DA HITLER A DE BENEDETTI PER ARRIVARE ALLA DECRESCITA. RUFFOLO-SYLOS LABINI: DUE LENZE E NIENTE COERENZE.
Sull’ultimo saggio, pubblicato da Einaudi (non una casa editrice qualsiasi), di Ruffolo e Sylos Labini, ha già scritto il nostro Mauro Tozzato, quindi non torneremo su quegli argomenti e sui commenti che ne sono scaturiti. Pare però che il rampollo di più nobile e grande padre non abbia preso bene le critiche. Ci può stare, siamo nel campo caratteriale dove ognuno reagisce come gli pare, soprattutto se non gli piace come appare. Poiché non siamo educande, almeno noi eviteremo di insolentirci, lasciando cadere offese (se mai ci sono state e per questo eventualmente ci scusiamo) e indignazioni professorali (che puntualmente sono arrivate), tuttavia, resta il nocciolo della questione da affrontare. La scienza non ammette debolezze, richiede rigore analitico, capacità di osservazione, comprensione dei fenomeni, dimostrazioni puntuali ecc. ecc., soprattutto nelle svolte e nelle rotture che intendono modificare paradigmi e concezioni invecchiate, in quanto come diceva Weber “…ognuno di noi sa che, nella scienza, ciò che egli ha fatto sarà invecchiato dopo dieci, venti, cinquant’anni. Questo è il destino, anzi, questo è il senso del lavoro della scienza […]A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza.[…]Essere superati scientificamente – è bene ripeterlo – è non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il nostro scopo”. Fin qui il metodo delle scienze, anche di quelle sociali e politiche, che, ad ogni modo, non autorizza nessuno, richiamantesi ad esso, a saltare di palo in frasca, a fare della contraddizione estemporanea (sul lungo periodo, invece, alcune incongruenze sono inevitabili) un’attitudine per compiacere ristrette comunità di potenti, con in mano il mercato dell’editoria, oppure, oligarchie baronali concedenti, se si sta ai patti, un pezzo di bancarella universitaria.
Andiamo, allora, immediatamente al succo della diatriba per chiarificare le diverse prese di posizione.
In un articolo, molto attendibile e coraggioso, del 7 febbraio 2012 Sylos Labini scrive: “Quando Hitler andò al potere nel 1933 oltre 6 milioni di persone (il 20% della forza lavoro) erano disoccupate ed al limite della soglia della malnutrizione mentre la Germania era gravata da debiti esteri schiaccianti con delle riserve monetarie ridotte quasi a zero. Ma, tra il 1933 e il 1936, si realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, anche più significativo del tanto celebrato “New Deal” di F.D. Roosevelt. E non furono le industrie d’armamento ad assorbire la manodopera; i settori trainanti furono quello dell’edilizia, dell’automobile e della metallurgia. L’edilizia, grazie ai grandi progetti sui lavori pubblici e alla costruzione della rete autostradale, creò la maggiore occupazione (+209%), seguita dall’industria dell’automobile (+117%) e dalla metallurgia (+83%)”. E, poi, precisa che: “L’intento del mio articolo è quello di mettere in evidenza la politica economica e monetaria seguita dalla Germania di Hitler per risollevare un Paese allo stremo. Una politica che, con i dovuti accorgimenti, potrebbe essere riproposta nell’Europa di oggi dove la disoccupazione ha raggiunto livelli inaccettabili”.
Sono ragionamenti pienamente condivisibili e in accordo con quello che sosteniamo da anni, quando affermiamo che stimolando i settori di punta (che all’epoca di Hitler erano appunto quelli citati da Sylos Labini, compresa però l’industria degli armamenti), grazie all’iniziativa di gruppi dirigenti che rompono gli schematismi economici, nonché quelli di subordinazione politica e finanziaria, con i quali le grandi potenze occidentali avevano incatenato la Germania, è possibile tornare ad essere protagonisti sotto il profilo geopolitico ed industriale.
Alcuni mesi dopo, forse in virtù di qualche pubblicazione sulla stampa nazionale, Sylos Labini porta il contrario di quello che aveva argomentato nei precedenti passaggi. Ecco delle estrapolazioni da un pezzo tratto da Micromega (9.11.12) : “… esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile. Ricordiamo che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi. Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” come si afferma nel titolo di un recente libro di Tim Jackson?”.
Da Hitler alle palle di Pallante, tramite Malthus (ce misérable), il passo è greve. Ve lo immaginate il futuro Führer che blatera di decrescita felice ai connazionali affamati? I tedeschi lo avrebbero preso a sassate e lui sarebbe rimasto per sempre un reduce. Restando bassi, senza uscire dal perimetro economicistico, si potrebbe rispondere con le parole dello stesso Marx, secondo il quale il capitale può crescere nel tempo senza necessariamente incontrare una barriera nella domanda effettiva, perché quest’ultima alla fine è una domanda che sgorga dal proprio seno; quanto poi alle risorse in esaurimento, ci si arrischia in questa previsione da due secoli. Ad elargirla gratuitamente sono, soprattutto, quelli che hanno abusato di tali materie prime e che ora vorrebbero impedire agli altri di servirsene alla stessa maniera. Si tratta sempre, oggi come ieri, di forme di neoromanticismo economico alle quali non crederebbe più nemmeno uno studente delle scuole superiori. In primo luogo, c’è la capacità del sistema di scoprire altri mercati, innovare la tecnologia, creare nuovi prodotti, migliorare i processi ecc. ecc., sfamando, dunque, la crescente popolazione; c’è, insomma, tutta quella dinamicità di cui il capitalismo ha già dato prova in questi secoli smentendo i limiti (i quali pure esisteranno ma che noi – i nostri figli e i figli dei nostri figli – probabilmente non vedremo in maniera generalizzata) di cui parla Sylos Labini. In secondo luogo, chissà poi, può sempre giungere inaspettata una bella epidemia a decimare la popolazione, simile a quelle già verificatesi in passato, che farà giustizia di tutto il genere umano, in primis di quello troppo generico e superficiale.
Ma non è finita, perché sono le risorse ad essere esauribili, mica le risorse di Labini, il quale ne ha di previsioni catastrofiche da annunciare, quasi inesauribilmente: “Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere”. E di grazia, come la imponiamo questa nuova economia della cooperazione? Ovviamente, con un conflitto contro i dominanti dell’attuale statu quo, in ogni sfera sociale. Dopodiché, da vincitori (se mai vinceremo, ma così utopisticamente possiamo soltanto prenderle, noi le botte e Sylos Labini le pubblicazioni), ed essendo divenuti la nuova forza costituita, coopereremo quanto basta per mantenere il potere, prendendo le giuste precauzioni (magari servendoci di adeguati apparati coercitivi) al fine di non farci scalzare da altri antagonisti esterni ed interni, pronti a sostituirci al primo segnale di debolezza e di scollamento. E buonanotte alla cooperazione. In principio, come alla fine, è sempre il conflitto strategico per la dominanza, la cooperazione è solo una delle sue tante forme apparenti e convenienti.
Per concludere, un accenno allo stile compiacente del duo Ruffolo-Sylos Labini che mira a subentrare, per fama, influenza, ed accondiscendenza, alla coppia Giavazzi-Alesina. Tuttavia, se in ossequio alla teoresi di cui sopra, essi coopereranno anziché confliggere coi poteri forti, vedranno spalancarsi le porte di un’età di rinnovato benessere, coincidente con la loro età pensionabile, cioè alla pensione dorata ci arriveranno quanto più si distanzieranno dalla scienza. Et voilà, non aggiungo altri commenti, ma faccio presente che non ci si fa belli con le astrazioni (la critica accesa alla fase finanziaria del capitalismo, comunque discutibilissima) e, poi, all’atto pratico, quando il concetto diventa carne ci si distrae troppo facilmente, come in questo frangente: “De Benedetti…imprenditore illuminato… dopo aver respirato la cultura industriale trasmessa dal padre, ingegnere meccanico, ha lavorato nel settore automobile con la Fiat, per poi diventare protagonista nei comparti ad alta tecnologia come l’informatica con Olivetti e le telecomunicazioni con Omnitel, la società da lui fondata…” (L’Espresso del 25.10.2012). Mettere costui, come ho già fatto presente a Sylos Labini privatamente, accanto alla categoria schumpeteriana dell’imprenditore innovatore è già un ardimento, indicarlo quale imprenditore illuminato, antagonista del capitalismo finanziarizzato, è un affronto all’intelligenza. Oltre a ciò, De Benedetti è stato tra gli artefici dello smantellamento dell’impresa pubblica dopo tangentopoli, ottenendo favoritismi e sconti su gioielli pubblici che ha presto trasformato in macerie economiche, da mero speculatore quale è. A me questo florilegio di labinate appaiono silos di ruffianate (o ruffolonate); potrei anche sbagliarmi ma non credo.
Da Antologia di Spoon River
Voi credete che le odi e i sermoni,
e lo squillo delle campane
e il sangue dei vecchi e dei giovani
martirizzati per la verità che vedevano
con occhi resi lucenti dalla fede in Dio,
abbiano compiuto le grandi riforme del mondo?
Credete che l’inno di Guerra della Repubblica
si sarebbe udito se lo schiavo
avesse servito al dominio del dollaro,
a dispetto della mondatrice Whiney,
e il vapore e i laminatoi e il ferro
e i telegrafi e il libero lavoro bianco?
Credete che Daisy Fraser sarebbe stata scacciata e sfrattata
se la fabbrica di scatolame non avesse avuto bisogno
della sua casetta e del suo podere?
O credete che la stanza da gioco
di Johnnie Taylor e il bar di Burchard
sarebbero stati chiusi se il denaro perduto
e speso per la birra non fosse andato a finire,
chiudendoli, a Thomas Rhodes,
a un maggiore smercio di scarpe e coperte,
e mantelli per bimbi e culle di quercia?
Ecco, una verità morale è un dente vuoto
che va otturato con l’oro.