi di base dell’Occidente. Bisogna scegliere un approccio o l’altro. Allo stesso tempo, bisogna capire che si possano avere elevati principi morali, essere rispettati, e nondimeno avversare la democrazia liberale. Rispettare un diverso sistema etico non significa però rinunciare al proprio interesse. I Giapponesi avevano un complesso sistema morale molto distante dai principi occidentali. Non era inevitabile che i due
diventassero nemici, ma le circostanze causarono il loro scontro.
L’approccio della NATO in Libiaha dato per scontato che la rimozione di un tiranno avrebbe non si sa come automaticamente condotto a una democrazia liberale. Difatti, questa era per l’Occidente l’ipotesi alla base della Primavera Araba, con l’idea che i regimi corrotti e tirannici sarebbero caduti e regimi nuovi, seguaci dei principi occidentali, sarebbero sbocciati al loro posto. In ciò era connaturata una profonda ignoranza sulla forza dei regimi, sulla divisione delle opposizioni e sulle probabili fazioni che ne sarebbero emerse.
In Libia, la NATO semplicemente non ha capito o non si curava della tempesta che stava scatenando. A Gheddafi è seguita una guerra ancora in corso tra clan, tribù e ideologie. Da questo caos sono emersi gli Islamisti Libici di varie correnti, per sfruttare il vuoto di potere. I vari gruppi islamisti non sono divenuti abbastanza forti da imporre i loro diktat, ma intraprendono azioni che hanno avuto risonanza in tutta la regione.
La volontà di rovesciare Gheddafi è venuta da due impulsi. Il primo era di liberare il mondo da un tiranno e il secondo quello di dare ai Libici il diritto all’autodeterminazione nazionale. Due altri problemi non sono stati ponderati abbastanza: se il semplice rovesciamento di Gheddafi avrebbe portato le condizioni per determinare la volontà nazionale, e se la volontà nazionale avrebbe poi rispecchiato i valori della NATO e, bisogna anche dire, i suoi interessi.
Conseguenze impreviste
I fatti della scorsa settimana sono conseguenze impreviste e indirette della caduta di Gheddafi. Gheddafi è stato spietato nel reprimere l’islamismo radicale, così come lo fu in altre questioni. Senza la sua repressione, le fazioni islamiste radicali sembra che abbiano accuratamente pianificato l’attacco al Consolato Americano a Bengasi. I tempi sono stati studiati in modo che l’Ambasciatore USA fosse presente. La folla era dotata di svariate armi. La scusa ufficiale era un video poco conosciuto su YouTube che ha scatenato rivolte anti-americane in tutto il mondo Arabo.
Per i jihadisti libici è stato un colpo geniale capitalizzare la rabbia sul video. Erano in declino e si sono riaffermati ben oltre i confini della Libia. Nella Libia stessa hanno mostrato di essere una forza non ad poco – almeno in quanto capaci di organizzare e portare a termine un attacco contro gli Americani. I quattro Americani che sono stati uccisi avrebbero potuto esserlo in altre circostanze, ma sono morti in queste: Gheddafi è stato eliminato, nessun regime coeso ne ha preso il posto, nessuno ha tenuto sotto controllo gli islamisti radicali e questi hanno potuto agire liberamente. Non sappiamo fino a che punto il loro potere crescerà, ma di sicuro hanno agito efficacemente per conseguire i loro scopi. Non è chiaro quale forza ci sia in Libia per sopprimerli. Non è nemmeno chiaro che impulso abbia dato ai jihadisti nella regione, ma hanno messo la NATO, e più precisamente gli Stati Uniti, nella posizione di dover scegliere tra intraprendere un’altra guerra nel mondo arabo con tempi e luoghi che non hanno scelto, o di permettere che le cose vadano avanti sperando per il meglio.
Come ho scritto, viene spesso tracciata una distinzione tra la posizione idealista e quella realista. La Libia è uno di quei casi in cui si può vedere l’incoerenza di questa distinzione. Se gli idealisti si preoccupano di conseguire scopi che sono morali dal loro punto di vista, allora la semplice eliminazione di un tiranno non basta. Garantire la buona riuscita comporta l’occupazione e la pacificazione del paese, come fu per Germania e Giappone. Ma l’idealista considera un tale atto di imperialismo inammissibile, perché violerebbe la dottrina della sovranità nazionale. In aggiunta, gli Stati Uniti non sono in una posizione tale da potersi permettere di occupare o pacificare la Libia, né questa sarebbe una priorità nazionale tale da giustificare una guerra. La reticenza dell’idealista nel trarre le logiche conclusioni del suo punto di vista, e cioè che unicamente rimuovere il tiranno non è la fine ma solo l’inizio, si è saldata alla volontà del realista di limitare le azioni militari rendendole insufficienti per i fini politici. Fini morali e mezzi militari devono accordarsi.
Rimuovere Gheddafi è un’azione difendibile moralmente, ma non per se stessa. Avendolo eliminato, la NATO si è ora assunta quelle responsabilità che spetterebbero a un popolo libico che non può gestirle. Come se non bastasse, non è stata presa in alcuna considerazione la possibilità che ciò che emergerà come volontà nazionale della Libia sarà un movimento che rappresenterà una minaccia ai principi e agli interessi dei paesi NATO. Il problema della Libia non era che non capissero i valori occidentali, ma che una parte significativa della popolazione li respingeva su basi morali mentre un gruppo più piccolo, comprendente combattenti veterani, li considerava inferiori ai propri valori islamici. Da qualche parte tra l’odiata tirannia e l’auto-determinazione nazionale, l’impegno della NATO per la libertà, come essa la intende, è andato perduto.
Non si tratta di un problema limitato alla sola Libia. Per molti versi esso ha giocato un ruolo in tutto il mondo arabo mentre l’Occidente cercava di gestire quanto stava accadendo. C’è un caso più immediato: la Siria. L’ipotesi lì e che la rimozione di un altro tiranno, in questo caso Bashar al Assad, condurrebbe a un’evoluzione che trasformerebbe la Siria. Si dice che l’Occidente dovrebbe intervenire per proteggere l’opposizione siriana dal massacro del regime di al Assad. Se ne può discutere, ma non assumendo che sparito al Assad, la Siria diventi democratica. Perché ciò accada, deve accadere molto di più che non l’eliminazione di al Assad.
Buoni propositi contro gestione delle conseguenze
Nel 1950 fu pubblicato un libro, intitolato “The Ugly American” [“Il turpe americano”, NdT], che parlava di un paese del Sudest Asiatico vittima di un brutale dittatore filo-USA e di una brutale rivoluzione comunista. Nel romanzo c’era un personaggio che era un nazionalista nel vero senso della parola e si impegnava a difendere i diritti umani. Come leader, non avrebbe accettato di essere un mero strumento nelle mani degli Americani, ma egli era la migliore speranza che gli Stati Uniti avessero. Un caso reale rispetto a quella situazione ideale fu vissuto nel 1963 in Vietnam, quando Ngo Dinh Diem fu ucciso in un colpo di stato. Egli era stato un brutale dittatore filo-americano. La speranza era che dopo la sua morte un nazionalista liberale, almeno passabile, lo rimpiazzasse. Una tale figura fu cercata a lungo; ma non fu mai trovata.
Liberarsi di un tiranno quando sei così potente come lo sono gli USA e la NATO costituisce, al confronto, la parte facile. Saddam Hussein è morto come lo è Gheddafi. Il problema è cosa viene dopo. Può anche accadere che un nazionalista liberale democratico appaia semplicemente dal nulla e afferri il timone, ma non è il risultato più probabile, a meno che non siate pronti per un’occupazione. E se siete pronti per l’occupazione, bisogna che siate pronti a combattere una nazione che non vuole che voi determiniate il suo destino, a prescindere da quali siano le vostre intenzioni.
Non so cosa ne sarà del movimento jihadista in Libia, ma esso ha mostrato di essere concreto e motivato, e le sue azioni hanno avuto eco nel mondo arabo. So che Gheddafi è stato un bruto malvagio che è meglio sia morto piuttosto che vivo. Non mi sembra affatto ovvio che rimuovere un dittatore migliori automaticamente le cose. Ciò che mi è chiaro è invece che se fai una guerra per ragioni morali, sei moralmente obbligato a gestirne le conseguenze.